mercoledì 31 agosto 2011

sabato 30 luglio 2011

Con Marquez (da Repubblica 8 marzo 2006)

Alla festa con Gabo Marquez


dal nostro inviato OMERO CIAI


CARTAGENA - CI SONO quattro cose che Gabriel Garcia Marquez, Gabo come lo chiama la gente o Gabito come lo chiamano i familiari, ama davvero. Il whisky, ma solo quello di malto e ben invecchiato, il baseball, la musica ballabile (bolero e rumba), e la diplomazia segreta. Appena si alza dal tavolo, alla fine della sua cena di compleanno («è un giorno come tutti gli altri, niente torte») guarda il bicchiere di whisky mezzo pieno e dice: «Ti regalo metà delle mie ricchezze. Ma se avessi saputo subito che eri un giornalista», continua, «non avrei scambiato con te neppure una parola». E aggiunge: «Ho fatto il giornalista tutta la vita e so come lavoriamo: troppo di corsa. Ci vuole più tempo per fare le cose bene. Non basta mai». «Sì, maestro ma in Italia tante persone la leggono, tante le vogliono bene». Sorride. Ha un modo di sorridere vero e tenero come quello di un bambino. Allunga un braccio che si appoggia sulla nostra spalla e dice ancora: «è vero, nella vita non c'è nulla di più bello che essere amati dagli altri». Siamo in un ristorante che si chiama «La Langosta» (l'aragosta), fuori le mura di Cartagena de Indias a qualche chilometro dal vecchio centro coloniale di questa cittadina dei Caraibi colombiani. E' un luogo un po' kitsch ricavato in una vecchia villa con ampio giardino e abbastanza appartata, lontano dalla strada. Lo ha scelto Mercedes Barcha, la moglie di Marquez, per evitare che il compleanno del marito si trasformasse in una festa fuori controllo. La "leonessa" - così chiamano Mercedes anche i parenti - veglia sulla vita dell' anziano scrittore, lo guida e lo controlla. è Mercedes che decide chi può disturbarlo, che cosa deve mangiare, quanto può bere, dove può andare. «Senza di lei, Gabo si troverebbe immediatamente perduto». Lui un po' si lamenta («finalmente posso mangiarmi una zuppa d' aragosta, se venite a pranzo a casa mia c' è solo il riso in bianco») ma accetta volentieri quest' amore ossessivo che lo cura - Marquez soffre da anni di un tumore al sistema linfatico - e lo conserva sano. Alla cena ci sono soltanto familiari (il fratello Jaime con la moglie e una figlia) e alcuni amici (l' attore italiano Salvo Basile che arrivò qui nel '68 per girare Queimada con Pontecorvo e non è più tornato indietro; un ex sindaco e i responsabili della scuola di giornalismo che il premio Nobel ha fondato a Cartagena). Marquez è un po' offeso perché un giornalista ha scritto che «ha la mano fredda come un moribondo». «Senti qua, ho la mano fredda?». Ovviamente no. Lui aveva fatto una metafora con il baseball. Il lanciatore nel baseball deve avere sempre la mano «calda», che vuol dire «allenata», «pronta» per quando deve lanciare e per questo muove continuamente il braccio, lo fa girare. Per lo scrittore è lo stesso - dice Marquez - deve avere la mano calda, allenata. E lui adesso si sente un po' fuori allenamento.

Poi ieri un inviato dell' Excelsior di Città del Messico ha scavalcato il muro della sua casa e s' è nascosto dietro una pianta per avere un reportage in esclusiva. L' ha beccato la cuoca ed è stato cacciato. «Se avesse suonato alla porta gli avremmo aperto», commenta. Adora essere così famoso ma rifugge i giornalisti e gli intellettuali. «Io non sono un intellettuale», dice. Gli piace la gente comune perché di questo si nutre. Delle storie della gente qualsiasi, quelle che usa nei romanzi. E si ferma più volentieri a parlare con un portiere, con un autista, con un cameriere che con un' altra persona famosa meno di lui. Ad Aracataca, l' epica Macondo di Cent' anni di solitudine dove nacque il 6 marzo di settantanove anni fa, c' è tornato in segreto qualche anno fa e ha fatto il bagno nel fiumiciattolo con le «pietre grandi come uova di dinosauro». Ma oggi non poteva andarci. Intanto - spiega - perché c' è un rischio per la sua sicurezza. Aracataca è a quattro ore di macchina da Cartagena, verso l' interno del paese. Zona di guerriglia. Poi perché - l' uomo è superstizioso - non vuole dare l' impressione che sta «tornando sui suoi passi» come qualcuno che sente vicina la morte. In famiglia c' è un aneddoto sul fiumiciattolo di Aracataca che racconta Jaime, il fratello. Gabriel Eligio Garcia (il telegrafista) e Luisa Marquez (meglio nota in famiglia come l' Ursula dei Cent' anni) ebbero undici figli. I primi, come Gabo, nacquero ad Aracataca. Gli altri, come Jaime che nella vita ha fatto l' ingegnere civile, nacquero a Sucre. Così quelli che da piccoli si bagnarono nel fiume delle uova di dinosauro sono più intelligenti, fantasiosi e scaltri degli altri. Marquez ha trascorso tutta la giornata nella sua casa: un gioco di cubi e quadrilateri rossi progettato più di dieci anni fa da un architetto colombiano. Lo hanno chiamato presidenti, amici ma anche gente comune. «Castro?». «Si anche Fidel». «Shakira?» (la rock star colombiana). «No, Shakira non ha chiamato ancora. Ma ci sentiamo spesso. Vado sempre ai suoi concerti, se posso». L' aspetto meno noto di Marquez, che stasera i commensali tra una zuppa di granchi e un sorbetto di maracujà vogliono scoprire, è la sua ossessione per la diplomazia segreta. Come quando andò da Clinton con un messaggio di Castro o come oggi che s' è offerto mediatore tra la guerriglia e il governo in Colombia. Ma questi sono i casi grossi, quelli che poi finiscono sui giornali.

