venerdì 3 maggio 2013

Le duellanti (il Venerdì 3 maggio 2013)


BUENOS AIRES. Nelle ore libere, quando viaggia per lavoro, Dilma Rousseff si tuffa nei musei; Cristina Kirchner, invece, corre a fare shopping. A Dilma piacciono le opere liriche, Caravaggio e Dostoevskij; a Cristina semplicemente non indossare mai due volte lo stesso vestito. Dilma divora libri, Cristina collane e gioielli. Dilma è pragmatica, Cristina è retorica. La prima è presidente del Brasile da poco più di due anni e gode di una straordinaria popolarità, il 78 per cento; la seconda guida l’Argentina dal 2008 ma ormai l’appoggia meno del 30 percento degli elettori. Dilma e Cristina si incontrano ogni tre o quattro mesi nei bilaterali periodici di due Paesi confi- nanti. All’inizio Dilma si divertiva moltissimo negli incontri con Cristina e sosteneva che fossero incredibili. La prima volta disse al ministro degli esteri, Antonio Patriota: «È andata benissimo, ha parlato solo lei e dopo dieci minuti s’è  messa in testa di spiegarmi il Brasile». Ma ora, da quando la Kirchner ha scelto la via autarchica restringendo gli scambi mercantili con Brasilia, le loro relazioni sono più ruvide e il duello a tut- to campo. L’attivo della bilancia com- merciale a favore del Brasile è crollato dai 6 miliardi di dollari del 2011 agli 1,5 del 2012 e le grandi imprese verdeoro disinvestono o rivedono i loro progetti di sviluppo nel Paese vicino. In un continente spostato quasi tutto a sinistra, Dilma e Cristina sono diventate anche nemiche ideologiche. L’Argentina fa asse con la tendenza iperpopulista del post- chavismo in Venezuela ed è invidiosa e sospettosa verso la nuova centralità geopolitica del Brasile che ha ormai sostituito in America Latina, come nuova potenza emergente, l’egemonia culturale, economica e politica che in altri tempi appartenne a Washington.

Dilma lavora moltissimo. È precisa, attenta, organizzata, impeccabile. Cristina arriva sempre in ritardo. È arrogante con i partner politici e si dimentica gli appuntamenti, anche quelli con i capi di Stato stranieri. In economia Dilma ap- plica le regole del mercato e combatte l’inflazione; Cristina la nasconde, tanto che l’Economist ormai da tempo si rifiu- ta di pubblicare i dati ufficiali taroccati di Buenos Aires, e Christine Lagarde, se- gretario Fmi, li ha sconfessati più volte. La Rousseff ha affrontato la piaga endemica della corruzione in Brasile licenziando sette ministri indagati, tutti ere- ditati dai governi di Lula, in due anni. Pa- ga le cene di lavoro con la sua carta di credito personale e costringe i ministri che l’accompagnano a dividere il conto. La Kirchner fa quadrato se uno dei suoi collaboratori finisce sotto la lente d’ingrandimento di un magistrato e lo difende attaccando pubblicamente giudici e tribunali. Dilma è liberal, Cristina è autoritaria. Una prova evidente è la sua battaglia contro stampa e tv. La presidenta brasiliana è felice quando concede conferenze stampa, Cristina non lo fa mai, usa soltanto gli interventi in catena, contemporanea- mente su tutti i canali televisivi, per affermare senza contraddittorio quel che vuole. Dilma ama la radio e tutti i lunedì risponde alle domande in un programma molto seguìto. Cristina odia i giornalisti e li fugge come la peste. Per aggredire il potere dei mass media privati in Argentina ha fatto una legge cercando di limitarne il peso. E quando hanno chiesto a Dilma cosa ne pensasse delle norme sul- la stampa in Argentina, ha risposto che l’unico controllo sull’informazione che condivide e conosce è quello del telecomando della sua tv.

Cristina è vedova, Dilma è divorziata e single. Ma anche nelle faccende più personali le due donne dell’America La- tina non potrebbero essere più diverse. Cristina è milionaria. È diventata ricca con le speculazioni immobiliari in Pata- gonia, dove suo marito, l’ex presidente Nestor morto nel 2010, era governatore regionale. Vive con i due figli, Máximo e Florencia, nella vasta fattoria della resi- denza presidenziale di Olivos. Dilma ri- siede in un palazzo molto più austero, quello della Alvorada alla periferia di Brasilia, disegnato da Oscar Niemeyer negli anni Cinquanta, con la mamma Dil- ma Jane e la zia Arilda. Nei weekend ar- rivano la figlia Paula con il nipotino Ga- briel, due anni e mezzo, e l’ex marito Car- los Araújo con la sua nuova compagna. Il soprannome di Dilma è Giovanna d’Ar- co, perché così la chiamavano durante la dittatura quando giovanissima entrò in un gruppo guerrigliero, venne arrestata e torturata, e rimase in carcere per due anni con il solo sollievo – ha ricordato una sua amica – del tango-jazz di Astor Piazzolla.

Cristina invece è diventata Evita-Bo- tox, per le numerose citazioni dell’icona peronista Eva Perón nei suoi discorsi e i ripetuti interventi di chirurgia plastica al viso. Anche nella scelta dei collabora- tori non potrebbero essere più distanti. Dilma s’è circondata di donne nel suo staff. Al vertice del potere c’è un trium- virato tutto al femminile formato dalla stessa presidente, da Gleisi Hoffman, suo capo gabinetto, e da Ideli Salvati, mini- stro per le relazioni istituzionali. Poi nel governo ci sono altri otto ministri donne. E donne Dilma ha nominato sul- le poltrone più importanti dell’ammini- strazione pubblica, come Maria das Graças Foster oggi numero uno di Petrobras, il gigante petrolifero brasiliano. Cristina al contrario si circonda di uomini. E se- condo un libro appena uscito a Buenos Aires, alcuni di loro sono stati o sono suoi amanti. Cosa che li farebbe salire o scen- dere, a seconda dei capricci della presidenta, nella scala del potere. Si spiegherebbero così alcune improvvise e meteoriche carriere.
Entrambe sono arrivate al seggio più alto grazie a un uomo. Ma mentre Cri- stina è stata di fatto un’alternativa co- niugale, Dilma è stata scelta per le sue capacità e la sua preparazione. Così se la prima è sentimentale e iperbolica, la seconda è formale e pragmatica. Dilma ha 65 anni, Cristina 60. Il mandato per tutte e due scade nel 2015. La brasilia- na potrebbe continuare guidando il suo Paese nel doppio appuntamento inter- nazionale che ospiterà. Prima i mondia- li di calcio del prossimo anno, poi le Olimpiadi del 2016. L’ex presidente Lu- la ha già annunciato che tornerebbe in pista solo se sarà Dilma a rinunciare al- la possibilità di una rielezione. In Ar- gentina la Kirchner ha dapprima provato la strada di una modifica costituzionale per potersi ripresentare, poi ha esaminato l’ipotesi di lanciare una candidatura di suo figlio Máximo. Ma, secondo i sondaggi, le elezioni parlamentari del prossimo ottobre dovrebbero cancellare ogni sua aspirazione a perpetuarsi. In ogni caso il futuro della democrazia in America Latina dipenderà anche dalla supremazia di un modello sull’altro. Una sinistra arcaica, populista, e anche totalitaria, come l’immaginava Hugo Chávez; oppure un’altra, liberale e prag-matica. Dilma o Cristina?
Omero Ciai


sabato 27 aprile 2013

intervista yoani sanchez repubblica 27 aprile 013

SABATO, 27 APRILE 2013
 
Pagina 19 - MONDO
 
Il personaggio
 
“Questo regime ha i giorni contati la mia Cuba è pronta a risorgere”
 
La blogger Yoani Sánchez, icona del dissenso nell’isola di Castro
 
 
 
