martedì 26 giugno 2012

Messico, repubblica 25 giugno 2012


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI

CULIACÀN (Sinaloa)
LA MORTE di centinaia di narcotrafficanti negli ultimi sei anni per la guerra ai cartelli dichiarata dal presidente messicano Calderón ha un primo risultato: le loro mogli, sorelle o figlie, assumono sempre maggiori responsabilità all’interno dei gruppi narcos. «Prima erano le miss», dice Javier Valdez, giornalista di Riodoce che nel libro Miss Narco ha raccontato l’attrazione fatale tra i narcos e i concorsi di bellezza, «ma adesso le donne stanno prendendo sempre di più posizioni di comando ». Lo conferma Arturo Santamaría, sociologo dell’Università di Sinaloa, e pensa che questo fatto «rafforzerà il narcotraffico e lo renderà più difficile da combattere perché le donne sono più intelligenti e furbe nel dirigere le operazioni». Santamaría ha appena pubblicato un libro,
Las Jefas del narco,
nel quale raccoglie testimonianze di questa rivoluzione. Così se l’ultima vicenda nel gossip di Culiacán è la storia d’amore fra Emma Coronel,
una “miss Sinaloa” e il capo supremo del cartello, Joaquin Guzman, che prima le ha fatto vincere il concorso e poi l’ha sposata; è in corso un fenomeno molto più profondo che può cambiare la storia dei cartelli «perché — ha scritto Santamaría — non c’è nessun altro paese dove le donne giocano un ruolo così importante nel narcotraffico come in Messico».
L’inizio di questo viaggio è una croce piantata nell’asfalto vicino ad un centro commerciale. Ricorda l’ultima grande guerra dei narcos nello Stato di Sinaloa e la morte di Arturo Beltrán Leyva, il 19 dicembre 2009. «I sicari entravano nella case e ammazzavano i
chavos
(i giovani peones) nelle camere da letto. Chiedevano solo “da che parte stai?” e siccome le vittime non sapevano chi fossero, rispondere era come partecipare a una roulette russa: c’era il cinquanta per cento di possibilità di evitare la morte», racconta Javier Valdez. Quella guerra fra i cinque fratelli Beltrán Leyva e Joaquin Guzman “el Chapo”, il narcos più ricco e potente del Messico, non è mai finita.
E ancora oggi nello Stato di Sinaloa — poco meno di tre milioni di abitanti — ci sono, per vendette e scontri legati al narcotraffico, più di duemila morti l’anno. Sono già settecento nei primi cinque mesi del 2012. Molti sono la conseguenza delle scorribande degli “Zetas”, il cartello con il quale si sono alleati i Beltrán Leyva, che entrano a Sinaloa per ammazzare la gente del “Chapo”. Ma altri hanno a che fare con le regole interne del cartello (“una azienda” che fattura oltre tre miliardi di dollari l’anno e ha interessi ovunque, n’drangheta compresa): uccidono i ladri, i violentatori, o semplicemente chi parla troppo. «Abbiamo trovato — racconta Valdez — macchinette di plastica accanto
cadaveri». Voleva dire che il giustiziato rubava auto. «Oggi a Culiacán puoi morire per aver guardato male qualcuno. Qui tutto è narcos. Il mio vicino di casa è narcos. I compagni di scuola di mio figlio sono figli di narcos». Lo Stato di Sinaloa, una striscia di terra fra la Sierra Madre e il Pacifico, è da oltre trent’anni la patria del narcotraffico messicano. I grandi capi sono cresciuti tutti qui. Da Amado Carrillo Fuentes, nato nel ‘56 e morto nel ‘97, socio di Pablo Escobar, fondatore del cartello di Juarez, e famoso come
il signore dei cieli
per la quantità di cocaina che riusciva ad esportare grazie a piccoli Fokker negli Stati Uniti; ai fratelli Arellano Felix, fondatori del cartello di Tijuana. Fino al “Chapo” Guzman. E anche Jesús Malverde, il brigante dell’inizio del secolo scorso diventato “santo dei narcos”, era di Sinaloa. Ancora oggi nelle gole delle montagne della Sierra Madre si coltivano la marijuana e l’oppio che poi si vendono in Ca-
lifornia. E, come spiega Javier Valdez, Guzman è un mafioso vecchio stile. Fa beneficenza, costruisce scuole e chiese, e mantiene un esercito di piccoli trafficanti che dominano il territorio, strada per strada. «A Culiacán il narcos seduce, soggioga», dice