La sua opera diplomatica invece è qualcosa di quotidiano, materia di ogni giorno. C' è sempre qualcuno che lo cerca affinché intervenga. Così c' è il caso del poeta cubano dissidente da salvare o quello di un colombiano, amico di amici, che non riesce ad ottenere il visto per gli Stati Uniti. Oppure, come racconta stasera, quella volta che un gruppo di esuli cubani a Miami lo contattarono segretamente affinché aiutasse un loro amico ammalato a tornare sull' isola dove «sarebbe stato curato meglio che in America». Ama questo potere di mediazione che gli attribuisce la fama e lo esercita tutte le volte che può. Marquez ha case in tutto il mondo. A Città del Messico, dove risiede la maggior parte dell' anno. A Bogotà. A Barcellona. A Parigi. Ma è qui a Cartagena che si sente a casa. Esce volentieri, cammina per le stradine del vecchio centro, un gioiello dell' architettura coloniale dove ha ambientato L' amore ai tempi del colera. E saluta tutti affabile e affettuoso come se avesse a che fare con i personaggi dei suoi romanzi. A Cartagena viene la Colombia chic. E dopo Marquez hanno comprato casa nel vecchio centro personaggi come Botero e Julio Iglesias. Alla fine della cena Jaime ragala al fratello una copia delle Mille e una notte, «il libro dei libri che avrà già letto cento volte». Sulla dedica c' è scritto: «Al mayor puta de Aracataca da un Gabitero». «Puta» nell' argot locale sta per mamagallo che tradotto in italiano vuol dire qualcosa come una persona a cui piace contraddire e prendere in giro gli altri. Mentre gabitero è una delle tre cose nelle quali può trasformarsi un amante della letteratura di Garcia Marquez. Ci sono i «Gabofolos» (ossia gli esperti), i «Gabofilos» (ossia gli amanti semplici) e i «Gabiteros» (che sarebbero i «tifosi»). Camicia verde pallido a maniche corte e insostituibile giacca leggera a quadretti (Marquez usa solo quelle) Gabriel s' avvia verso la porta del ristorante. «Andiamo a fare un giro in centro», dice alzando le braccia prima che intervenga Mercedes: «No Gabito domani. Oggi è tardi, andiamo a casa».

A casa di Aristide dopo il saccheggio, 2 marzo 2004

Ad Haiti nella casa di Aristide


DAL NOSTRO INVIATO OMERO CIAI


PORT-AU-PRINCE Non dovevano amarlo molto gli haitiani se, appena ha lasciato il paese per rifugiarsi in Sudafrica, hanno stuprato la sua casa portando via ogni cosa. Il portone di ferro verde della residenza di Aristide è ancora lì. Una porticina sulla sinistra è aperta. Nella guardiola del portiere non c' è nessuno. Entriamo. C' è un grande parco con un sentiero di ciottoli bianchi. Sulla destra, dietro gli alberi, una piscina, nemmeno tanto grande. Davanti a noi, lungo il sentiero, c' è un pianoforte sbilenco. Funziona. A sinistra, in fondo, la casa. è una costruzione circolare a due piani. Architettura contemporanea. Grandi vetrate. Un gruppo di ragazzi ci vedono e scappano. Ci dev' essere un ingresso secondario dall' altra parte del parco. Saliti tre scalini si entra subito nel salotto. Un tipo mascherato, con una stoffa a rete nera sulla faccia, sta cercando di separare un grande divano verde chiaro per portarselo via. Alle pareti fili tranciati, per terra album di fotografie aperti e calpestati. C' è Aristide in completo nero che stringe le mani ad un sacco di gente. E una copia dell' autobiografia di Hillary Clinton, con dedica. L' ha regalata al presidente il suo primo ministro, Yvonne Neptune. La dedica è molto affettuosa dice «grazie per tutto quello che hai fatto, tuo Yvonne». Alle pareti ci dovevano essere molti quadri, se ne percepisce la traccia sul muro. Tv, hi-fi, e gli altri oggetti di qualche valore sono già spariti. A sinistra del salone, c' è