 
OMERO CIAI

«CHE bello respirare». Yoani Sánchez arriva in Italia. La blogger cubana domani sera sarà a Perugia per il Festival del giornalismo. Poi Torino, Monza: tre rapide tappe nel suo vorticoso giro del mondo iniziato in Brasile il 18 febbraio scorso. «Sono felice e confusa — dice —. In poche settimane ho incontrato Mario Vargas Llosa, i deputati del Congresso Usa, ho visto New York e ho potuto abbracciare tutti quelli che mi hanno sostenuto in questi anni. Mi sembra di avere milioni di amici».
Quante volte ha chiesto il permesso d’uscita prima di ottenerlo?
«Negli ultimi dieci anni venti volte, le ho contate».
Adesso ha paura di tornare sull’isola?
«Temo che possano vendicarsi con me, screditarmi e calunniarmi di fronte ai miei concittadini. Ma soprattutto temo per mio figlio Teo che ha quasi diciotto anni e che ad agosto entrerà nell’esercito per fare il servizio militare obbligatorio. Non l’aiuterà essere mio figlio».
Ha mai pensato che potrebbero impedirle di rientrare all’Avana?
«Si, ma la riforma migratoria approvata da Raúl parla chiaro: un cubano può stare fuori dal paese anche più di due anni, conservando il diritto a tornarci. Io ho lasciato l’isola poco più di due mesi fa. Comunque se speravano che restassi all’estero li deluderò. Il mio futuro è a Cuba, se non mi lasciassero rientrare sarei il primo
balseroal
rovescio, proverei a raggiungere l’isola su una zattera ».
Bahia, New York, Washington, Miami, Lima, Praga, Madrid: in poche settimane ha visitato molte città, quale l’ha impressionata di più?
«La verità è che ogni volta che arrivo in un luogo nuovo penso che sia il posto più bello dove sono stata, sono sicura che mi succederà lo stesso anche con l’Italia ».
A Miami ha incontrato gli esuli cubani, com’è andata?
«Sono rimasta molto colpita dalla pluralità di opinioni. Essendo cresciuta con la propaganda castrista avevo anch’io un’immagine distorta dell’esilio. La “mafia cubana”, come dice Fidel Castro, i
gusanos.
Invece ho incontrato tanti giovani senza spirito di rivalsa».
L’embargo americano andrebbe
abolito?
«Assolutamente sì. Soprattutto perché è inutile e perché è il
grande pretesto del regime. Giustifica tutti i mali di Cuba. Poi anche perché è solo apparenza. Tutti i giorni a Cuba mangiamo polli congelati cresciuti in America. Gli Stati Uniti sono uno dei principali soci commerciali dell’isola
ormai».
Come giudicherebbe l’avvio di un negoziato fra Raúl Castro e Barack Obama per ristabilire le relazioni fra i due paesi?
«Dovrebbe essere un tavolo a
quattro. Raúl Castro non è stato liberamente eletto dai cubani e ad un eventuale negoziato dovrebbero partecipare anche rappresentanti dell’esilio e della società civile di Cuba».
È ottimista sul futuro dell’isola?
«Credo che si stiano avvicinando nuovi tempi e per molte ragioni. La generazione della rivoluzione che è ancora al potere è ormai molto anziana e a Cuba
sta risorgendo la società civile. Giornalismo indipendente, blog, iniziative, voglia di libertà. Poi con la morte di Chávez c’è la crisi del sostegno venezuelano, un elemento decisivo che, se viene meno, costringerà il regime a scelte importanti. Infine l’apertura che ci siamo conquistati. Fino a qualche anno fa era impossibile raccontare l’isola dal di dentro. La tecnologia ci protegge».
Non la stupisce che l’opposizione cubana in Europa sia accolta sempre con più attenzioni dalla destra piuttosto che dalla sinistra?
«È tristissimo. A Madrid i deputati della Izquierda Unida si sono rifiutati di partecipare all’incontro con me in Parlamento. È incomprensibile perché una parte della sinistra che dovrebbe essere a favore della società civile, dei diritti, della libertà, difende un regime autoritario, tirannico, arrogante e gretto».
Le riforme di Raúl Castro sono state interpretate in Europa come l’inizio di una svolta, cosa ne pensa?
«Oggi penso al regime come alla parabola della casa nell’Avana vecchia, la conosce? Dice così: la vecchia casa è in rovina, i muri sono scrostati, le finestre sbilenche, le scale rotte, la porta non si chiude. Tutto tranquillo finché un giorno il suo proprietario non decide di iniziare a riformarla. Ma appena mette la chiave nella serratura crolla tutta la casa».
È la differenza fra Fidel e Raúl Castro.
«Appunto, Fidel sapeva che il sistema non era riformabile. E conservava il potere grazie alla repressione e al suo carisma. Raúl per farsi accettare è stato costretto a inserire alcune riforme con l’obiettivo di mantenere il potere ma il regime gli cadrà sulla testa».
Quando tornerà a Cuba e cosa farà?
«Torno prima della fine di maggio e farò la giornalista, ormai è la scelta della mia vita: vorrei fondare un giornale, un giornale vero che parli alla gente e che possa sopravvivere alla fine del castrismo».
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sabato 20 aprile 2013

Così lo slogan che non piaceva alla sinistra seppellì Pinochet (Il Venerdì 19/04/2013)


Come può l’idea creativa di uno spot elettorale cambiare la storia di un Paese? È il 
soggetto del film "No" del regista Pablo Larraín, sul referendum del 5 ottobre 1988, in Cile. La storia racconta la vicenda di Eusebio Garcìa, nel film lo interpreta Gael García Bernal, il pubblicitario che inventò una campagna rivoluzionaria per l’epoca, imponendo all’austero fronte dell’opposizione di dimenticare i messaggi politici, le atrocità della dittatura, il dolore delle vittime, per concentrarsi su una semplice idea di futuro. Un arcobaleno, un No e uno slogan, Arriva l’allegria, che fecero scuola.
Pinochet era certo di vincere il referendum, l’aveva indetto cedendo alle pressioni internazionali per convincere il mondo che il popolo stava dalla sua parte e che non era un dittatore. Invece perse: tre milioni di cileni votarono per lui e quattro contro, aprendo la strada al ritorno della democrazia.

Veramente fu tutto merito di uno spot?
«Penso proprio di sì» dice al Venerdì il vero protagonista della storia, il pubblicitario Eusebio Garcìa. «A poche settimane dal referendum i sondaggi davano per certa la vittoria del Sì e dunque di Pinochet. La gente aveva molta paura di quello che sarebbe potuto accadere se avessero vinto gli oppositori. Qualsiasi cambiamento poteva essere percepito come pericoloso: è ciò che accade con le dittature quando una parte della società finisce per abituarsi alla repressione apprezzandone piccoli vantaggi come il calo della criminalità. Per l’opposizione il rischio era la paura: era diffuso il timore che la caduta del dittatore avrebbe aperto le porte a una stagione di crisi e di scontro sociale molto forte».
Bastò uno slogan a placare queste inquietudini?

