lunedì 27 febbraio 2012

ISLA ROBINSON, 7 marzo 2010

Cile, nell'isola di Robinson Crusoe
"In salvo dallo tsunami nelle sue grotte"
L'isola che ispirò il romanzo di Defoe coltiva con cura il proprio mito e i tesori nascosti. Martina mostra con orgoglio le foto sui giornali: è stata lei a dare l'allarme e salvare il villaggio
dal nostro inviato OMERO CIAI


ISLA ROBINSON (Cile) - Lui, Robinson Crusoe, si sarebbe salvato dal maremoto che ha strappato dall'isola quasi metà del villaggio di San Juan Bautista, nella baia di Cumberland. È l'alba, quando arriviamo dopo due giorni di viaggio in mare da Valparaiso.

E la prima luce del sole illumina proprio le cinque grotte di Robinson che ricordano quell'avventura sulla collina al di sopra della spiaggia. Le onde da venti metri dello tsunami di sabato 27 febbraio hanno solo sfiorato il costone della collina trascinando via tutto quello che c'era sotto: settanta case di legno e sedici persone, quattro delle quali bambini. La maggior parte dei 600 abitanti dell'isola, invece, sono riusciti a salvarsi correndo verso la collina o seguendo l'esempio di Robinson che, trecento anni fa, costruì il suo rifugio lontano dal mare, in alto, nei boschi di cipressi ed eucalipti.

Per scrivere il suo leggendario romanzo, Daniel Defoe si ispirò ad un libro di viaggi del capitano Cooke, pubblicato nel 1712, nel quale si narrava la storia vera di un marinaio scozzese, Alexander Selkirk, che sopravvisse da solo su quest'isola del Pacifico fra il 1704 e il 1709. Al personaggio Robinson, la sceneggiatura di Defoe regalò un compagno d'avventure, il selvaggio Venerdì, i cannibali, i pappagalli da addestrare e lo costrinse sull'isola per oltre ventisette anni contro i poco più di quattro della vicenda reale del marinaio scozzese. Ma l'idea originaria è quella e ancora oggi Isla Robinson ne conserva le tracce.

Se
le grotte di Robinson sono intatte, la sua statua non ha avuto la stessa fortuna. A pochi metri dal molo c'è quel che ne resta, appena il basamento con le gambe amputate. Il suo busto, la testa con la folta barba protetta dal famoso cappello tondo di pelle di capra che si vede in tutte le illustrazioni di Robinson/Selkirk, se ne sono andati per sempre. Tutt'intorno nient'altro che detriti. Assi di legno spezzate, una vasca da bagno, una piccola macchina per fare il pane, qualche cd, un pallone verde, stivali impermeabili, due poltrone di cuoio, quaderni. Chamorro, un pescatore d'aragoste che aveva costruito la sua casa con legno e bottiglie di vetro, rievoca la violenza del mare. Anche lui si è salvato correndo verso il bosco, ma adesso si dispera per non aver avuto il tempo o la freddezza necessaria ad acciuffare il suo cucciolo di setter, inghiottito dall'acqua insieme a tutte le sue cose.

Lo tsunami ha cancellato il faro, la chiesa, il campetto di calcio, l'edificio della capitaneria di porto, quello del sindacato dei pescatori, la scuola elementare, la casa del sindaco, il comune, e la locanda di Ximena Green, la più nota dell'isola. Anche il cimitero in fondo alla baia è distrutto. Le lastre di marmo sono rotolate verso valle, spaccandosi. Più in alto ci sono otto nuove tombe. Su quella di Maite, tredici anni, ci sono due palloncini da circo intrecciati a forma di giraffa, arancione e blu. Lei, Matthias, sette anni, e Joaquin, otto compiuti a febbraio, non hanno avuto la stessa fortuna di Martina, la bimba, figlia del carabiniere Luis Maturana, che alle quattro del mattino del 27 febbraio ha suonato il gong svegliando il villaggio pochi minuti prima delle onde.