quel che resta di uno studio. Librerie, un archivio. Ci muoviamo circospetti perché abbiamo anche noi la sensazione di partecipare al saccheggio, di stuprare l' intimità di questa casa. William, l' autista, trova un quadro per terra e se lo mette sotto il braccio. Proviamo a spiegargli che non uscirà con noi se non lo rimette dov' era. Ma lui non ci pensa affatto. Scuote la testa e dice: «No, no, no, no», cantando, come fanno gli haitiani. Non ha fatto in tempo a portare via proprio niente, Aristide, l' altra notte, quando i marines sono venuti a prenderlo per portarlo all' aeroporto. Per terra, nello studio, c' è un ritratto a olio che lo raffigura, foto personali delle figlie e della moglie, una cassa di buste da lettera. è curioso: l' intestazione sulla parte anteriore dice «Jean Bertrand Aristide, Ex President d' Haiti». Devono essere quelle che si fece stampare nel 1996 quando cedette la presidenza al suo vice, René Preval. Sugli scaffali molti libri. Romanzi, come una copia di "Bahia de todos os Santos" del brasiliano Jorge Amado e un' altra dei "Miserabili" di Victor Hugo; ma soprattutto saggi o libri politici. C' è "Il mito di Sisifo" di Albert Camus e un' intera collezione di libri sul castrismo. Dalla conversazione di Frei Betto con il dittatore cubano, ad un manualetto che s' intitola "Fidel e lo sport". Ma c' è anche un' intera cassa di copie della sua autobiografia, "Ogni uomo è un uomo", tradotta in numerose lingue, italiano compreso. Esclusi i libri e molti documenti privati sparsi per terra, nella casa non è rimasto nulla. C' è un uomo che dice di essere uno dei camerieri e che cerca di scacciare, urlando e muovendo le mani come fossero mosche, i ragazzini che s' affacciano a guardare dentro. è lui che conferma la versione dell' arresto di Aristide da parte degli americani. «Sono prigioniero», gli avrebbe detto il presidente domenica all' alba lasciando la residenza. Mentre saliamo le scale per raggiungere il piano superiore, quello delle camere da letto, un giovanotto scende con un mucchio di stampelle sulle spalle. Ha arraffato le ultime giacche dall' armadio. La prima stanza è quella delle due bambine. I letti sono rovesciati. Hanno portato via tutto. Dai materassi ai giocattoli. Anche quella che doveva essere la stanza dell' ex presidente e di sua moglie è stata completamente saccheggiata. Vi si accede da una porta molto piccola. Subito a sinistra ci doveva essere il letto e, in fondo, seguendo il muro che gira a circolo, ancora uno studio. Un tavolo, oggetti di cancelleria. Alle pareti di nuovo impronte di quadri. Tre donne cercano tra i vestiti sparsi sul pavimento. Li alzano, li osservano, li provano. Dalle grandi vetrate entra una luce tenue, morbida, come le grandi foglie che proteggono la stanza dal sole. Fuori, nel parco, l' odore di un guscio caldo appena saccheggiato smette di inseguirci. Tra gli alberi c' è la stessa aria che si vive oggi in tutta la città. La scena è completamente cambiata, sa di primavera, di vita che riprende con un briciolo di speranza in più rispetto a prima. E non sono solo gli studenti che corrono festosi davanti al palazzo presidenziale. Ogni dettaglio è cambiato. A cominciare dall' acqua minerale. Oggi costa di nuovo un dollaro alla bottiglia e non più cinque come l' altro ieri quando questa città si preparava all' assedio. E' strano, Aristide da messia s' era trasformato in un ennesimo dittatore di quest' isola e la sua uscita di scena ha spazzato via in un lampo l' aria cupa che dominava la città. Non dovevano amarlo più come un tempo neppure i suoi ragazzi se, appena partito, si sono portati via tutto quello che Aristide era stato costretto a lasciare