Valdez, «è onnipresente e promette la vita facile e dolce dei soldi e del potere. Gli adolescenti del cartello — prosegue — sono quelli che hanno le auto e le ragazze più belle. Imparano a sparare e a portare le armi ed è come se ti dicessero ‘scemo, non vedi che sei circondato? Arrenditi, tanto nessuno ti può salvare’».
Riodoce
è un piccolo settimanale,
diecimila copie. Che l’anno scorso ha vinto il premio “Maria Cabot” della Columbia University per il giornalismo investigativo. Lo hanno fondato nel 2003 quattro giornalisti stufi della censura e dell’autocensura dei quotidiani locali. «Loro contano i decapitati, noi facciamo inchieste», dice fiero Valdez. Che aggiunge: «All’inizio non volevamo fare un giornale sul narcotraffico. Poi questo è il compito che ci è toccato, se non scrivessi di narcos mi sentirei un vigliacco». Nella redazione di
Riodoce
hanno messo una bomba, tempo fa. E da allora i quattro amici, dopo aver cambiato sede (fuori non c’è scritto nulla, solo il nome del giornale piccolo piccolo sul citofono), con collaboratori e amministrativi, s’incontrano solo una volta alla settimana, quando chiudono il numero. «L’unica cosa di cui siamo assolutamente sicuri — dice Valdez — è di non essere infiltrati. Né dai boss della politica locale, né dai narcos. Sul resto è difficile parlare. Sulla bomba non abbiamo detto nulla. Qui se accusi qualcuno di volerti uccidere offri l’alibi a qualcun altro per farlo».
I giornalisti uccisi negli ultimi anni sono oltre settanta, più che nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale. Javier Sicilia, il poeta che ha perduto il giovane figlio e ha commosso il paese annunciando che non avrebbe più scritto un verso, sostiene che il Messico è uno Stato in default, fallito. O quasi. Perché il connubio fra narcos e potere politico è «ormai tale che il cittadino è completamente indifeso di fronte alla violenza». «La polizia — dice Sicilia — è corrotta. L’esercito è corrotto. È di fronte alla criminalità organizzata il potere politico preferisce negare l’evidenza, nascondere, occultare, dissimulare. Per loro non c’è alcun attacco alla società civile, al massimo i morti sono narcos che si ammazzano tra di loro». «Ci sono città in Messico — aggiunge Sicilia — dove le amministrazioni locali negano la pubblicità isti-
tuzionale ai giornali che parlano troppo della violenza. Non si deve sapere dei morti ammazzati. È dannoso per il turismo».
Il panorama è completamente cambiato con la nascita degli “Zetas”. Tutti ex militari addestrati nelle scuole antiguerriglia
dell’esercito degli Stati Uniti. All’inizio erano il braccio armato del cartello del Golfo, quello che controlla i porti sul Mar dei Caraibi. Finché non si sono messi in proprio e siccome non gestivano alcun traffico di droga si sono trasformati in una mafia tout court. Hanno cominciato a chiedere il pizzo, a sequestrare persone, a fare affari con la prostituzione.
«Gli Zetas — dice Valdez — non hanno principi. Rapiscono gli emigranti illegali del Sudamerica che attraversano il Messico. Lo fanno per chiedere un riscatto ai parenti che li aspettano dall’altra parte, negli Stati Uniti. Se non hanno parenti li ammazzano».
Un parente negli Stati Uniti lo ha da qualche mese anche “El Chapo”. Sua moglie Emma Coronel che ha la nazionalità americana ha beffato gli agenti dell’antidroga Usa ed è riuscita a partorire un bambino a Los Angeles. Così l’ultimo figlio del più grande capo narcos messicano è statunitense. Invece Sandra Avila Beltran, la “narca” più famosa del Messico e la prima della generazione delle nuove “jefas” (cape), rischia di passarci il resto della sua vita dall’altra parte della frontiera. Ma in un carcere. La “regina del Pacifico” verrà presto estradata e processata negli Usa per essere riuscita a vendere cento chili di cocaina a Chicago.
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domenica 10 giugno 2012