La sua casa di fronte al mare non c'è più, ma ora lei non sta nella pelle dalla felicità. Scruta la sua foto sui giornali e sorride contenta come l'eroina di una favola a lieto fine, la sua. L'istinto di ragazzina che le ha fatto prevedere il maremoto ha sottratto all'oceano suo padre, sua madre, e Antonia, la sorella più piccola, ma anche decine di altri abitanti del villaggio.

Crocevia di pirati e galeotti, quest'isola vulcanica del piccolo arcipelago di Juan Fernandez, a 670 chilometri dalle coste cilene, si è chiamata "Mas a Tierra" fino al 1966, quando venne ribattezzata "Isla Robinson" nella speranza che il mito letterario diventasse una risorsa turistica per i suoi abitanti, quasi tutti pescatori d'aragoste. Come nel romanzo di Defoe ci sono perfino il Forte e i cannoni, le capre e i falchi. E nelle sue baie disabitate leoni marini e foche. Ma più che la vicenda dell'avventuroso marinaio e dei suoi selvaggi, nudi e cannibali, quest'ultimo paradiso è diventato famoso per le leggende dei suoi tesori. Corsari come Francis Drake e William Dampier avrebbero usato l'isola come cassaforte lasciando ai posteri mappe, vere o false, di favolosi tesori. Bernard Keiser, un archeologo dilettante americano, ha speso una fortuna setacciandone per più di dieci anni le spiagge e i boschi. Cercava 600 barili pieni di monete d'oro per un valore pari ad alcuni miliardi di dollari. Nonostante la sua tenacia, Keiser non ha conosciuto la gioia di un ritrovamento. Anzi, oggi non può più nemmeno venire in Cile, per via di una storia che di leggendario non ha nulla. Mentre scavava ha conosciuto Rosita, l'ha sposata ed ha adottato i suoi due figli; finché un giorno, qualche anno fa, lei ha preteso la metà del patrimonio e l'ha denunciato. Se torna l'arrestano.

Leopoldo Charpentier, il sindaco, alimenta le favole e si dichiara, insieme a tutti i residenti, discendente di coloni tedeschi, francesi, spagnoli e svizzeri, custode e protettore di tutti i tesori sotterrati nell'isola. Fra le carte più preziose dell'archivio comunale, scomparse dopo lo tsunami, c'erano testimonianze secondo le quali a Isla Robinson sono stati nascosti, insieme ai famosi barili di monete d'oro, dodici anelli papali, la chiave del Muro del Pianto, la Rosa dei Venti e perfino il prezioso collare della moglie di Atahualpa, il re degli Incas.

E la leggenda corre. Tanto che nei giorni prima del disastro c'era una missione di ricercatori francesi convinti di aver individuato al largo dell'isola i resti di un galeone spagnolo naufragato alla fine del '600. Lo tsunami è arrivato mentre preparavano le immersioni subacquee in cerca dell'oro e dell'argento rubato a Potosì. Sull'argomento, Charpentier è drastico. E arriva a sostenere che il maremoto è la punizione divina che ha scacciato gli "invasori" francesi perché si erano rifiutati di accettare un accordo con i residenti sulla destinazione del tesoro che avrebbero potuto far riemergere dal fondo del mare.

Da anni l'isola di Robinson muove la sua guerra immaginaria contro tutti i cercatori di tesori e, soprattutto, contro il Continente, il governo cileno. La legge prescrive che qualsiasi moneta d'oro venga ritrovata sull'isola debba essere consegnata allo Stato, mentre prevede una regalia, il 25% del valore, solo nel caso in cui chi la ritrova sia uno straniero. È l'illusione che spinge fin quaggiù americani, spagnoli e francesi. Charpentier sorride. "Noi sappiamo dove sono i tesori e saranno dissotterrati solo quando avremo la certezza che nessuno se li porterà via. Vogliamo costruire il nostro museo qui sull'isola".