Raul Rivero, 9 dicembre 2004, l'intervista che mi è costata l'espulsione da Cuba

Il poeta che sfida Fidel
Resto a Cuba per scrivere


DAL NOSTRO INVIATO OMERO CIAI


L' AVANA - La casa di Raul Rivero è al terzo piano di un palazzetto bianco nel vecchio quartiere di Centro Havana. Un rifugio modesto che raggiungiamo tra le bestemmie del tassista per le grandi buche nell' asfalto di calle Penalver, la strada che dal mare risale fino a questa collinetta. Bisogna arrivarci per parlare col poeta dissidente rilasciato, insieme ad altri oppositori, la settimana scorsa dal regime cubano. Rivero ha staccato il telefono e riceve solo quelli che s' avventurano fin qui. «Ho un enfisema ai polmoni», dice, quasi scusandosi, «e mi è andata via la voce. Non posso rispondere a tutti quelli che chiamano. Così il telefono non lo sento nemmeno». Ha aperto la porta guardingo, protetto dall' ombra del salottino. Ma appena sente «Repubblica» e «Italia», il suo volto s' allarga in un sorriso. «Ho conosciuto tanti giornalisti italiani quand' ero corrispondente a Mosca, erano i miei migliori amici. Oh, ma è passato tanto tempo». Raul Rivero ha 59 anni, è stato, a lungo, un giornalista di Prensa Latina, l' agenzia di stampa ufficiale cubana, per la quale, a suo tempo, lavorarono da giovani anche molti grandi personaggi della letteratura latino americana come Gabriel Garcia Marquez (che fu corrispondente a New York) e Mario Vargas Llosa. Dopo l' 89 e il crollo del sistema sovietico lasciò l' agenzia e iniziò a pubblicare le sue poesie. Nel 1991 firmò un documento conosciuto come «la lettera dei dieci intellettuali a Fidel Castro», nel quale si chiedevano riforme politiche ed elezioni democratiche. In seguito fondò Cubapress, che fu il primo nucleo di giornalisti indipendenti nell' isola, e la diresse fino all' arresto, nel marzo del 2003, e alla condanna a vent' anni di carcere per «attività controrivoluzionarie». è l' unico dei dieci intellettuali che scrissero a Castro a non essere andato in esilio. Deve la sua liberazione alla nuova politica di dialogo tra il governo cubano e l' Europa promossa dal premier spagnolo Zapatero? «Credo proprio di sì». Dunque fu un errore imporre sanzioni e provocare il congelamento delle relazioni diplomatiche quando siete stati arrestati? «No, in nessun caso. Però credo che con il regime cubano bisogna saper cambiare politica quando è necessario. In questo momento la proposta di riaprire il dialogo può avere conseguenze positive mentre insistere in un atteggiamento di scontro e sanzioni può solo provocare una maggiore chiusura del regime». Vuol dire che sotto la pressione internazionale Fidel Castro non ha mai liberato nessun dissidente? «L' esperienza indica proprio questo. Con una politica di scontro aperto - come quella che da sempre sostengono gli Stati Uniti - non si ottiene nulla. Pressioni, sanzioni, ricatti diplomatici non hanno mai funzionato con le autorità cubane». Fra pochi giorni, il 14, i ministri degli esteri dell' Unione europea si riuniranno per discutere la politica comune verso Cuba. «L' atteggiamento dialogante del premier spagnolo ha avuto delle conseguenze pratiche molto importanti. Sono convinto che altri prigionieri politici verranno rilasciati nei prossimi giorni. E, per questo, consiglierei ai governi europei di orientarsi per il dialogo. Ma dopo aver verificato bene che anche dalla parte cubana ci siano buone intenzioni. Nelle carceri cubane ci sono almeno altri trecento detenuti politici, c' è molto da ottenere con il dialogo». è stato sempre in isolamento nei venti mesi che ha passato in carcere? «Tutto il primo anno l' ho trascorso in una prigione di massima sicurezza in completo isolamento. Ero in una "cella di rigore" molto piccola e quando mi lasciavano salire al patio a prendere un po' d' aria avevo sempre le manette ai polsi e non potevo incontrare nessuno degli altri detenuti. Poi le condizioni migliorarono, mi trasferirono in un carcere meno duro». Poteva scrivere? «Mi hanno detto che potevo scrivere soltanto poesie d' amore». Doveva far leggere a qualcuno quello che scriveva? «Sì, sempre. Ma con gli agenti della sicurezza dello Stato succedono cose divertenti, a volte. Io scrivevo poesie d' amore a qualsiasi cosa. Finché un giorno ho scritto una poesia d' amore alla mia casa. Iniziava così: "Stanotte sta piovendo sulla mia casa". Non so perché, ma l' hanno censurata». C' è un aspetto contraddittorio che si nota subito a Cuba: in molti, privatamente, s' oppongono al regime, però quando si tratta di difendere qualcuno che è finito ingiustamente in carcere non si muove nulla. «Questa è una conseguenza della paura. I cubani hanno paura. Viviamo in una società molto chiusa, con un grande controllo da parte dello Stato, della polizia, nella quale nessuno si sente libero di esprimersi. Ci sono persone che conosco da una vita che quando mi incontrano cambiano strada. Oggi a Cuba io posso salutare al massimo due o tre persone pubblicamente». Crede che il carcere l' abbia cambiata? Continuerà a svolgere una dissidenza attiva verso il regime oppure pensa di essere più attento, più conciliante? «Sinceramente spero che il carcere non mi abbia cambiato. Io voglio vivere a Cuba ed essere libero di scrivere quello che penso. Adesso aspetterò quello che succede nelle prossime settimane. Se mi rendo conto che posso ancora svolgere il tipo di giornalismo in cui credo, quello che ho fatto prima di andare in carcere, resterò qui, altrimenti.. » Altrimenti? «Non lo so, forse sarò costretto ad andarmene». Le hanno suggerito di andare in esilio? «No. Mi piacerebbe uscire dall' isola ma con la possibilità di tornare. Sono dieci anni che non vedo mia figlia. Vive ad un' ora di volo da qui, in America. E ho una nipotina che non ho mai visto». Gli occhi chiari di Rivero si perdono osservando la stanza. La piccola libreria, la sedia a dondolo vicino alla finestra, il mobile di legno scuro graffiato dai gatti dove ha raccolto le lettere e i premi che ha ricevuto in questi mesi. Lo sa, ma non vogliamo costringerlo a dirlo, che anche la sua vita è entrata in quella strada senza vie d' uscita che ha costretto decine di intellettuali all' esilio prima di lui. Da quando è entrato in carcere ha ricevuto sette premi internazionali, borse di studio, attestati, sovvenzioni. L' ultimo è il comune di Granada in Spagna, che gli ha offerto uno stipendio per un anno se accetta di trasferirsi a vivere lì. Sirene fortissime che lo chiamano e lo seducono. Ma lui sa che andarsene potrebbe essere per sempre. E non ha nessuna voglia di lasciare questo quartiere di malaffare pieno di piccoli spacciatori, prostitute, vecchie che vendono sigari di contrabbando e ladruncoli dall' aria maliziosa. «Queste strade sono il sangue della mia poesia», dice, «non potrei vivere senza». «Ma io a Cuba sono come un fantasma. Non posso comprarmi una macchina, non posso comprarmi un computer. Vivo nel Medioevo, scrivo a mano sulla carta, eppure vorrei restare e lo farò se mi lasceranno lavorare in pace».

La Paz (da Repubblica, 9 ottobre 2005)