«Il nostro obiettivo era cambiare la logica dello scontro. Per la dittatura valeva un solo principio: Se stai con me sarai premiato, se stai contro di me sarai castigato. E per castigo si intendevano punizioni atroci: potevi essere arrestato, torturato, o sparire per sempre. Noi non facemmo altro che cancellare questa logica di contrapposizione e sostenemmo un’idea di coinvolgimento. Non attaccammo mai gli elettori di Pinochet, ma soltanto lui e mai in modo aggressivo. Volevamo che fosse chiara una cosa: non eravamo persone pericolose e il nostro obiettivo era ricostruire il Paese salvaguardando la pace sociale».
Fu molto complicato convincere i partiti dell'opposizione ad accettare le sue idee sul modo di fare la campagna elettorale?
"All'inizio fu molto difficile. La nostra strategia era vista come una stranezza. Dopo anni di dittatura c'era un comprensibile desiderio di rivalsa, volevano raccontare al mondo chi era veramente Pinochet, sottolineare tutto il male che aveva fatto. Questo secondo noi sarebbe stato un disastro perché significava ricadere nella logica dello scontro, della rottura. Era necessario un messaggio diverso. Dovevamo cancellare la paura".
Che genere di paura?
«Gli elettori di sinistra temevano che se Pinochet avesse perso sarebbe divetato ancora più feroce. Erano convinti che il dittatore non avrebbe accettato democraticamente i risultati. Gli elettori di destra, invece, temevano una vendetta. Immaginavano che una sconfitta di Pinochet avrebbe scatenato una resa dei conti in cui gli oppositori sarebbero andati casa per casa a scovare i sostenitori del regime. In queste condizioni, accettare lo scontro e proporre una campagna elet- torale violenta sarebbe stato controproducente anche per noi. È per questo che proponemmo l’idea dell’allegria, di un Paese nuovo, della pace sociale».
Crede che il film rappresenti bene quei giorni?
«Assolutamente sì. Nel film di Larraín sono raccontati bene tutti i passaggi, emergono la rabbia e la voglia di affer- marla nel momento in cui, per la prima volta dal golpe del ‘73, il regime concedeva all’opposizione uno spazio per dire ciò che pensava. Tanto in tv quanto per le strade. Sono ben rappresentati anche gli scontri che avemmo con gli oppositori del regime. E come arrivarono ad accettare il nostro progetto».
Dopo tutto, quella del referendum fu una campagna elettorale così rivoluzionaria per il Cile che ancora oggi viene presa a modello.
«Nella sua essenza, una campagna simile è stata riprodotta in Cile per Michelle Bachelet e in molti altri Paesi dell’America Latina: basti pensare alla strategia messa in campo per Lula in Brasile... Però bisogna ammettere che la sinistra paga ancora il prezzo di una reticenza verso la comunicazione politica e il marketing. Hanno paura che accettando i criteri della pubblicità stiano vendendo una saponetta e non un progetto politico».
Che cosa ricorda di quei giorni?
«Fu un momento eccezionale. Dopo quindici anni per la prima volta c’era la possibilità di abbattere la dittatura. Era molto emozionante, ma anche pericoloso. Stavamo provocando il dittatore mentre era ancora al potere e con tutta la forza dell’apparato militare. Lavorammo senza mai fermarci per settimane. La campagna nacque dall’idea dell’arcobaleno e fu l’in- tuizione decisiva. Quando vedemmo lo spot finito e l’accoglienza che aveva nelle sessioni di prova prima del passaggio in tv ci rendemmo conto che il referendum si poteva vincere».
Che relazione c’è tra il film e il libro di Antonio Skármeta, I giorni dell’arcobaleno?
«Il libro di Skármeta è stata l’ispirazione del soggetto per il film. E poi sia io che Larraín condividiamo la lezione di fondo dello scrittore quando sostiene che l’immaginazione può cambiare la società. Fu esattamente quel che accadde».

Perché lei che all’epoca era un giovane pubblicitario con un buon lavoro e un si- curo avvenire rischiò di per
dere tutto partecipando a una campagna contro il regime?
«Mi invitarono e non avevo altra scelta nella mia coscienza. La mia era una famiglia di socialisti. Mio padre aveva perso il la- voro dopo il golpe di Pinochet. Mia sorella era andata in esilio. C’erano miei amici che erano stati arrestati. La possibilità di prendere parte alla sconfitta di Pinochet era una opportunità che non potevo lasciarmi scappare, anche rischiando di perdere tutto».
Omero Ciai

venerdì 12 aprile 2013

venezuela, il fantasma di Chavez /la repubblica 12 aprile 013

  
 
VENERDÌ, 12 APRILE 2013
 
Pagina 39 - R2-MONDO
 
 
 
 
 
OMERO CIAI

DAL NOSTRO INVIATO
CARACAS
Hugo Chávez è ovunque. Lungo i viali di Caracas su giganteschi manifesti con il suo volto sorridente e il basco militare. In televisione dove vanno in onda programmi speciali di propaganda sui quattordici anni da presidente. Nei giornali, gonfi di pagine di pubblicità di Pdvsa, l’holding statale del petrolio, che rendono omaggio alle «battaglie del comandante invincibile». Nei murales sotto i portici dietro piazza Bolivar, il vecchio centro di Caracas. All’ingresso dei ministeri con foto e pupazzi grandi o piccoli. Sulle magliette rosse dei militanti con lo slogan elettorale: “Chávez te lo giuro, il mio voto è per Maduro”. Nelle piazze dei comizi che iniziano e finiscono con il video dell’ultima volta che i venezuelani lo hanno visto vivo: quella sera di dicembre 2012 quando annunciò che tornava all’Avana per operarsi e affidava a Nicolás Maduro, l’ex ministro degli esteri, il compito di succedergli «se fosse stato necessario». Impossibile sfuggire allo sguardo del comandante che non c’è più ma che regna senza rivali su una campagna elettorale ufficialmente brevissima, appena dieci giorni.
La salma di Chávez è tuttora custodita nella caserma che vide nascere il suo mito con il fallito golpe del 4 febbraio 1992 contro Carlos Andrés Perez, il presidente liberista e corrotto, che tre anni prima aveva lanciato l’esercito nelle favelas per soffocare nel sangue la rivolta popolare. Accanto, c’è già il museo, con la time-line della sua vita sulle pareti, grandi immagini che scendono dal soffitto, frasi, ricordi, oggetti. Duemila visitatori ogni giorno salgono fin quassù sul colle della caserma 4 febbraio. Dal giardino si domina la città e soprattutto
il palazzo Miraflores, quello della presidenza, proprio qui sotto. Alle 16,25, l’ora della morte il 5 marzo scorso, un vecchio cannone spara un colpo a salve. Più in basso, siamo ai margini del “23 de enero”, il sobborgo popolare che è stato la culla del movimento chavista, un’improvvisata cappella della Santeria per “Santo Chávez”. Il processo di santificazione pagana del presidente che non c’è più viene compiuto ogni giorno dal successore designato, Nicolás Maduro, che domenica prossima affronta la sfida di ottenere nelle urne la conferma delle sue ultime volontà per trasformarsi nella nuova guida della “rivoluzione bolivariana”. Maduro, ex autista di autobus, ex sindacalista, ex ministro degli esteri, molto vicino a Cuba, il partner ideologico dell’avventura chavista, si definisce “discepolo e figlio” di Chávez. Lo cita migliaia di volte ogni giorno e sostiene di averlo incontrato, dopo la morte, sotto forma di un uccellino, un colibrì che è volato intorno alla sua testa mentre era a Barinas, la città che diede i natali al comandante. Da allora,
l’uccellino in versione di plastica, Maduro lo porta sul cappello mentre sullo schermo dietro al palco del comizio scorre un cartone animato con Chávez che arriva in Paradiso e trova ad accoglierlo il Pantheon delle figure mitologiche della sinistra latinoamericana. Ci sono il Che Guevara, Salvador Allende, Eva Peron, Sandino, Bolivar, e infine l’amata nonna Rosa Inés.
Il discorso politico di Maduro è abbastanza elementare. Chiede il
voto sulla base dell’appartenenza di classe. Per lui, figlio di operai, che grazie a Chávez sta per diventare presidente. «Non vorrete mica votare per quel borghesuccio che ha sempre avuto tutto dalla vita?», dice. E la folla: «Nooo». «Se votate per me, votate per Chávez, io come voi sono un figlio del popolo». L’altra arma di Maduro è la promessa di portare avanti la politica statalista e assistenzialista promossa da Chávez grazie ai fondi del petrolio.
Ma proprio qui sta il problema del futuro della rivoluzione. Gli economisti sostengono che il Venezuela ha usato i dollari del greggio come se fosse una carta di credito, spendendo anche i profitti dei barili che deve ancora estrarre. E il modello non funziona più. Il governo, un mese fa, è già stato costretto a svalutare la moneta, il Bolivar, del 46 per cento. Le riserve, a parte l’oro che Chávez ha fatto rimpatriare via nave dai caveaux in Inghilterra,
non ci sono più. Il cash scarseggia. I primi effetti, mentre Maduro ha già promesso un aumento dei salari pari al 40 per cento in tre rate per controbilanciare l’inflazione sempre più alta, si sentono negli ospedali pubblici dove è sempre più difficile fare esami, interventi o analisi e nei supermercati, soprattutto quelli governativi a prezzi scontati, dove mancano farina, zucchero e altri prodotti alimentari di base. «Il Venezuela pro-
duce poco e deve importare quasi tutto — spiega l’economista Tamara Herrera — ma da mesi, durante l’agonia di Chávez, lo Stato ha vissuto come in un lungo letargo, le importazioni si sono fermate e ora si rischia il collasso». Grazie alle infinite risorse petrolifere del paese Chávez era convinto di poter comprare tutto e per questo ha distrutto il settore privato, dov’era il nucleo duro dei suoi avversari po-litici, promuovendo le importazioni massicce ma dissanguando le riserve. L’enorme spesa dello Stato per le politiche sociali e assistenziali ha fatto il resto. E chi verrà dovrà pagare il conto.
Dall’altra parte Capriles denuncia “il regime”, la corruzione dilagante nelle alte sfere del potere, un tasso di criminalità tra i più alti del mondo. Si veste come Maduro, con la tuta da ginnastica del tricolore (rosso, giallo e blu) venezuelano, e propone le stesse politiche redistributive di Chávez ma «gestite meglio, con capacità e competenza, senza ruberie». «In ogni caso, dopo il voto di domenica, questo sarà un altro paese — osserva lo scrittore Fausto Masò — Chávez era convinto di essere l’interprete di una missione storica. Si preoccupava di tutti e aveva l’ambizione planetaria di estendere ovunque fosse possibile la sua egemonia. Cuba, Nicaragua, Argentina, Ecuador, Bolivia. Perfino Londra dove regalò petrolio per gli autobus al sindaco socialista. Ora, i suoi apostoli usano anche la superstizione contro l’opposizione, ma sono molto più piccoli».
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giovedì 28 marzo 2013