Quando non sono illuminate dai raggi del sole, le pareti rocciose dell'isola hanno un aspetto un po' lugubre, come tutte le sue leggende. Sul fondale, di fronte alla baia, c'è una nave da guerra tedesca, la Dresden. I suoi marinai l'affondarono nel 1915 mentre erano circondati senza scampo da un gruppo di navi inglesi. Prima, Isla Robinson era stata usata come carcere. Gli spagnoli vi abbandonarono i patrioti dell'indipendenza cilena sconfitti nella battaglia di Rancagua del 1814. Oggi in tutta la baia si vedono soltanto fuochi. Sono i sopravvissuti allo tsunami che bruciano i resti delle loro case polverizzate dall'acqua. Chissà quanti pensano adesso di andarsene come Robinson Crusoe, dopo "ventisette anni, due mesi e diciannove giorni", senza dimenticare "il cappello di pelle di capra, il pappagallo e il denaro che - scrisse Defoe - avevo trovato in una nave spagnola che era naufragata".
(07 marzo 2010) © RIPRODUZIONE RISERVATA

domenica 19 febbraio 2012

DILMA ROUSSEFF (repsera 12.01.2012)























Dilma piace. S’elevò nel primo governo dell’ex presidente brasiliano Lula (2002-2006) proprio per quel suo carattere, deciso e forte, e quel suo modo di applicarsi ai compiti, da secchiona attenta ad ogni dettaglio, tanto da conquistarsi fra la sorpresa generale l’appoggio del leader che la lanciò come miglior candidato per succedergli. Delusi e gelosi gli altri aspiranti traditi e i baroni del partido dos trabalhadores, al potere in Brasile, presero sottovoce a chiamarla “la mandona” (la prepotente). Ma il suo mentore, Lula, aveva ragione perché Dilma Rousseff ha prima vinto le elezioni e poi conquistato i brasiliani. Oggi il suo indice di approvazione personale supera il 72% e quello del suo governo batte tutti predecessori al giro di boa del primo anno (53%). Era l’economia, stupidi. Direbbe qualcuno proprio adesso che il boom brasiliano è entrato nella sua fase critica e che, questa Lady di Ferro dei Tropici (come la definiva ieri il Financial Times), si vedrà costretta ad affrontare la prova più difficile: evitare l’inversione della crescita. Da quello che faranno nei prossimi mesi Dilma e il suo governo dipenderà nel breve periodo il futuro dell’economia brasiliana che dopo dieci anni di forte espansione da sei mesi ha bruscamente rallentato. Colpa della crisi mondiale, della concorrenza cinese (tessile e calzature), e dell’apprezzamento della moneta (il real) rispetto al dollaro che ha reso più costose le esportazioni. Ma non solo. Molti analisti ammoniscono sulle debolezze storiche del Brasile (istruzione e infrastrutture) e attribuiscono al sistema, e non alla contingenza, le responsabilità della frenata e il risorgere di un demone antico da queste parti, l’inflazione, già al 6,5%.

Nubi all’orizzonte che i cittadini ancora non percepiscono nelle loro tasche ma che possono mettere in discussione l’avvenire del Brasile dei record (crescita, esportazioni, investimenti esteri). Gli obiettivi del gigante giallo oro, che fra il 2014 e il 2016 ospiterà in rapida successione i campionati del mondo di calcio e le Olimpiadi, non sono un segreto e dopo aver conquistato il sesto posto tra le grandi economie, superando Inghilterra ed Italia, punta entro il 2015 al quinto, scalzando la Francia. Per questo Dilma quest’anno correrà dei rischi abbassando le tasse ed alzando i sussidi per stimolare la domanda del mercato interno. Una politica in controtendenza rispetto alle raccomandazioni del Fondo monetario internazionale che ha già provocato frizioni pubbliche fra la “presidenta” – economista di formazione – e Christiane Lagarde, la nuova direttrice del Fondo che ha sostituito Strauss-Kahn dopo lo scandalo del Sofitel a New York. Dilma piace ai brasiliani per le stesse ragioni per cui piacque a Lula quando nel 2005 la trasferì dal ministero dell’energia a capo di tutto il suo governo. Ma piace anche fuori dal Brasile soprattutto perché è meno ideologica e molto più pragmatica del suo predecessore. Un esempio facile da citare è il viaggio del presidente iraniano Ahmadinejad che nel 2009 venne accolto da Lula e che quest’anno è stato costretto a cancellare il Brasile dalle sue mete latinoamericane (è andato da Castro, da Chavez, e andrà in Ecuador). Infatti per Dilma le relazioni con gli Stati Uniti sono strategiche e non ha nessuna voglia di perdere tempo in futili provocazioni ideologiche irritando Washington.