La vita sottosopra della città dove l' inferno tocca il cielo

OMERO CIAI


La Paz - All' inizio è un mal di testa. Come un chiodo a espansione nella base del cranio che ti lascia stordito e dolente per ore. L' effetto dell' altitudine, La Paz si trova a 3.600 metri, si cura solo con molta pazienza e con l' infuso, il "mate" di foglie di coca. Il primo giorno passa così, seduti accanto alla teiera calda con la pianta benedetta. «Camina lentito, come poquito y duermo solito» (Cammina pianissimo, mangia pochissimo e dormi da solo), sono le tre regolette per superare il "sorochi", quel giramento di testa che ti assale appena sbarchi dall' aereo dopo una discesa da brivido tra i picchi innevati dell' Illimani, la montagna sacra degli incas che domina, ad oltre seimila metri, la vallata della città. Appena la guardi dall' aeroporto La Paz sembra un cratere lunare. Una gola brulla e spoglia di case e sassi. Scendendo verso sud, nella parte più bassa sorge la zona ricca, i quartieri borghesi di Colacoto, La Florida, San Miguel. Man mano che si sale, a rovescio, la città impoverisce fino alle favelas aggrappate sul costone della montagna e alla spianata di El Alto, l' ex sobborgo divenuto ormai un' altra città, a quattromila metri. Così La Paz è una piramide rovesciata, una sorta di immenso imbuto con i ricchi giù giù in basso e i poveri su su in alto. Fondata a metà del Cinquecento dagli spagnoli, divenne capitale amministrativa della Bolivia - sede del Parlamento e dei principali ministeri - soltanto alla fine dell' Ottocento, quando esaurito l' oro e l' argento delle rocce di Potosì, l' economia del paese si concentrò sull' estrazione dello stagno. La Paz è una città di grattacieli e villette in basso, catapecchie di legno e pietra in alto. Il suo paesaggio cambia mentre si sale. Poco a poco le strade si fanno più strette e rotte, s' aprono voragini nell' asfalto, le fogne sono all' aperto, fiumiciattoli d' acqua marcia che scende verso il basso. Le facciate diventano screziate, poi del tutto senza l' intonaco. Ipotesi di case, costruite solo per metà. Questo scenario è abbastanza diffuso in America Latina. Anche in megalopoli come Caracas e Rio de Janeiro, la piccola e media borghesia vive nelle zone più basse, vicino al mare in questo caso, mentre l' esercito dei poveri s' arrampica sulle colline (cerros e morros), in favelas che sembrano sfidare le leggi delle fisica, con le case appese, una sull' altra, lungo il costone. La legge è sempre la stessa. Più devi salire e più sei povero, nonostante il panorama. E anche a La Paz, quando sali fino a mezza costa, la vista è spettacolare. Da destra a sinistra si domina tutta la valle. Però la tua casa è sicuramente senz' acqua, probabilmente senza impianto del gas e forse anche senza luce. Poi certamente è anche abusiva. Non ti appartiene. Ma se vivi a La Paz, hai un vantaggio rispetto a Rio e a Caracas: puoi vendicarti abbastanza facilmente contro tutti quelli che stanno in più in basso. @_TITOLETTO nero sx:Un paese in crisi perenne @_AR Tondo al VIVO:La morfologia di La Paz è un controsenso politico e strategico. E se, solo negli ultimi tre anni, crisi e proteste sono costati il posto a due presidenti bisogna rifarsi alla geografia della città per capirne il perché. Qui, affamare i ricchi è facilissimo. Ogni volta che coloro che vivono in alto decidono che hanno sopportato abbastanza è sufficiente che chiudano la strada per ottenere il risultato e paralizzare la città. Infatti qualsiasi cosa, per raggiunge La Paz, deve scendere dall' altipiano. è lassù che passano sia la strada provinciale che la ferrovia. Ed è lassù che c' è l' aeroporto. Da lassù arrivano gli alimenti, la benzina, il gas, e perfino l' acqua. E, lassù, fra vie dissestate aggredite dal fango e baraccopoli sudicie, ci vivono solamente indios, "kollas", poveri. Ogni volta che s' arrabbiano per qualcosa, vincono. è facile. Qualche mese fa mentre seimila vittime dei blocchi della zona sud circondavano il Parlamento esigendo la "mano dura" dell' esercito, centomila indios nativi, cinquecento metri più in alto, chiudevano tutte le vie d' accesso alla valle costringendo in meno di due giorni il presidente a fare le valigie. Negli ultimi anni il fenomeno si è ripetuto con straordinaria regolarità lasciando senza opzioni parlamentari e presidenti. A La Paz comandano quelli di El Alto, la gente della montagna, non c' è scampo: se vuoi governare devi scendere a patti con loro. è come se, per uno scherzo della geografia, gli abitanti di una bidonville avessero il potere di vita e di morte su tutti gli altri cittadini di un paese. E, da quando gli indios l' hanno capito, non c' è stata più partita. Blocchi stradali, non mediazione politica. Come in un gioco di scatole cinesi la morfologia di La Paz simboleggia quella dell' intero paese. Questa spaccatura così netta fra l' alto (i più poveri) e il basso (i più ricchi) riproduce esattamente quella geografica fra le zone dell' altopiano andino e le vaste pianure che confinano con il Paraguay e il Brasile; e quella etnica. In montagna, sopra i quattromila, vivono gli indios nativi (30% quechua, pronipoti della colonizzazione incaica, e 25% aymara), in pianura europei (15%, in maggioranza spagnoli) e meticci (30% per cento del totale). Ossia, secondo la denominazione comune e abbastanza razzista nei due sensi, in pianura vivono i "cambas", mentre la montagna è territorio dei "kollas". Due popoli. I primi sono imprenditori, funzionari, laureati, aristocrazia