Cristina e Inaki, il nuovo tormento di Juan Carlos (repubblica, 28 marzo 2013)

Diventa sempre più difficile per il giudice istruttore José Castro che indaga nelle truffe di Iñaki Urdangarin, il genero di re Juan Carlos, eludere quello che viene considerato come l´atto finale dell´inchiesta: l´incriminazione della moglie Cristina. L´Infanta, 47 anni, secondogenita dei reali di Spagna, sposa di Urdangarin e madre di quattro figli, è ormai circondata. La strategia seguita fino ad oggi nel tentativo di separare le responsabilità del marito dalle sue nel "caso Noos", l´istituto attraverso il quale Urdangarin ha ottenuto pagamenti illeciti da amministrazioni comunali e regionali per eventi mai organizzati o grazie a fatture gonfiate, non sta più in piedi. E non solo perché l´ex socio del marito di Cristina, Diego Torres, ha consegnato al giudice una trentina di email nelle quali Iñaki consulta "Kid" - così chiama la moglie - sugli affari dell´Istituto ma soprattutto perché il suo segretario privato, Carlos Garcia Revenga, è già stato coinvolto ed è imputato nella causa.


Com´è possibile che "Kid" non sapesse? Ci si domanda. Era nel direttivo dell´Istituto, aveva messo il suo segretario e consulente finanziario a disposizione del marito, riceveva email con comunicazioni meticolose sulle attività di Noos. Cos´altro è necessario per chiamarla in causa? Si dice che per avallare la strategia difensiva, per costruire di Cristina il personaggio della moglie devota che appoggiava il marito senza sapere come gonfiava il conto in banca, re Juan Carlos abbia fatto pressioni affinché sua figlia chiedesse il divorzio. E che lei si sia rifiutata di obbedire al padre. Ma ora, con il passare dei giorni, e con le deposizioni dell´ex socio che ha l´obiettivo dichiarato di coinvolgere la Casa reale in tutta la vicenda, uscirne immacolati è sempre più difficile.

Per salvare la moglie, i consiglieri di Casa reale, e lo stesso sovrano di Spagna, negli interrogatori in procura Urdangarin si è attribuito ogni responsabilità sul finanziamento truffaldino dell´Istituto Noos ma è una sceneggiatura che non convince per la trama di appoggi e connivenze di cui ha goduto. Il problema ora è: Urdangarin s´è mosso usando la sua parentela reale o anche l´Infanta e il sovrano hanno chiuso gli occhi lasciando che agisse. È il nodo che nelle prossime settimane deve sciogliere il giudice Castro.

A Madrid si crede che una incriminazione di Cristina potrebbe costringere Juan Carlos ad abdicare, affidando le redini al figlio Felipe, per salvare il futuro della monarchia. Oggi può sembrare ancora uno scenario da fantapolitica, ma c´è anche un altro caso che assilla il re ed è l´inchiesta parlamentare sui presunti incarichi che la sua amante, l´aristocratica tedesca Corinna Wittgenstein, avrebbe ricevuto dal governo spagnolo. In questi giorni Cristina con i quattro figli ha lasciato il palazzetto di Pedralbes a Barcellona - messo sotto embargo dalla magistratura - e si è rifugiata dalla madre, la regina Sofia, a Madrid, in attesa che il giudice decida quanto valgono ai fini dell´inchiesta le email che riceveva dal marito.

giovedì 21 marzo 2013

Papa Francesco da bambino (Repubblica 17 marzo 2013)


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI
ITUZAINGO' (Buenos Aires) - "Guardi la faccio entrare solo perché è italiano, e anche il mio cuore è italiano. E scusi il disordine, sono giorni che non ho tempo neppure di darmi una sistemata. Chiamano da tutto il mondo, io e i miei figli passiamo il giorno e la notte a rispondere al telefono». La casa di Maria Elena Bergoglio, sessantacinque anni, l’unica sorella ancora viva di Papa Francesco, è la tipica villetta con giardino nella periferia di classe medio-bassa di Buenos Aires. Un grande living senza divani, cucina e tre camere da letto. Dal centro della capitale ci vuole quasi un’ora per arrivarci. Lei ci vive con i due figli: Jorge, in onore del fratello maggiore, e José. I suoi ricordi vanno subito alla casa di famiglia, dov’è cresciuta, nel quartiere Flores. «Credo che i miei genitori l’abbiano comprata perché aveva una cucina enorme. È che dopo averla comprata non sapevano più dove mettere i loro cinque figli. Jorge nacque nel dicembre del ’36, Oscar 13 mesi dopo, poi arrivò Marta e due anni dopo Alberto».

