giovedì 28 marzo 2013

Cristina e Inaki, il nuovo tormento di Juan Carlos (repubblica, 28 marzo 2013)

Diventa sempre più difficile per il giudice istruttore José Castro che indaga nelle truffe di Iñaki Urdangarin, il genero di re Juan Carlos, eludere quello che viene considerato come l´atto finale dell´inchiesta: l´incriminazione della moglie Cristina. L´Infanta, 47 anni, secondogenita dei reali di Spagna, sposa di Urdangarin e madre di quattro figli, è ormai circondata. La strategia seguita fino ad oggi nel tentativo di separare le responsabilità del marito dalle sue nel "caso Noos", l´istituto attraverso il quale Urdangarin ha ottenuto pagamenti illeciti da amministrazioni comunali e regionali per eventi mai organizzati o grazie a fatture gonfiate, non sta più in piedi. E non solo perché l´ex socio del marito di Cristina, Diego Torres, ha consegnato al giudice una trentina di email nelle quali Iñaki consulta "Kid" - così chiama la moglie - sugli affari dell´Istituto ma soprattutto perché il suo segretario privato, Carlos Garcia Revenga, è già stato coinvolto ed è imputato nella causa.


Com´è possibile che "Kid" non sapesse? Ci si domanda. Era nel direttivo dell´Istituto, aveva messo il suo segretario e consulente finanziario a disposizione del marito, riceveva email con comunicazioni meticolose sulle attività di Noos. Cos´altro è necessario per chiamarla in causa? Si dice che per avallare la strategia difensiva, per costruire di Cristina il personaggio della moglie devota che appoggiava il marito senza sapere come gonfiava il conto in banca, re Juan Carlos abbia fatto pressioni affinché sua figlia chiedesse il divorzio. E che lei si sia rifiutata di obbedire al padre. Ma ora, con il passare dei giorni, e con le deposizioni dell´ex socio che ha l´obiettivo dichiarato di coinvolgere la Casa reale in tutta la vicenda, uscirne immacolati è sempre più difficile.

Per salvare la moglie, i consiglieri di Casa reale, e lo stesso sovrano di Spagna, negli interrogatori in procura Urdangarin si è attribuito ogni responsabilità sul finanziamento truffaldino dell´Istituto Noos ma è una sceneggiatura che non convince per la trama di appoggi e connivenze di cui ha goduto. Il problema ora è: Urdangarin s´è mosso usando la sua parentela reale o anche l´Infanta e il sovrano hanno chiuso gli occhi lasciando che agisse. È il nodo che nelle prossime settimane deve sciogliere il giudice Castro.

A Madrid si crede che una incriminazione di Cristina potrebbe costringere Juan Carlos ad abdicare, affidando le redini al figlio Felipe, per salvare il futuro della monarchia. Oggi può sembrare ancora uno scenario da fantapolitica, ma c´è anche un altro caso che assilla il re ed è l´inchiesta parlamentare sui presunti incarichi che la sua amante, l´aristocratica tedesca Corinna Wittgenstein, avrebbe ricevuto dal governo spagnolo. In questi giorni Cristina con i quattro figli ha lasciato il palazzetto di Pedralbes a Barcellona - messo sotto embargo dalla magistratura - e si è rifugiata dalla madre, la regina Sofia, a Madrid, in attesa che il giudice decida quanto valgono ai fini dell´inchiesta le email che riceveva dal marito.

giovedì 21 marzo 2013

Papa Francesco da bambino (Repubblica 17 marzo 2013)


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI
ITUZAINGO' (Buenos Aires) - "Guardi la faccio entrare solo perché è italiano, e anche il mio cuore è italiano. E scusi il disordine, sono giorni che non ho tempo neppure di darmi una sistemata. Chiamano da tutto il mondo, io e i miei figli passiamo il giorno e la notte a rispondere al telefono». La casa di Maria Elena Bergoglio, sessantacinque anni, l’unica sorella ancora viva di Papa Francesco, è la tipica villetta con giardino nella periferia di classe medio-bassa di Buenos Aires. Un grande living senza divani, cucina e tre camere da letto. Dal centro della capitale ci vuole quasi un’ora per arrivarci. Lei ci vive con i due figli: Jorge, in onore del fratello maggiore, e José. I suoi ricordi vanno subito alla casa di famiglia, dov’è cresciuta, nel quartiere Flores. «Credo che i miei genitori l’abbiano comprata perché aveva una cucina enorme. È che dopo averla comprata non sapevano più dove mettere i loro cinque figli. Jorge nacque nel dicembre del ’36, Oscar 13 mesi dopo, poi arrivò Marta e due anni dopo Alberto».