coloniale al potere proprietaria delle - ancora numerose - risorse naturali, dal gas al petrolio; gli altri sono "nativi" poveri, contadini, disoccupati, nullafacenti che fanno della Bolivia uno dei paesi con indici di sviluppo umano da quarto mondo. Esempio: il 36% dei boliviani non ha un lavoro; il 64% vive al di sotto della linea di povertà (cifra che sale all' 82% tra i nativi); il 37% è del tutto indigente; il 51% dei bambini soffre di anemia. @_TITOLETTO nero sx:Cinque secoli di saccheggi @_AR Tondo al VIVO:L' eccezionalità della Bolivia è quella di essere l' unico paese dell' America Latina dove la colonizzazione spagnola (o portoghese) non ha concluso il suo ciclo di mattanze. Ragion per cui gli indios puri sono ancora la maggioranza del paese. Sono più dei discendenti dei colonizzatori e anche più dei meticci. L' altra eccezionalità è quella di essere stato uno dei paesi più saccheggiati negli ultimi cinque secoli. All' inizio furono le miniere d' oro e d' argento che sostennero gli sfarzi e gli eserciti della corona spagnola. Poi vennero gli inglesi che cercavano fertilizzanti e salnitro (per la polvere da sparo). Poi, non ancora era finito l' Ottocento, vennero i cercatori di gomma, il caucciù, e la Bolivia - che era il secondo produttore mondiale - regalò alla Goodyear le ruote per la nascente industria dell' auto. E poi lo stagno, minerale strategico durante la Seconda guerra mondiale. E il petrolio, e il rame, e il gas. La storia del saccheggio delle risorse naturali boliviane si confonde con quella della nostra modernizzazione industriale: un' altra piramide a rovescio. A dominare è sempre stata "la logica di Potosì", quella della colonia da spogliare di risorse. Come gli spagnoli, che in un paio di secoli trasportarono in Europa tutto l' oro della Bolivia, quando nel 1924 la Standard Oil scoprì il primo pozzo di petrolio tenne nascosta la notizia al governo locale. E per tredici anni, fino al 1937, trafugò il greggio senza pagare neppure un dollaro di tasse. Forse non basta a spiegare l' assoluta povertà di questa città e di questo paese ma di sicuro aiuta. I boliviani hanno avuto sempre pochissimo dal loro ricchissimo sottosuolo. E, fino a vent' anni fa, gli indios avevano una sola risorsa per sopravvivere: la coltivazione della foglia di coca. Nel 1990 il 30% della popolazione viveva grazie alle piantagioni. Poi arrivarono la Dea (l' antinarcotici americana) e i programmi di fumigazione a tolleranza zero. Dalla coca agli ananas. Ma la riconversione non funziona. è una questione di rendimento. Una piantagione di coca regala quattro raccolti all' anno, con pochissimo lavoro come valore aggiunto, e consente ad una famiglia di contadini di vivere agiatamente, l' ananas no. Così, la tolleranza zero, ha prodotto un nuovo esodo di contadini impoveriti dalle zone sub-tropicali del Chapare alle montagne di La Paz. E quando, nel 2000, il presidente Sanchez de Losada ha firmato un contratto per esportare il gas boliviano, via Messico, fino alla California, le favelas sono esplose, costringendolo alla fuga. Così oggi - altra eccezionalità - la Bolivia è uno dei luoghi tendenzialmente più conflittuali del Sud America. Fratture sociali, regionali e politiche, ormai ingovernabili, la rendono esplosiva. E l' ultima grande risorsa naturale che le resta, nel sottosuolo boliviano - la Pachamama degli indios - ci sono i giacimenti più ricchi di gas del continente, è divenuta la calamita di uno scontro finale. Nelle pianure cresce, guidato dall' élite bianca, il movimento separatista che vorrebbe staccarsi dalle regioni andine degli altipiani, commercializzare gli idrocarburi e agganciarsi al treno della globalizzazione; mentre sulle montagne s' ingrossa quello indigeno che, arroccato a difesa dell' ultimo tesoro, s' oppone allo sfruttamento indiscriminato del gas così come s' è opposto alla distruzione delle coltivazioni di coca. Global e no global, ecco servito il terreno ideale per il conflitto del secolo in corso. L' ennesimo. Stavolta all' interno. Nessuno dei due blocchi sociali è in grado di prevalere democraticamente sull' altro, né di avere la forza sufficiente per governare. Dovrebbero scendere a patti. Ma, visti i presupposti, gli spazi sono alquanto stretti. Di guerre, in ogni caso, la Bolivia è paese esperto: ha perso tutte quelle che ha combattuto. Quattro in meno di cent' anni. Contro il Cile, alla fine dell' Ottocento, perse il mare nella cosiddetta "guerra del Pacifico". Contro il Brasile, all' inizio del Novecento, perse quasi tutta la provincia amazzonica dell' Acre, quella del caucciù. E, infine, contro il Paraguay e l' Argentina, nel 1932, perse la guerra per il controllo dei giacimenti di petrolio del Chaco, regione che gli apparteneva. Città dalle salite (e discese) mozzafiato, La Paz conserva sempre qualche sorpresa per lo straniero che la percorre. Le più gioiose sono i suoi numerosissimi mercati che trovi all' improvviso appena girato l' angolo e dove prevalgono le sciarpe, i maglioni e i copricapo di lana di alpaca, morbidi e colorati. Basta una piazza, uno slargo, perfino un marciapiede per fare spazio alle donne che stendono a terra le loro vivaci mercanzie. Città di colori forti e condizioni un po' estreme ti lascia dentro una nostalgia ambivalente. Perché tornarci è comunque uno sforzo e una scelta come sopportare il mal di testa che, finalmente, quando la lasci si dissolve lentamente insieme agli ultimi sguardi che dall' aereo le concedi.