Chàvez si ricandida. Repubblica 10-06-12





DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI

CARACAS — Dal palazzo presidenziale di Miraflores alla sede del Consiglio nazionale elettorale in avenida Bolivar c’è poco più di un chilometro. È la prova suprema, la distanza che Hugo Chávez, gravemente malato, dovrà percorrere domani per iscriversi come candidato alle elezioni del 7 ottobre (per la sua quarta rielezione dopo il 1998-2000-2006). E lo farà a modo suo, sicuramente in auto, attraversando due ali di sostenitori festanti, per dimostrare a tutti che è ancora lui il candidato imbattibile, astuto e istrione come sempre. Da mesi le sue condizioni di salute sono un segreto di Stato e l’incertezza sul futuro dilania un paese spaccato in due — e palesemente irriconciliabile — con filo chavisti da una parte, impegnati a rendere irrevocabile la «rivoluzione bolivariana »; e anti chavisti dall’altra, determinati ad evitarlo.
Hugo Chávez, presidente-padrone del Venezuela da tredici anni, è malato per un tumore nella zona pelvica dal giugno dell’anno scorso. Si è operato due volte all’Avana e si è sottoposto a vari cicli di chemio e di radioterapia che lo hanno tenuto lontano dal paese — governava via twitter — per diversi mesi. Le ipotesi sulle
sue possibilità di recupero sono tutte negative e le diagnosi, comunque «al buio» e sui sintomi, visto che dall’ospedale di Cuba non è mai filtrato nulla, gli concedono da un minimo di sei ad un massimo di dodici mesi di vita. Lo riconosce anche Juan, un operaio chavista, che milita nella «Mission Milagro» (missione miracolo), il programma in joint venture con Cuba grazie al quale ogni mese un centinaio di venezuelani, poveri e senza mutua, vanno ad operarsi all’Avana a spese del governo dell’isola castrista che, in cambio di questo e altri piani di solidarietà, riceve 130mila barili di greggio al giorno, circa il 5% della produzione venezuelana. Oggi è giorno di partenza e mentre gli ammalati sottoscrivono l’impegno a garantire ognuno almeno dieci voti per Chávez alle elezioni, Juan scuote la testa. «Che fine faremo senza il presidente?». Ha quattro by-pass al cuore («Senza Chávez e Fidel sarei morto perché non avrei potuto pagare l’intervento », dice) e descrive scenari scoraggianti convinto che il malato, nelle stanze di Miraflores, sia più grave di quello che vogliono fargli credere. «Questa rivoluzione finirà con lui», conclude.
Per la coalizione antichavista, la Mud, il presidente è «un irresponsabile », che dovrebbe curarsi e candidare un successore, evitando di gettare il paese nei rischi di un vuoto di potere presentandosi per un nuovo mandato
che nessuno sa se riuscirà neppure ad iniziare. Ma Chávez è fatto così. Prendere o lasciare.
D’altra parte non ha costretto i funzionari del ministero degli Esteri a sloggiare diversi piani del palazzo quando si è trattato di trovare rifugio agli sfollati di un alluvione? E non ha versato attraverso l’holding statale dell’oro nero, Pdvsa, 51 milioni di euro alla scuderia di Formula 1 della Williams per far correre Pastor Maldonado, il suo pilota preferito? Gestire senza intermediari il bilancio dello Stato è il sigillo del suo modo di governare. Anzi, di più, il suo obiettivo principale è sempre stato quello, usando il petrolio, unica ma fenomenale
fonte d’ingresso del paese, di costruirsi portafogli praticamente personali. Iniziò nel 2002 con l’assalto alla cassaforte di Pdvsa, ma l’operazione più riuscita è il «Fondo Chino». Due tranche da 4 miliardi di dollari di prestiti da Pechino — la prima nel 2007, la seconda in queste settimane — a cambio di 400mila barili di petrolio al giorno a prezzo scontato per la Cina. Il Fondo è amministrato personalmente da Chávez che in questo modo inizia la costruzione di case popolari mai terminate e lancia nuovi programmi di assistenza per il suo popolo: quasi la metà, povera e indigente, dei venezuelani. E la «rivoluzione» avanza anche se nelle farmacie
manca l’acqua ossigenata mentre il controllo sui cambi e l’incertezza giuridica allontana qualsiasi investimento internazionale.
L’inflazione al 30 percento, il doppio regime cambiario (quello ufficiale e quello «in nero»), l’esplosione della criminalità e la diffusa corruzione nelle pieghe del regime, avevano restituito spazio all’opposizione che, due anni fa, era riuscita per la prima volta a vincere le elezioni parlamentari.
Più voti (52 a 48 percento) ma non più seggi. Quanto bastava però per prefigurare la possibilità di una svolta anche alle presidenziali. Dalle primarie — tre milioni di votanti — è uscito un quarantenne
moderato, Henrique Capriles, che sembrava in grado di strappare all’altro fronte gli elettori meno radicali, quei pezzi di classe media bassa infastiditi dall’indottrinamento martellante della propaganda ideologica e spaventati dalla criminalità. Ma la malattia sembra aver giocato a favore di Chávez che a quattro mesi dal voto è in netto vantaggio nei sondaggi. Alternative nello schieramento bolivariano d’altra parte non ce ne sono. Nessuno dei tre possibili delfini del caudillo ha speranze di raccogliere tutta la sua eredità nelle urne. Né il ministro degli Esteri, Nicolas Maduro, il più vicino ai cubani; né il presidente del Parlamento,
Diosdado Cabello, preferito dai militari; né, infine, il fratello governatore di Chávez, Adan. Così l’unica soluzione è rimasta quella del leader ammalato. «Vogliono conservare il potere salendo sul carro funebre del presidente», denunciano i giornali dell’opposizione convinti che Chávez non riuscirà neppure a farla la campagna elettorale.
Anche Caracas, come il resto del paese, è divisa in due fazioni: a nord aristocrazia e classe media; a sud e sulle colline, le favelas. I primi temono che alle elezioni neppure ci si arrivi, i secondi — come l’operaio Juan — scrutano le apparizioni del presidente e soffrono per la sua malattia. «Qui succederà quel che decideranno le Forze Armate», dice preoccupata Milagros Socorro, editorialista de
El Nacional.
È la «soluzione egiziana» che molti analisti dipingono come probabile. L’esercito è quello che ha più da perdere sia nel caso di sconfitta che di scomparsa di Chávez. Generali accusati per narcotraffico dalla Dea americana, ufficiali corrotti, forte ridimensionamento dell’influenza dei militari nella politica e nella società se dovesse cambiare scenario. Dunque, si specula, in caso di inabilità di Chávez è l’esercito che potrebbe assumere il potere con un «governo provvisorio» con la scusa di mantenere la pace e l’ordine fra due fazioni politiche inconciliabili.
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