«Prima di avere me, che sono la più piccola, di dodici anni più giovane di Jorge, mamma perse un altro figlio. E avevo tredici anni quando nostro padre Mariomorìd’infarto.Mafinoadallora, era il 1959, eravamo una famiglia felice. Soprattutto, una famiglia italiana: “Tanos”, così ci chiamano in Argentina. Ricordo la sacralità delle domeniche: prima a Messa, nella Chiesa di San José, poi i pranzi lunghissimi fino al pomeriggio tardi. Quei pranzi infiniti e bellissimi con cinque, sei, anche sette portate. E con i dolci. Eravamo poveri ma con grande dignità, e sempre fedeli a quella che per noi era la tradizione italiana. Mamma era una cuoca eccezionale. Faceva la pasta fresca, i cappelletti con il ragù, il risotto piemontese e un pollo al forno da leccarsi i baffi. Diceva sempre che quando aveva sposato papà non sapeva fare neppure un uovo fritto. Ma poi nonna Rosa, che era scappata nel ‘29 dal Piemonte perché era antifascista, le aveva insegnato i trucchi. Nonna Rosa per noi era un’eroina, una donna coraggiosissima. Non dimenticherò mai di quando ci raccontava che nel suo paese, in Italia, saliva sul pulpito della chiesa per condannare la dittatura, Mussolini, il fascismo».

«Papà Mario era contabile ed era anche l’unico che lavorava in casa. E Dio sa quanto ha faticato per farci crescere. Quando arrivò in Argentina aveva già il suo titolo di studio ma non glielo riconobbero e allora trovò lavoro in una fabbrica però non poteva firmare i registri, li firmava un altro. E per questo lo pagavano meno di quanto avrebbero dovuto. Ma era un uomo sempre allegro, a me ricorda tantissimo mio fratello Jorge Mario. Non s’arrabbiava mai. E mai ci ha picchiato. Era questa la grande differenza tra le famiglie di immigrati italiani e le altre famiglie d’Argentina. L’uomo era l’autorità in casa, ma senza maschilismo. Noi, anche Jorge che era il più grande, eravamo terrorizzati dagli sguardi di papà se sapevamo di aver fatto qualche marachella. Ma a lui davvero bastava lo sguardo. A volte avrei preferito prendermi cento frustrate piuttosto che dover sostenere un suo sguardo di rimprovero. Mi annichiliva. Era innamoratissimo della mamma e le portava sempre dei regali. Mi prendeva per mano e uscivamo di nascosto quando tornava dal lavoro per comprare qualcosa, una cosa qualsiasi, alla mamma. Jorge mi ha sempre ricordato un po’ tutti e due. La mamma, perché anche lui cucina benissimo, fa dei calamari ripieni da urlo, ma soprattutto mi ricorda papà. La domenica papà si portava il lavoro a casa. Poggiava quegli enormi libri da contabile sul tavolo del soggiorno e accendeva il giradischi che diffondeva la musica in tutta la nostra piccola casa. Ascoltava l’opera, e qualche volta le canzoni popolari italiane. Era la musica classica la colonna sonora delle nostre domeniche. Ancora oggi Jorge è come papà: ama l’opera e ogni tanto qualche buon tango. E Edith Piaf. E come papà è l’unico, tra di noi, a essere tifoso del San Lorenzo».

«Sì certo, eravamo dignitosamente poveri, a casa non si buttava niente. Mamma riusciva a ricavare qualche indumento per noi anche dalle cose di nostro padre. Una camicia rotta, un pantalone liso, venivano riparati, ricuciti e diventavano nostri. Forse viene proprio da lì l’estrema frugalità di mio fratello, e anche la mia. Però c’era un problema. Mamma non poteva portare in tavola per due volte di seguito lo stesso piatto. Papà s’offendeva. E allora con tutto quello che avanzava s’inventava altre cose. Mascherava».

«Jorge Mario era per me il fratello più grande, quello che giocava a pallone, che andava all’Azione cattolica e che studiava. Davvero non mi ricordo che abbia mai fatto arrabbiare papà o mamma. Quanto a quella fidanzatina che è andata in tv e che lui avrebbe avuto a tredici anni, certo non potrei ricordarmela ma altrettanto certamente dice una cosa falsa. Dice che Jorge avrebbe dovuto celebrare il suo matrimonio nella chiesa di San José de Flores. E questo è impossibile. Jorge è un gesuita, e non è mai stato sacerdote a San Josè de Flores. Ci andava sì da bambino e adolescente, mai da prete».

«Quando terminò il Liceo tecnico e divenne perito chimico, Jorge disse a mia madre che voleva studiare medicina. Allora mamma decise di sistemare la soffitta che c’era sopra la terrazza della nostra casa per farlo studiare in pace, lontano da noialtri. Un giorno, però, salì a pulirla e trovò solo libri di teologia. Quando mio fratello tornò a casa l’affrontò, chiedendogli perché le avesse mentito. Non posso scordarmelo: “Non ti ho mentito mamma — rispose calmo Jorge — ti ho detto sì che volevo studiare medicina, ma medicina dell’anima”. Lei ci rimase malissimo perché capì che lo avrebbe presto perduto. Papà invece era contento: fosse stato per lui i suoi figli avrebbero dovuto essere tutti preti e monache. Jorge decise che sarebbe entrato in seminario che ormai aveva diciannove anni, era un 21 settembre e doveva andare con gli amici ad un picnic perché in Argentina quel giorno è l’inizio della primavera. Invece andò in chiesa a parlare con il sacerdote. A quel tempo è vero che c’era una possibile fidanzata, me lo ha raccontato spesso lui stesso ma senza mai dirmi il nome. Era una ragazza del suo gruppo di amici, quelli del picnic. Quel giorno di primavera avrebbe dovuto dichiararsi a lei. Ma se continuo a raccontare finisce che mi fratello mi scomunica...».

Maria Elena affonda le dita in una scatola azzurra di cartone, dalla quale estrae due lettere: una autografa del maggio ’58 ai genitori dal collegio “Sagrada Familia” di Cordova e un’altra scritta a lei appena divorziata, qualche anno dopo. E alcune foto di Papa Francisco adolescente. «Siamo rimasti soltanto io e lui», dice con la prima lacrima che le scende sulla guancia mentre fuma l’ennesima sigaretta. «E adesso lo perdo di nuovo. Lui che è stato sempre presente. Anche quando affrontai il divorzio da mio marito mi appoggiò, mi aiutò. Non posso ancora credere che è diventato Papa. Quando è partito per Roma ci siamo salutati come sempre. Jorge ama Buenos Aires e amava il suo lavoro qui. Ha lasciato perfino la casa in curia un po’ in disordine, qualche libro sul letto, lettere da aprire, la spesa fatta, come se dovesse tornare subito. No, non ci ho ancora parlato, ma ho deciso da sola, prima che fosse lui a chiederlo agli argentini, di non spendere i soldi del viaggio per Roma. Lo vede come siamo in sintonia? So che quando lo incontrerò ci abbracceremo senza dirci nulla. Senza scene, soprattutto se in pubblico. Perché siamo italiani del nord: le emozioni sono profonde ma restano dentro».

«Quando venne nominato cardinale da Papa Wojtyla allora sì, andai a Roma con lui. Il giorno prima un altro porporato gli chiese se avesse già scelto la Limousine per andare in Vaticano e lui rispose “Sì, certo, come no”. Ma quale Limousine. Andammo a piedi, camminando per tutta Roma. Lui con i suoi piedi piatti che poi gli fanno sempre male. Ecco, mio fratello è così».

giovedì 7 marzo 2013

La rivoluzione interrotta del caudillo che usò il petrolio per diventare eterno (Rep 6marzo2013)

Un po' meno della metà dei venezuelani lo ha sempre odiato, un po' più della metà dei venezuelani lo ha trasformato in un vendicatore epico e mitologico. Hugo Chávez Firas (nato a Sabaneta il 28 luglio 1954) è stato davvero l'ultimo "caudillo" sudamericano e ha interpretato a partire dalla fine del 1998, nel modo più compiuto questa logora ma sempreverde figura politica in un subcontinente ancora alle prese con miseria e ingiustizie. 