Il lungo addio di Zp

REPUBBLICA 31 luglio 2011


Finisce l´era Zapatero "Al voto a novembre"



Consensi in calo dopo il crollo dell´economia e la rivolta degli indignados
Il leader socialista lascerà la politica 4 mesi prima della scadenza naturale della legislatura


OMERO CIAI
Questa volta la sua era politica è davvero finita. Dopo undici anni da segretario del partito socialista e sette abbondanti da premier; dopo l´annuncio che non si sarebbe ricandidato (2 aprile); dopo la sberla elettorale alle amministrative (22 maggio); dopo la rivolta dei giovani indignados della Puerta del Sol; dopo l´ascesa del barbuto Rubalcaba come successore; dopo l´ennesima minaccia di Moody´s pronta a declassare ancora il rating del debito (oggi AA2): il lunghissimo addio di José Luis Rodriguez Zapatero, ex "Bambi", il leader spagnolo di gran lunga più amato all´estero, ha una data di scadenza. È il 20 novembre: da ieri appuntamento delle elezioni generali anticipate. Da quel giorno "Zp" non sarà più neppure deputato, tornerà semplicemente a León, sua città natale.
Anticipando di quattro mesi rispetto al marzo 2012 la data delle politiche, Zapatero ha infine ceduto alle pressioni dei mercati finanziari, delle banche, degli industriali, ma anche del suo stesso partito convinto ormai che una eventuale sconfitta dei socialisti (quella che predicono da mesi tutti i sondaggi) fosse comunque preferibile alla snervante agonia di un premier travolto dalla crisi economica (inflazione, disoccupazione, Pil) e ormai rinnegato dagli stessi elettori che ne decisero il trionfo nel 2004 e nel 2008. Il primo ministro uscente ha motivato la scelta di anticipare il voto con la necessità di «fissare un calendario chiaro per restituire stabilità» alla situazione politica. Ma il colpo di grazia alle sue speranze di portare a termine la legislatura e di lasciare la Moncloa - la sede del capo del governo - con qualche segnale positivo sul fronte dell´economia, glielo ha assestato Juan Luis Cébrian, fondatore di El Pais e oggi ad del gruppo editoriale. «Basta, meglio votare subito», ha scritto una settimana fa in un editoriale graffiante che - dicono a Madrid - avrebbe addolorato molto Zapatero. Per due ragioni: possibile che il quotidiano di riferimento del governo socialista sferra un simile attacco senza neppure avvisare con una telefonata la Moncloa? E, seconda ragione, perché dietro l´attacco del País Zapatero ha visto il pugnale di un Rubalcaba già stanco di aspettare il suo turno e convinto che votare in autunno sarà comunque meno doloroso per il partito che farlo in primavera.
Lo scenario è pessimo. Il leader politico che ha promosso in Spagna alcune delle riforme etiche e sociali più importanti dell´ultimo decennio (dalle leggi in difesa delle donne, all´aborto, al divorzio express, ai matrimoni gay, al recupero della memoria storica del franchismo); che ha varato il primo governo nel quale i ministri di sesso femminile erano maggioranza rispetto a quelli di sesso maschile: abbandona la scena isolato nel suo partito e quasi disprezzato dagli elettori. I tagli alla spesa e le tasse che è stato costretto ad imporre non hanno restituito fiducia verso la Spagna ma hanno disgustato i suoi votanti. Una eredità che presenta aspetti dolorosi come la disoccupazione al 20% ed una previsione di crescita rachitica, sotto l´1 per cento.
«Una decisione presa nell´interesse generale quella di anticipare il voto», ha spiegato "Zp" in conferenza stampa, in modo che «già dal primo gennaio il nuovo governo potrà lavorare al recupero dell´economia e alla riduzione del deficit». Mariano Rajoy, il capo dei conservatori, applaude. I sondaggi attribuiscono al suo partito popolare un comodo vantaggio al di là del 7-10 percento dei voti. E lui vede premiata la sua capacità di resistenza dopo sette anni di rincorse. Ora tutte le speranze dei socialisti sono riposte in Alfredo Perez Rubalcaba, l´uomo forte dell´apparato, ex ministro degli Interni e ex vicepresidente del governo. Sessant´anni, Rubalcaba è passato alla storia finora per aver guidato la lotta contro il terrorismo basco e spera in questi quattro mesi scarsi «di recuperare la fiducia degli elettori».
Ha sorpreso la scelta della data: poteva essere una qualsiasi domenica di novembre ma è il 20, giorno nel quale trentasei anni fa gli spagnoli seppero che Francisco Franco era «passato a miglior vita». «Per me è un giorno come tutti gli altri», ha precisato Zapatero. Ma c´è il sospetto che si voglia caricare di passione ideologica l´elezione per spingere almeno una parte degli elettori di centrosinistra riluttanti a recarsi alle urne. In fondo con la morte di Franco la Spagna riconquistò la democrazia e gli avversari del partito popolare sono ancora i suoi "nipotini" ideologici.

Camila Vallejo, presidente Fech, questa ragazza andrà lontano

giovedì 28 luglio 2011

Barcellona in inglese

trends
Barcelona bliss for all kinds of Italians

23 July 2009 La Repubblica Rome


Barcelona attracts more and more Italians, who this year make up the biggest foreign community in the Catalonian capital. Young people are particularly drawn to its congenial setting and economic dynamism. But the region has also become a refuge for the heads of the Italian Camorra, alerts La Repubblica.

Omero Ciai

Every year, more Italians are settling in Barcelona, attracted by more than just Las Ramblas, the fantastic pinnacles of La Sagrada Familia and the spicy bacalhau fritters described by Pepe Carvalho. The city of Gaudí and Mirò is becoming a new Eldorado for our fellow citizens.

"It's about the attitude, the state of mind," a chef from Friuli who struck gold in the Catalonian capital explained to French daily Le Monde. "Here, people are positive, and foreigners are welcomed in a way that compares to nowhere else." This year, the Italian community became the largest of the new minorities now settled in the city, outnumbering Ecuadorans, Pakistanis and Bolivians.

The latest batch no doubt arrived in the wake of footballer Zlatan Ibrahimovic, when he left Inter Milan for the magnificent Barça, but the fact is that 22,685 Italians were recently counted in Barcelona, and new arrivals are rising at a rate of 15 to 20 percent per year. Currently nearly 50,000 Italians reside in Catalonia. In 2000, they were barely 15,000. And these official statistics may only reflect half the actual number. Whereas in other cities, retirees make up the bulk of new residents, the newcomers to Catalonia are young people between 25 and 40. Often they are recent college graduates, sceptical about the Italian political and social scene, and the tight job market at home.

They don't always find a better position in Barcelona. Most work in the restaurant business, in retail, or in call centres. Wages are low and these jobs have no future, but Barcelona is perceived as a city where "life is better". For at least twelve years now, Barcelona has been fashionable among young Italians, both as a place to start a new life and as a travel destination, for leisure or school (one quarter of the foreign students who come on an Erasmus scholarship are Italian). Coastal Barcelona is well ahead of Madrid as an enchanting city, with its small squares and fountains, drenched in sunlight, hardly ever gloomy, careful to defend its cultural diversity, and yet never hostile to foreigners or withdrawn.