Fra le scelte che l’hanno resa popolare alla fine del primo anno bisogna citare la decisa lotta alla corruzione, la preferenza per le donne nell’esecutivo e nei posti chiave dei suoi collaboratori, e l’aumento (più del doppio rispetto all’inflazione) del salario minimo. Sul malaffare in politica ha decisamente cambiato passo costringendo ben sei ministri – tutte eredità avvelenate dell’epoca Lula – indagati dalla magistratura alle dimissioni. Sessantatré anni, figlia di un comunista bulgaro, ex guerrigliera incarcerata e torturata durante la dittatura militare, la Rousseff da adolescente sognava i palcoscenici del balletto. Oggi rilegge Dostojevsky, ascolta l’opera lirica italiana, e ha di fronte la sfida più importante. Fare in modo che il Brasile mantenga tutte le sue promesse.

sabato 18 febbraio 2012

Falkland, giochi di guerra (Repsera 17 febbraio 2012)

L’approssimarsi del trentesimo anniversario della sconfitta nella guerra con la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e l’autarchia economica voluta da Cristina Kirchner stanno risvegliando a Buenos Aires vecchi fantasmi. L’impeto nazionalista rispetto al conflitto con Londra per l’arcipelago delle Falkland/Malvinas coincide di solito in Argentina con l’incubazione di profonde crisi politiche. Fu così nell’aprile del 1982 quando i generali dell’ultima dittatura, sempre più screditati e in difficoltà, lanciarono l’esercito verso le due isole maggiori che, insieme a numerose altre più piccole e disabitate, compogono l’arcipelago a meno 500 km dalle coste argentine. Oggi a ravvivare l’interesse di Buenos Aires per la secolare contesa ci hanno pensato prima le diverse versioni sui vasti giacimenti di petrolio che, secondo i tecnici di aziende britanniche e americane, si troverebbero in fondo all’Oceano nelle acque ad est delle Falkland e l’arrivo nella guarnigione militare delle isole del principe William, nipote della regina e primo figlio di Carlo e Diana, per una missione di sei settimane insieme ad un cacciatorpediniere della marina inglese, l’Hms Dauntless (l’Intrepido).

Così davanti all’ambasciata inglese nella capitale argentina si danno alle fiamme le bandiere di sua maestà mentre dalla Casa Rosada (sede della presidenza) si diffonde un dossier, già consegnato all’Onu, nel quale si accusano i britannici di voler “militarizzare” la zona sud dell’Oceano Atlantico. E, intorno a Cristina, si stringe la solidarietà, degli altri paesi dell’America Latina che in un recente summit hanno sottoscritto una dichiarazione nella quale s’impegnano ad impedire l’ingresso nei loro porti di navi con la bandiera “illegale” delle Falkland. Divieto chiesto dall’Argentina con l’obiettivo di isolare economicamente l’arcipelago. Oggi sulle isole risiedono circa tremila persone, i “kelpers” (70% inglesi, 10% cileni), soprattutto dediti alla pastorizia e alla produzione di lana, 1 milione 600mila chili all’anno.