Pensando all'uomo che ha governato fino a ieri il Venezuela, vincendo quattro elezioni consecutive, vengono in mente i personaggi delle epopee letterarie dell'America Latina, come viene in mente la tragica parabola di Simón Bolívar, da cui Chávez trasse impulso e leggenda collocando nel palazzo di Miraflores perfino una poltrona vuota, quella del "Libertador", accanto alla sua. Nel bene e nel male Chávez ha attraversato oltre un decennio di storia, determinandola con la forza delle sue intuizioni e delle sue scelte. Persino delle sue "ricette" politiche che, magari riviste e corrette, hanno fatto scuola in molti Paesi, dal Brasile all'Argentina, dall'Ecuador alla Bolivia.

Anche quando entrò sulla scena per la prima volta, il 4 febbraio 1992, guidando un fallito colpo di Stato militare contro il presidente Carlos Andrés Perez, aveva già le idee chiarissime. Dieci anni prima, insieme ad un gruppo di giovani militari, Chávez aveva fondato il "movimento bolivariano rivoluzionario 200" (allusione ai 200 anni dalla nascita di Bolívar), che nei loro obiettivi avrebbe dovuto "cambiare il Paese" allontanando dal potere i vecchi partiti e i vecchi oligarchi incapaci di affrontare e risolvere l'estrema povertà della maggior parte dei venezuelani.

Un passaggio chiave nell'avventura politica di Chávez fu il famoso "Caracazo " del 1989. Il 27 e 28 febbraio di quell'anno l'esercito represse nel sangue una rivolta popolare contro un pacchetto di misure anticrisi imposte dal Fondo monetario internazionale. La violenza dei militari fu particolarmente brutale in tutta la cintura dei quartieri popolari alla periferia di Caracas, e il numero delle vittime non fu mai reso noto ufficialmente (alcune fonti parlarono di 3.500 morti).

Tre anni dopo, in memoria di quella strage, Chávez tentò il putsch. Andò male e si arrese quasi subito ma nei "barrios" della capitale divenne un eroe così venerato che per la rivincita doveva solo attendere il suo momento. Trascorse appena due anni in carcere e, appena uscito, riprese l'attività politica.

Il primo incontro con il leader che avrebbe guidato e appoggiato la sua ascesa, Fidel Castro, avvenne alla fine del 1994, pochi mesi dopo la sua uscita dalla prigione. Subito dopo fondò il movimento Quinta repubblica e la coalizione elettorale "Polo patriottico", che in poco tempo raccolse l'appoggio di tutte le formazioni della sinistra venezuelana. Il 6 novembre del 1998 finalmente il successo. Chávez venne eletto presidente con il 56,5 per cento dei voti.

Da quel momento la sua unica ossessione fu quella di trasformare in eterna la vittoria mobilitando una parte della società venezuelana, quella più indigente, contro l'altra, "los escualidos" (gli squallidi) della classe media alta e dell'aristocrazia, rurale e petrolifera. Appena arrivato a Miraflores, il palazzo presidenziale nel vecchio centro barocco di Caracas, Chávez modificò la Costituzione, allungando a sei anni il mandato. Poi lo rese perenne: il presidente può ripresentarsi tutte le volte che può. Infine, al termine di un lungo braccio di ferro che si ricorda con il nome di "paro petrolifero", e dopo un golpe fallito contro di lui, tra la fine del 2002 e il 2003, conquistò le chiavi della cassaforte: il controllo personale e assoluto su Pdvsa, la holding del petrolio.

Una strategia perfetta che gli ha garantito il trionfo in tre elezioni successive: 2000, 2006 e 2012. Per oltre dieci anni ha fatto in Venezuela tutto quel che ha voluto, umiliando qualsiasi opposizione. Ha chiuso Rctv, la tv degli "escualidos" e ridotto all'obbedienza tutte le altre. Litigato con il re di Spagna e rotto con Washington. Ma soprattutto ha usato la sua grande risorsa, il petrolio, per modificare il ruolo geostrategico del Venezuela. Stringendo nuove alleanze con Cuba, l'Iran e infine la Cina.

Senza freni Chávez ha anche cercato di allungare la sua egemonia su Centro e Sud America, proponendosi come modello a molti personaggi in cerca d'autore. Dalla peronista Cristina Kirchner, nuova Evita dell'Argentina; a Evo Morales, il presidente "indio" della Bolivia; a Daniel Ortega, il sandinista invecchiato male di Managua; fino a Correa, presidente caudillo dell'Ecuador. Suo mentore e spesso, finché ne ha avuto le forze, suo stratega, è stato Fidel Castro, che dopo anni di precario isolamento, post caduta del Muro e dell'Urss, aveva trovato in Chávez la capacità dissuasiva - milioni e milioni di barili di greggio - che dalla sua piccola e povera isola non avrebbe mai immaginato di possedere.

Nel suo Paese, confondendo sempre, da buon caudillo, il governo con lo Stato, ha occupato tutto quel che c'era da occupare. Riuscendo comunque a galvanizzare masse con le sue "misiones ", i programmi sociali, che non hanno cambiato l'esistenza degli indigenti ma certo gliela hanno resa meno penosa e umiliante. Grazie a Chávez migliaia di venezuelani si sono potuti operare gratis, molti hanno avuto una casa, altri un paio di occhiali, altri ancora un vitalizio.

Giudicare oggi la profondità dei cambiamenti che è riuscito a realizzare non è facile. Bisognerà lasciar riposare tutta la sabbia della propaganda prima di valutare gli effetti del suo "socialismo del XXI secolo" ma non c'è dubbio che nella sua morte prematura c'è un aspetto crudele. Il suo tormento per diventare perenne s'è scontrato con un male incurabile. Così quella di Chávez è un'altra rivoluzione interrotta, abbandonata ai suoi precari epigoni, che lo trasformerà in un altro immortale o, se volete, più cinicamente, in un'altra effigie da t-shirt come Evita, il Che o Sandino.

domenica 3 marzo 2013

martedì 15 gennaio 2013

Un passaporto per l'oceano (Norberto Fuentes per Repubblica) 16/01/03

NORBERTO FUENTES



La cognizione che un'isola è un luogo dal quale non puoi scappare mi fu chiara piuttosto tardi nella mia giovinezza. Non avevo ancora compiuto trent'anni quando mi trovai coinvolto nel più famoso scandalo letterario della Rivoluzione: il caso del poeta Heberto Padilla, anno 1971. Padilla era stato arrestatoe tutto indicava che il prossimo sarei stato io, per il fatto di essermi messo in evidenza come scrittore dissidente. Comparve allora a casa mia un romanziere, un certo Ezequiel Vieta, che aveva il doppio dei miei anni, e diceva di essere un «ammiratore incondizionato» della mia letteratura. Ci voleva uno sforzo di immaginazione per accettare che un libretto di 100 pagine meritasse il rango di "letteratura". Ma comunque. Si dà il caso che Ezequiel, non so come, si era procurato un'automobile, una Hillman Triumph nuova di zecca, e si presentava a casa mia ad offrirmi la chiave di avviamento per metterla al mio servizio. «Prendi la macchina e scappa», mi disse. «Non farti catturare». Attentoa non ferirei suoi sentimenti, gli feci presente che Cuba non aveva frontiere terrestri e che il movimento era limitato fino alla costa. «Sì», rispose meditabondo. «È vero. È il problema delle isole». «E poi, Ezequiel», aggiunsi, «non dimenticare che il combustibile è razionato».