This new "Italian passion", as Le Monde termed it, is still blazing brightly, despite the recession. Life is no more expensive here than it is in Italy, and in recent years, job possibilities are the same in both places – that is, just as much a matter of luck. The Consulate believes the economic situation may stem the tide of Italians arriving in Spain, but it will not change their destination: Barcelona's Italian community is bound to keep on growing.

Undeniably, this "invasion" was stimulated by the "Tremaglia Law" which enabled the descendants of Italians who emigrated to Latin America to reclaim the nationality of their parents and grandparents: Argentineans, Uruguayans and Brazilians have flocked to Spain and remained there, as often because they already speak the language as for economic reasons.

But Barcelona is also a glittering, glamorous name, an attractive logo. The brochures put out by the Chamber of Commerce promote it as the quintessential Mediterranean city. The economic dynamism of the past decade has made it attractive to thousands of European and Italian students, who have found first jobs or cut their career teeth here. Italians who have fallen in love with Barcelona have created a website providing all sorts of helpful information for incoming Italian settlers, from apartment-hunting tips to classes in Spanish. Moreover, Barcelona is perceived as a liberal-minded city: wealthy but socially conscious, the capital of the anti-fascist struggle during the Spanish Civil, the one George Orwell defended and described. In other words, it's the "other Spain", quite different from arid Castile.

Of course, all that glitters is not gold. Catalonia and the Costa del Sol, all the way to Marbella, have also become an asylum for 70% of the godfathers of the Neapolitan Camorra. The migratory flow which began in the 1980s has never dried up. Italian investigators believe that this little piece of paradise is also a hub for the Cosa Nostra and ‘Ndrangheta, the organizational nerve centre of Europe's illicit drug trade. These suspicions seem to have been confirmed by the arrest of six kingpins in Marbella, the seaside resort Spanish police now refer to as "Cosa Nostra" because of the high density of mafia crime bosses who live there.

nella redazione dell'Unità (fine anni '80)

un quadro di Valeriano

mercoledì 27 luglio 2011

martedì 26 luglio 2011

lavori recenti

MARTEDÌ 12 LUGLIO 2011
OMERO CIAI
«Con la Rivoluzione, tutto; contro la Rivoluzione, niente», questa famosa frase di Fidel dev’essere riecheggiata nell’ufficio di sua nipote Mariela, figlia minore di Raul, che all’Avana dirige il Centro nazionale di educazione sessuale (Cenesex). In questi giorni Mariela ha infatti licenziato una sua discepola, forse la più amata, colpevole di essere andata a letto con il nemico. La peccatrice è una bella transessuale “habanera” che si chiama Wendy Iriepa, ha 36 anni, e da tempo lavora come assistente personale di Mariela.
I rapporti fra Wendy e Mariela si sono rovinati quando la figlia del presi- dente cubano ha saputo che la sua assistente si sa- rebbe sposata con un omosessuale, Ignacio Estrada, che milita in una organizza- zione legata al dissenso ed è stato promotore di un Gay Pride indipendente nella capitale cubana. «L’ho invitata al mio matrimonio — ha raccontato Wendy — e lei all’inizio voleva essere il mio testimone ma quando ha saputo che lo sposo era Ignacio mi ha detto che non poteva neppure venire perché lui è un dissidente. Da quel giorno ha cominciato a vedermi come una minaccia, un pericolo».
Nel Cenesex Wendy aveva un incarico di fiducia, era perfino colei che assaggiava i pasti che poi la figlia di Raul consumava, apriva i pacchi diretti a Mariela e controllava per prima i regali che riceveva. Una sorta di bodyguard che si occupava anche di proteggere Mariela da eventuali attentati. Dopo l’an- nuncio del suo matrimonio ha perso il posto. «Mi ha al- lontanato, mi ha detto di andare a fare le pulizie nelle stanze del Centro e mi ha consigliato di presentare le mie dimissioni».
Ma Wendy non era solo una fedele collaboratrice di Mariela, era diventata in questi anni una sorta di emblema dell’istituto diretto dalla nipote di Fidel. Segui- va Mariela in tutti gli ap- puntamenti e nei Congressi internazionali presentata come un simbolo del nuovo corso cubano in fatto di sessualità. Infatti se suo zio (Fidel) e suo padre (Raul) avevano costruito lager per la rieducazione degli omosessuali, lei (Mariela) lottava contro il maschilismo dei cubani per affermare i loro diritti. E Wendy era un testimonial perfetto. Da piccola, quando era stata registrata all’a- nagrafe come maschio, era stata maltrattata dai suoi genitori perché giocava con le bambole, di- scriminata a scuola e spedita in un riformatorio. La svolta quando incontrò Mariela che la accol- se nel suo centro libertario, la aiutò ad operarsi, e a cambiare
identità da uomo a donna. Per il suo lavoro a favore delle minoranze sessuali Mariela Castro è diventata in questi anni un fiore all’occhiello del regime. Intervistata dal New York Times e corteggiata dai settimanali si è cucita addosso l’immagine antidogmatica e anticonformista di un potenziale leader riformista. Tanto che, insieme al fratello Alejandro, è salita nelle top ten per il futuro ormai prossimo del castrismo senza Fidel e senza Raul. Evidentemente però le li- bertà sessuali sono una cosa e quelle politiche tutt’altra. Senza dimenticare che Wendy ha scelto un giorno davvero sbagliato per sposare il suo Ignacio: il 13 ago- sto, data del compleanno numero 85 di zio Fidel. Così testimone di nozze sarà una grande nemica di Mariela: Yoani Sanchez, la blogger dissidente, che quando ha ricevuto l’invito della coppia ha accettato subito.
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Lo stretto della Florida

Rui forever

Silvia a Gallipoli


Repubblica (i miei precettori maurizio ricci e alberto flores)

Anna e Nur