Gli echi della contesa diplomatica sono arrivati fino alle star cinematografiche di Hollywood. E’ intervenuto Sean Penn per dire che la posizione di Londra “è insensibile, militarista e sbagliata” e che, a suo giudizio, l’Inghilterra dovrebbe accettare un dialogo con l’Argentina per risolvere la controversia. Il diniego inglese su ipotesi di compromesso e anche su qualsiasi apertura di un tavolo di trattativa sulla sovranità di Port Stanley (o Puerto Argentino) si basa su quello che tutti i premier britannici, conservatori o laburisti, hanno definito come “diritto di scoperta”. Perché il primo a toccar terra su quelle lande disabitate fu un capitano inglese, John Strong, nel 1690. Poi la storia si complicò. I primi coloni furono, cent’anni dopo, sia inglesi che francesi. Gli inglesi rimasero (e i discendenti sono i kelpers di oggi) mentre i francesi vendettero tutte le loro cose ai re di Spagna e abbandonarono le isole. Arriviamo così fino al 1816 quando con la dichiarazione d’indipendenza la nascente Argentina rivendica per la prima volta la sua sovranità territoriale sull’arcipelago. Seguono guerre e battaglie della Gran Bretagna contro gli americani che si spingono fin laggiù a caccia di foche e contro Buenos Aires che, di tanto in tanto, spedisce verso le Falkland comitive di giovani coloni. Nel 1964 la questi

one arriva all’Onu e s’impatana. Scoppia l’ultima guerra, 72 giorni e mille morti (655 argentini e 236 inglesi). E infine c’è Carlos Menem, discutibile presidente negli anni Novanta, che a caccia di un buon partito per sua figlia Zulema, si presenta a Buckingham Palace, invita ad un giro di tango la regina Elisabetta, e sottovoce cerca di strapparle qualche promessa sul futuro delle Malvinas ricordandole che sia lei sia il Portogallo stavano riconsegnando Macao e Hong Kong a Pechino.

Fra Londra e Port Stanley ci sono più di 12mila chilometri ma l’Inghilterra sostiene che la rivendicazione argentina è una forma di “colonialismo al contrario” nonostante sull’arcipelago delle Falkland/Malvinas ci siano ancora oggi più pecore che persone perché i tremila residenti non vogliono proprio saperne di diventare argentini. Anzi, ogni volta che vedono un giornalista tirano fuori la Union Jack e lo invitano a bere birra inglese al pub. Fra insulti e qualche balla (un ministro argentino ha sostenuto che sul cacciatorpediniere inglesi ci sarebbero testate nucleari) l’escalation della tensione è destinata a crescere. Per ora senza vie d’uscita che aprano la strada ad una soluzione concordata della secolare contesa.

giovedì 16 febbraio 2012

Spagna, la controriforma


GIOVEDÌ, 16 FEBBRAIO 2012

Pagina 51 - Esteri

Dall´aborto ai matrimoni gay fino all´istruzione e all´ambiente I ministri del centrodestra fanno a gara per il ritorno al passato

Via alla Controriforma che cancella l´era Zapatero



Dopo le elezioni di novembre i "popolari" hanno la maggioranza assoluta dei seggi