Confesso anche che all'epoca non avevo la minima intenzione di andarmene, nemmeno se Ezequiel mi avesse procurato una Hillman anfibia. Nonostante fossi perseguitato, Cuba e la sua Rivoluzione erano un'avventura che non volevo perdermi per nulla al mondo. C'erano dei pericoli, ovviamente, ma quale vera avventura non ne ha? Eravamo un popolo di eletti. Niente a che vedere con le decine di migliaia di cubani che stanno facendo la fila da giorni di fronte agli uffici che rilasciano i passaporti. È questo quello che mi raccontano amici e parenti da Cuba, con il nostro linguaggio in codice. È come se cercassero di prendere le distanze da un vulcano. Il popolo eletto fugge. La cosa strana, tuttavia, è che fugge da un vulcano che si sta spegnendo. Le autorità cubane affermano che sono stati aperti duecento uffici, dislocati in tutto il paese. La loro missione è rilasciare passaporti. Quella dei cubani è organizzare file come si sono abituati a fare durante mezzo secolo di ristrettezze. Nominano una sorta di delegato - a volte volontario, a volte dietro modesto compenso - che tiene cinque o sei posti mentre l'interessato può dedicarsi ad altre attività.

«Senti, sono matti», mi dice Many Bouza, con un linguaggio chiaro e aperto perché ci stiamo bevendo una birra qui, a Miami. Many ha un'agenzia immobiliare e guida una Mercedes Benz. Diventammo amici qualche anno fa, quando scoprimmo che stavamo nella stessa zona durante le operazioni di "pulizia" dei monti dell'Escambray dai controrivoluzionari. «I miei cugini stanno vendendo il loro appartamento a l'Avana per quindicimila dollari.E non sanno ancora dove andranno, né di cosa vivranno. Soprattutto, non sanno che quei quindicimila dollari non gli basteranno per vivere neppure per qualche mese». Nonostante ciò l'attività ferve e l'immaginazione del paese è tutta occupata da quando il governo ha annunciato di voler eliminare la tristemente famosa tarjeta blanca. La cosa viene vista un po' come l'equivalente della legalizzazione della marijuana in alcuni Stati degli Usa, con la differenza che a San Francisco o a Seattle ti puoi saziare di erba mentre i cubani, per ora, non avranno altro che un documento di cartone con la loro fotografia, il nome e trentadue pagine in bianco.


Vero è che fino a oggi la sola pretesa di uscire dal paese ti trasformava in un cittadino sospetto di attività controrivoluzionaria. Finivi immediatamente sotto la lente dei "servizi". Ma le cose cambiano: «È la dialettica», avremmo detto nei nostri anni di scoperta del marxismo. Da questa mattina ti procuri un visto, ti compri il biglietto, ti presenti all'aeroporto e aspetti la chiamata per l'imbarco. E si realizza finalmente la barzelletta del bambino cubano: "Che vuoi fare da grande?", "Il turista!". Il fatto è che le speranze riposte in questo 14 gennaio sembrano condurre più che altro verso una strada senza uscita. Non voglio pensare che sia tutta una grande presa in giro del governo nei confronti dei suoi sudditi. Di sicuro però non esistono molti posti nel mondo che accettino cubani senza visto, e quelli che non hanno problemi a riceverli limitano il periodo di permanenza. Per cui la situazione è simile a quella descritta da William Faulkner e poi da Hollywood: il villaggio di pescatori in cui se apri una porta cadi dritto nell'oceano. Alcuni intraprendenti cittadini in possesso di un computer, per un euro ti vendono la lista aggiornata dei paesi che accettano cubani con un passaporto ancorché privo di visto di ingresso. La lista è stampata su un solo foglio di carta,e su una sola facciata. Tra tutti i continenti, l'Asia è quello che si mostra più generoso. In testa c'è la Mongolia. Si sa, atterri a Ulan Bator e poi ti vai a godere il denso latte di yak che si munge nel deserto del Gobi, sottozero, accerchiato da un branco di lupi.

Al contrario della Mongolia, i paesi africani fratelli non si distinguono per disponibilità. Nemmeno gli angolani: sembra che la storia dei nostri duemila combattenti morti per la loro libertà non li commuova. Non solo pretendono il visto, ma devi anche far loro vedere di quanti soldi disponi. E questa è l'altra spada di Damocle che pende sull'ondata di emigranti che si accalca in fila: chi paga il biglietto aereo? Come fare a mantenersi una volta atterrati? Secondo molti la risposta a queste due elementari domande è rintracciabile nello spirito imprenditoriale dei cubani. Lo stesso Many Bouza mi diceva ieri una frase che per me rimarrà memorabile: «Nessun cubano sa quanto vale finché non arriva negli Stati Uniti». E Many, vi avverto, non è il tipico controrivoluzionario cubano di Miami. È un uomo di successo in questa città, ma mi colpisce sempre per il candore con cui si riferisce ai compagni con cui lottò a Cuba. Come esempio mi porta quello dell'oscuro tecnico di un'azienda di imbottigliamento a l'Avana che finì col diventare presidente della Coca-Colae uno degli uomini più ricchi del mondo: Roberto Goizueta. E però non ha tutti i torti. Per chi è abituato a un'economia fatta per spremere olio dai sassi, la sopravvivenza quotidiana non dovrebbe presentare scogli insuperabili. Semmai il problema sta dove è sempre stato per i cubani: nella riproduzione del denaro. Perché non crediate che qualcuno abbia intenzione di trasferirsi nel Terzo Mondo. Si sa che si cerca innanzi tutto di comprare visti dei paesi altamente sviluppati, di certo fatti su misura per Goizueta e per il mio amico Many. È di grandi metropoli che abbiamo bisogno. E si sa anche che il personale diplomatico in servizio a Cuba disposto a sentirsi fare offerte ragionevoli non è poco, e tanto meno schifiltoso. Cinquemila euro è il prezzo di mercato di un visto a l'Avana, con una tendenza al rialzo dato l'enorme flusso che si avvicina. Questo porta, a sua volta, a deprimere il prezzo dei vecchi immobili abbandonati dalle prime ondate di emigrati cubani che, se ancora in piedi, sono i gioielli di maggior valore (non si sa più quante volte abbiano cambiato proprietario) in vendita.

Come era prevedibile, gli (le) emigranti più giovani sono quelli (quelle) che godono maggiori possibilità di partire, per via del loro corredo: la prostituzione continuaa essere un affare redditizio, un "dai e incassa" senza tante complicazioni. Al contrario delle case, assistiamo in questo settore a un logico aumento dei prezzi. Sono finiti i tempi del flacone di shampoo e del set di indumenti intimi per il servizio. Ci siamo capiti? Si paga in contanti. La carne sale, l'immobile scende.

Anche le rimesse dei familiari residenti nel sud della Florida costituiscono una buona risorsa, ma solo per chi ce li ha: fratello vai ad Haiti (è uno di quelli che non vuole il visto), poi passo a prenderti con il mio yacht. Gli altri continueranno a lottare con le incarnazioni del socialismo reale - perché come disse un passante al giornalista di una tv di Miami «chi paga cinquemila euro per un negro?».

Più in generale. Per capire che cosa sta succedendo laggiù,a Cuba, io credo che la chiave vada ricercata nelle differenze tra i due fratelli. Fidel era un leader nato. Ha voluto tutto, amici e nemici, tutto il paese, tutto il pensiero, tutte le classi, e ogni vita, ogni libro, ogni capo di bestiame. In qualche modo era - davvero - divino. Senza dubbio, anche molto saggio. Le sue mani controllavano la valvola della pressione. Sapeva quando doveva aprirla perché la pentola non scoppiasse. Questo è ciò che furono le ripetute crisi dei balseros, di Camarioca, Mariel, Cojímar. E poi si vantava che Cuba non avrebbe commesso gli stessi errori dell'Unione Sovietica. Né cortina di ferro, né muro di Berlino. Gli anni hanno dimostrato che era uguale a loro. Ma piaceva tanto. Era così simpatico. Così gagliardo. Raul, no. Raul è un amministratore, un eccellente organizzatore: attenzione a questo punto! E poi vuole lasciare i suoi figli ben avviati e fuori pericolo. Insomma, ci si può spingere a dire che è un riformista. In questo senso, l'audacia che ci si può aspettare da lui è che smonti le audacie di Fidel. Perché ha capito come nessun altro che dove finisce l'ideologia l'unica fonte di potere sono i soldi. Detto in maniera più brutale: per evitare che il crollo di Cuba sia come quello dell'Urss è necessario che il primo a causarlo sia lui, ma mantenendo tutto il potere. Resta solo da capire se c'è anche un accordo segreto con Fidel, come strategia finale di sopravvivenza. Ma state pur certi che hanno già deciso di passare da Lenin a Putin, saltando Gorbaciov. Cuba autorizza tutti i suoi cittadini a viaggiare, ma che nessuno possa farlo è una delle pratiche trovate di Raul Castro. Togliersi i problemi di dosso. Dice il proverbio: morto il cane, finita la rabbia.