OMERO CIAI
Non solo cancellare Zapatero, e in fretta, ma se possibile andare anche più a destra di quello che fecero gli ultimi governi populares, quelli di Aznar, negli anni Novanta. Sembra essere questa, a meno di due mesi dall´arrivo del nuovo governo di Mariano Rajoy in Spagna, la strategia che ispira le "controriforme" avviate da diversi ministeri. Non solo aborto dunque, ma anche istruzione, ambiente, televisione, giustizia, nucleare, pillola del giorno dopo, e magari anche legge sul franchismo e memoria storica grazie alla maggioranza assoluta dei seggi.
Dopo i temi più urgenti, bilancio e disoccupazione, sui quali Rajoy è già intervenuto tradendo qualche promessa fatta durante la campagna elettorale - ha aumentato le tasse e reso più facili e meno costosi i licenziamenti per le imprese - il neogoverno si concentra sul resto per mettere in pratica i cambiamenti che piacciono di più al suo elettorato. In prima linea la riforma della legge socialista sull´aborto, quella che abbassa l´età per l´interruzione della gravidanza fino a sedici anni, senza la necessità di avere il consenso dei genitori e senza dover specificare motivo alcuno. Il progetto conservatore, già chiarito dal ministro della Giustizia Gallardón, vuole tornare al 1985, imponendo alle donne la possibilità di abortire soltanto in alcuni casi, come la violenza sessuale o i rischi di malformazione per il feto, e sempre specificando un "motivo" con il consenso del medico. Un salto indietro di un quarto di secolo.
Sull´altro chiodo fisso dei vescovi - i matrimoni gay - invece il centrodestra spera che la legge venga cancellata dalla Corte Costituzionale ed aspetterà ad intervenire finché i magistrati non si pronunceranno sui ricorsi. Ma lo spettro delle novità annunciate dai ministri conservatori è più ampio e preoccupante. Il ministro dell´Ambiente vuole cambiare "in modo profondo" la legge che vieta di costruire a pochi metri dal mare lungo le coste spagnole oltre ad evitare la chiusura di una delle centrali nucleari più vecchie e abolire gli incentivi sulle rinnovabili. Il ministro dell´Istruzione vuole sostituire la materia "cittadinanza" perché è un corso che include argomenti che «spettano soltanto all´educazione dei figli nella famiglia», ridurre di un anno il Liceo, e cambiare i programmi delle scuole pubbliche. Il ministro della sanità vuole eliminare dalla farmacie la pillola del giorno dopo perché «è uguale ad un aborto».
Non sfugge alle premure del nuovo governo neppure il Consiglio superiore della magistratura. Anni fa socialisti e popolari raggiunsero un accordo per evitare che fosse composto solo da magistrati di destra, componente ancora largamente maggioritaria (come s´è appena visto nella durissima condanna che ha esautorato Garzón). Grazie a quel compromesso che serve a bilanciare la sua composizione politica, il Consiglio viene eletto sulla base di 36 nomi proposti dai magistrati, dodici dei quali vengono poi votati dal Parlamento. Ma presto non sarà più così.

Capriles, lo sfidante di Chavez (Repubblica sera 14 febbraio 2012)

Se per battere Hugo Chavez alle elezioni, un superman delle urne che da quindici anni vince tutto, è necessario rompere la polarizzazione fra aristocrazia e ceto medio da una parte e la massa di poveri e poverissimi dall’altra, con le primarie di domenica scorsa l’opposizione venezuelana potrebbe aver trovato l’uomo giusto. Trentanove anni, avvocato, Henrique Capriles Radonski, non ha mai – come Chavez – perso un’elezione. Deputato a ventisei anni, poi sindaco per due volte di Baruta - un municipio del Gran Caracas - nel 2008 è diventato governatore dello Stato di Miranda, il secondo più grande del paese, strapazzando un peso massimo del “chavismo”, più volte ministro e vicepresidente, come Diosdado Cabello.

Con una nonna materna, Lili, sfuggita al Ghetto di Varsavia e all’Olocausto, e un padre erede,insieme ad altri fratelli, di un piccolo impero locale nei mass media, Capriles è un figlio della buona borghesia venezuelana ma in politica è un cristiano sociale che ama definirsi seguace dell’ex presidente brasiliano Lula e del leader anti-apartheid sudafricano Nelson Mandela. Mentre, nel privato, è un fanatico dell’esercizio fisico e dell’alimentazione sana. Single, ma promette di sposarsi presto, “appena troverò la donna giusta”, ha vinto le primarie per la candidatura dell’opposizione alle presidenziali del 7 ottobre grazie ad un progetto di centrosinistra moderato che sogna un Venezuela alla brasiliana con una forte economia di mercato riequilibrata dai programmi sociali dello Stato. E’ l’unica opzione che garantisce all’umiliata opposizione venezuelana di poter rivaleggiare con “il socialismo del XXI secolo” del “caudillo rosso”. “Se Chavez è il cammino verso il socialismo, con uno Stato che vuole essere guida di tutto, io sono il cammino del progresso”, dice Capriles che promette di diventare “un presidente per tutti” e riconciliare il paese (“come Mandela per il Sudafrica”) dopo anni nei quali – è stata la strategia vincente di Chavez – una metà dei cittadini è stata spinta a combattere con tutti gli strumenti del populismo l’altra metà. Poveri contro “escualidos” (gli squallidi) della borghesia.

L’altra prerogativa di Capriles, che ha vinto le primarie ottenendo l’appoggio del 62% di tre milioni di votanti, è quella di annullare, grazie alla sua giovane età, una delle armi migliori che ha avuto Chavez per raccogliere il consenso dei ceti più disagiati: il fantasma della restaurazione. Il ritorno al passato prima di lui. Non è un caso infatti che la candidatura più conservatrice all’interno del Mud - l’alleanza di trenta partiti, di destra e di sinistra, che forma l’opposizione – quella di Maria Corina Miranda abbia ottenuto un misero 4 percento. Persino la destra più dura dell’ex oligarchia ha capito che non avrebbe avuto speranze se non appoggiava un candidato dell’ala progressista, come Capriles o Pablo Perez (arrivato secondo), quella che idealmente fa riferimento all’ex guerrigliero ottanttenne Teodoro Petkoff, grande amico di Gabriel Garcia Marquez e, da sempre, spin doctor dell’antichavismo.

Il Venezuela che s’avvia verso il voto in autunno non è il paese dell’utopia. Al contrario di molti altri paesi dell’America Latina, che attraversano una fase di sviluppo, l’economia di Caracas annaspa. L’inflazione è altissima (27,6 percento), la disoccupazione anche. Ma grazie al petrolio il sistema tiene. Come spiega la storica, ed ex chavista, Margarita Lopez Maya “Mai come negli ultimi quindici anni la popolazione più povera del Venezuela si era sentita tanto al centro dell’attenzione, motivo che spiega il perché la popolarità del presidente-comandante sia ancora oltre il 50 percento nonostante la sua incapacità di dare risposte efficaci ai problemi e di individuare soluzioni reali. I ceti poveri – ha aggiunto Lopez Maya – sono quelli che hanno ottenuto più benefici da questo periodo, in termini materiali e simbolici. E si sentono identificati con una leadership come quella di Chavez perché ha le loro stesse origini. Per vincere l’opposizione deve diventare credibile anche per queste persone.”

La sfida elettorale fra Chavez e Capriles avrà anche una ripercussione internazionale forte. E non solo per un partner economico decisivo come gli Stati Uniti che vedono oggi la possibilità per la prima volta di liberarsi di un fastidioso avversario ideologico. Contro Washington Chavez sostiene la Cuba castrista ma ha anche stretto una forte alleanza strategica con l’Iran di Ahmadinejad. Capriles sta dall’altra parte. Lui è cattolico ma la sua famiglia appartiene alla comunità ebraica ed è legata ad Israele.

lunedì 13 febbraio 2012

"El Supremo acaba con Garzòn"

REP
VENERDÌ, 10 FEBBRAIO 2012

Pagina 47 - Esteri

Il super giudice spagnolo interdetto per 11 anni per intercettazioni illecite Finisce la carriera del pm che indagò sul franchismo e fece arrestare Pinochet