(traduzione Luis E. Moriones) © RIPRODUZIONE RISERVATA

martedì 8 gennaio 2013

Venezuela senza Chavez (sei mesi fa...) Repubblica 10/06/2012

Senza di lui siamo perduti Tra i poveri di Caracas che già piangono Chávez




DAL NOSTRO INVIATO OMERO CIAI


CARACAS - Dal palazzo presidenziale di Miraflores alla sede del Consiglio nazionale elettorale in avenida Bolivar c' è poco più di un chilometro. È la prova suprema, la distanza che Hugo Chávez, gravemente malato, dovrà percorrere domani per iscriversi come candidato alle elezioni del 7 ottobre (per la sua quarta rielezione dopo il 1998-20002006). E lo farà a modo suo, sicuramente in auto, attraversando due ali di sostenitori festanti, per dimostrare a tutti che è ancora lui il candidato imbattibile, astuto e istrione come sempre. Da mesi le sue condizioni di salute sono un segreto di Stato e l' incertezza sul futuro dilania un paese spaccato in due - e palesemente irriconciliabile - con filo chavisti da una parte, impegnati a rendere irrevocabile la «rivoluzione bolivariana»; e anti chavisti dall' altra, determinati ad evitarlo. Hugo Chávez, presidente-padrone del Venezuela da tredici anni, è malato per un tumore nella zona pelvica dal giugno dell' anno scorso. Si è operato due volte all' Avana e si è sottoposto a vari cicli di chemio e di radioterapia che lo hanno tenuto lontano dal paese - governava via twitter - per diversi mesi. Le ipotesi sulle sue possibilità di recupero sono tutte negative e le diagnosi, comunque «al buio» e sui sintomi, visto che dall' ospedale di Cuba non è mai filtrato nulla, gli concedono da un minimo di sei ad un massimo di dodici mesi di vita. Lo riconosce anche Juan, un operaio chavista, che milita nella «Mission Milagro» (missione miracolo), il programma in joint venture con Cuba grazie al quale ogni mese un centinaio di venezuelani, poveri e senza mutua, vanno ad operarsi all' Avana a spese del governo dell' isola castrista che, in cambio di questo e altri piani di solidarietà, riceve 130mila barili di greggio al giorno, circa il 5% della produzione venezuelana. Oggi è giorno di partenza e mentre gli ammalati sottoscrivono l' impegno a garantire ognuno almeno dieci voti per Chávez alle elezioni, Juan scuote la testa. «Che fine faremo senza il presidente?». Ha quattro by-pass al cuore («Senza Chávez e Fidel sarei morto perché non avrei potuto pagare l' intervento», dice) e descrive scenari scoraggianti convinto che il malato, nelle stanze di Miraflores, sia più grave di quello che vogliono fargli credere. «Questa rivoluzione finirà con lui», conclude. Per la coalizione antichavista, la Mud, il presidente è «un irresponsabile», che dovrebbe curarsi e candidare un successore, evitando di gettare il paese nei rischi di un vuoto di potere presentandosi per un nuovo mandato che nessuno sa se riuscirà neppure ad iniziare. Ma Chávez è fatto così. Prendere o lasciare. D' altra parte non ha costretto i funzionari del ministero degli Esteri a sloggiare diversi piani del palazzo quando si è trattato di trovare rifugio agli sfollati di un alluvione? E non ha versato attraverso l' holding statale dell' oro nero, Pdvsa, 51 milioni di euro alla scuderia di Formula1 della Williams per far correre Pastor Maldonado, il suo pilota preferito? Gestire senza intermediari il bilancio dello Stato è il sigillo del suo modo di governare. Anzi, di più, il suo obiettivo principale è sempre stato quello, usando il petrolio, unica ma fenomenale fonte d' ingresso del paese, di costruirsi portafogli praticamente personali. Iniziò nel 2002 con l' assalto alla cassaforte di Pdvsa, ma l' operazione più riuscita è il «Fondo Chino». Due tranche da 4 miliardi di dollari di prestiti da Pechino - la prima nel 2007, la seconda in queste settimane - a cambio di 400mila barili di petrolio al giorno a prezzo scontato per la Cina. Il Fondo è amministrato personalmente da Chávez che in questo modo inizia la costruzione di case popolari mai terminate e lancia nuovi programmi di assistenza per il suo popolo: quasi la metà, povera e indigente, dei venezuelani. E la «rivoluzione» avanza anche se nelle farmacie manca l' acqua ossigenata mentre il controllo sui cambi e l' incertezza giuridica allontana qualsiasi investimento internazionale. L' inflazione al 30 percento, il doppio regime cambiario (quello ufficiale e quello «in nero»), l' esplosione della criminalità e la diffusa corruzione nelle pieghe del regime, avevano restituito spazio all' opposizione che, due anni fa, era riuscita per la prima volta a vincere le elezioni parlamentari. Più voti (52 a 48 percento) ma non più seggi. Quanto bastava però per prefigurare la possibilità di una svolta anche alle presidenziali. Dalle primarie - tre milioni di votanti - è uscito un quarantenne moderato, Henrique Capriles, che sembrava in grado di strappare all' altro fronte gli elettori meno radicali, quei pezzi di classe media bassa infastiditi dall' indottrinamento martellante della propaganda ideologica e spaventati dalla criminalità. Ma la malattia sembra aver giocato a favore di Chávez che a quattro mesi dal voto è in netto vantaggio nei sondaggi. Alternative nello schieramento bolivariano d' altra parte non ce ne sono. Nessuno dei tre possibili delfini del caudillo ha speranze di raccogliere tutta la sua eredità nelle urne. Né il ministro degli Esteri, Nicolas Maduro, il più vicino ai cubani; né il presidente del Parlamento, Diosdado Cabello, preferito dai militari; né, infine, il fratello governatore di Chávez, Adan. Così l' unica soluzione è rimasta quella del leader ammalato. «Vogliono conservare il potere salendo sul carro funebre del presidente», denunciano i giornali dell' opposizione convinti che Chávez non riuscirà neppurea farla la campagna elettorale. Anche Caracas, come il resto del paese, è divisa in due fazioni: a nord aristocrazia e classe media;a sude sulle colline, le favelas. I primi temono che alle elezioni neppure ci si arrivi, i secondi - come l' operaio Juan - scrutano le apparizioni del presidente e soffrono per la sua malattia. «Qui succederà quel che decideranno le Forze Armate», dice preoccupata Milagros Socorro, editorialista de El Nacional. È la «soluzione egiziana» che molti analisti dipingono come probabile. L' esercito è quello che ha più da perdere sia nel caso di sconfitta che di scomparsa di Chávez. Generali accusati per narcotraffico dalla Dea americana, ufficiali corrotti, forte ridimensionamento dell' influenza dei militari nella politica e nella società se dovesse cambiare scenario. Dunque, si specula, in caso di inabilità di Chávez è l' esercito che potrebbe assumere il potere con un «governo provvisorio» con la scusa di mantenere la pace e l' ordine fra due fazioni politiche inconciliabili.