La sconfitta di Garzón cacciato dalla magistratura



OMERO CIAI
L´audace carriera di uno dei magistrati più famosi d´Europa è finita ieri a Madrid con una sentenza durissima che lo ha condannato a 11 anni di sospensione per abuso di potere. Per il Tribunale supremo spagnolo che lo ha giudicato Baltasar Garzón ha leso il diritto alla difesa di tre imputati del "caso Gürtel" - una trama di corruzione politica nella quale sono coinvolti dirigenti del partito Popolare del premier Rajoy - ordinando di intercettare, mentre erano in carcere, le loro conversazioni con gli avvocati difensori. Un verdetto che, soprattutto per la sua severità, ha subito diviso la Spagna: a destra il partito Popolare chiede "rispetto" per la decisione del Supremo; mentre a sinistra, socialisti e Izquierda Unida, manifestano la loro indignazione per un provvedimento che espelle dalla magistratura il "super giudice" difensore dei diritti umani e protagonista di tutte le inchieste più importanti degli ultimi anni.
Due decenni di storia, non solo spagnola, sono legati al nome di Garzón che divenne noto in tutto il mondo quando il 15 ottobre del 1998 firmò l´ordine d´arresto dell´ex dittatore cileno Augusto Pinochet ricoverato in una clinica di Londra. Un anno e mezzo dopo Pinochet tornò libero grazie alla Gran Bretagna (e al ministro della Giustizia di allora, Jack Straw) che respinse la richiesta d´estradizione in Spagna restituendo così al vecchio generale i piaceri ricevuti nel corso della guerra per le Falkland-Malvinas. Ma grazie all´azzardo di Garzón - l´unico giudice che riuscì ad infliggere 503 giorni di arresti domiciliari all´ex dittatore - anche in Cile s´aprirono procedimenti giudiziari contro Pinochet e la sua famiglia.
Altre volte vinse. È grazie al lavoro di Garzón che in Argentina l´ex presidente Nestor Kirchner riuscì a far approvare le leggi che abolirono l´amnistia e l´indulto per i militari coinvolti negli eccidi della dittatura. Ed è, probabilmente, anche grazie ad alcune sentenze di Garzón sui fiancheggiatori del terrorismo che l´Eta in Spagna sia stata poi costretta a rinunciare alle armi. Figlio di un benzinaio di Torres, in provincia di Jaén, nell´Andalusia, Baltasar Garzón, 56 anni, studiò da giudice mentre in Spagna tramontava la dittatura franchista e vinse il concorso per l´Audiencia Nacional - il Tribunale speciale che in Spagna gestisce tutte le principali cause - negli anni dell´euforia per l´ingresso in Europa e una lunga stagione di crescita economica e culturale. Intrepido e spavaldo diresse le prime grandi operazioni contro il narcotraffico diventando subito molto scomodo per il potere politico - allora i socialisti del Psoe - con l´inchiesta sulla "guerra sporca" (i Gal) organizzata dal ministero degli Interni contro il terrorismo basco.
Nel 2001 la sua attenzione si rivolse anche verso Berlusconi per il canale tv spagnolo Telecinco. Garzón accusò Sua Emittenza di aver violato la legge contro le concentrazioni televisive attraverso l´uso di finanziamenti off-shore. Ma non riuscì a processarlo perché il Consiglio d´Europa non annullò l´immunità di cui Berlusconi godeva facendone parte. Cinque anni dopo Garzón riaprì la causa che si concluse nel 2008 con una assoluzione per l´ex premier italiano.
A Madrid si dice che Garzón «ha fatto tante cose buone ed alcune cattive» ma non c´è dubbio che molti suoi colleghi cercarono fin dall´inizio di contrastare la sua carriera e le sue indagini. Insieme al procedimento contro di lui per abuso di potere nel caso Gürtel, il "super giudice" spagnolo è stato sottoposto a giudizio dal Tribunale supremo in altre due cause ancora aperte. La prima è per aver iniziato una inchiesta sui crimini del franchismo violando la legge di amnistia ancora in vigore votata dal Parlamento nel 1978. La seconda, dove è chiamato in causa per presunta corruzione, riguarda una serie di conferenze che tenne anni fa negli Stati Uniti e che vennero sponsorizzate dalla banca Santander. Nello stesso periodo Garzón si occupò di una inchiesta nella quale era coinvolto il presidente di quella banca, Emilio Botin, uno degli uomini più ricchi e influenti di Spagna, e lo prosciolse.
Per i suoi nemici Baltasar Garzón ha violato la legge interpretando in maniera particolarmente estesa i suoi poteri di magistrato. Per i sostenitori è la vittima di un complotto dell´ala conservatrice ed ex franchista della giustizia spagnola ed i suoi presunti errori non possono giustificare una sentenza di rimozione dalla magistratura. «Oggi è un giorno triste per la democrazia» ha commentato un dirigente di Izquierda Unida mentre altri parlano di «vergogna» e di «preoccupante ingiustizia contro un magistrato che combattuto il narcotraffico, il terrorismo e la corruzione politica». Ora l´avvocato del "super giudice" valuta la possibilità di un ricorso presso la Corte costituzionale o la Corte europea dei diritti umani.