«Prima di avere me, che sono la più piccola, di dodici anni più giovane di Jorge, mamma perse un altro figlio. E avevo tredici anni quando nostro padre Mariomorìd’infarto.Mafinoadallora, era il 1959, eravamo una famiglia felice. Soprattutto, una famiglia italiana: “Tanos”, così ci chiamano in Argentina. Ricordo la sacralità delle domeniche: prima a Messa, nella Chiesa di San José, poi i pranzi lunghissimi fino al pomeriggio tardi. Quei pranzi infiniti e bellissimi con cinque, sei, anche sette portate. E con i dolci. Eravamo poveri ma con grande dignità, e sempre fedeli a quella che per noi era la tradizione italiana. Mamma era una cuoca eccezionale. Faceva la pasta fresca, i cappelletti con il ragù, il risotto piemontese e un pollo al forno da leccarsi i baffi. Diceva sempre che quando aveva sposato papà non sapeva fare neppure un uovo fritto. Ma poi nonna Rosa, che era scappata nel ‘29 dal Piemonte perché era antifascista, le aveva insegnato i trucchi. Nonna Rosa per noi era un’eroina, una donna coraggiosissima. Non dimenticherò mai di quando ci raccontava che nel suo paese, in Italia, saliva sul pulpito della chiesa per condannare la dittatura, Mussolini, il fascismo».

«Papà Mario era contabile ed era anche l’unico che lavorava in casa. E Dio sa quanto ha faticato per farci crescere. Quando arrivò in Argentina aveva già il suo titolo di studio ma non glielo riconobbero e allora trovò lavoro in una fabbrica però non poteva firmare i registri, li firmava un altro. E per questo lo pagavano meno di quanto avrebbero dovuto. Ma era un uomo sempre allegro, a me ricorda tantissimo mio fratello Jorge Mario. Non s’arrabbiava mai. E mai ci ha picchiato. Era questa la grande differenza tra le famiglie di immigrati italiani e le altre famiglie d’Argentina. L’uomo era l’autorità in casa, ma senza maschilismo. Noi, anche Jorge che era il più grande, eravamo terrorizzati dagli sguardi di papà se sapevamo di aver fatto qualche marachella. Ma a lui davvero bastava lo sguardo. A volte avrei preferito prendermi cento frustrate piuttosto che dover sostenere un suo sguardo di rimprovero. Mi annichiliva. Era innamoratissimo della mamma e le portava sempre dei regali. Mi prendeva per mano e uscivamo di nascosto quando tornava dal lavoro per comprare qualcosa, una cosa qualsiasi, alla mamma. Jorge mi ha sempre ricordato un po’ tutti e due. La mamma, perché anche lui cucina benissimo, fa dei calamari ripieni da urlo, ma soprattutto mi ricorda papà. La domenica papà si portava il lavoro a casa. Poggiava quegli enormi libri da contabile sul tavolo del soggiorno e accendeva il giradischi che diffondeva la musica in tutta la nostra piccola casa. Ascoltava l’opera, e qualche volta le canzoni popolari italiane. Era la musica classica la colonna sonora delle nostre domeniche. Ancora oggi Jorge è come papà: ama l’opera e ogni tanto qualche buon tango. E Edith Piaf. E come papà è l’unico, tra di noi, a essere tifoso del San Lorenzo».

«Sì certo, eravamo dignitosamente poveri, a casa non si buttava niente. Mamma riusciva a ricavare qualche indumento per noi anche dalle cose di nostro padre. Una camicia rotta, un pantalone liso, venivano riparati, ricuciti e diventavano nostri. Forse viene proprio da lì l’estrema frugalità di mio fratello, e anche la mia. Però c’era un problema. Mamma non poteva portare in tavola per due volte di seguito lo stesso piatto. Papà s’offendeva. E allora con tutto quello che avanzava s’inventava altre cose. Mascherava».

«Jorge Mario era per me il fratello più grande, quello che giocava a pallone, che andava all’Azione cattolica e che studiava. Davvero non mi ricordo che abbia mai fatto arrabbiare papà o mamma. Quanto a quella fidanzatina che è andata in tv e che lui avrebbe avuto a tredici anni, certo non potrei ricordarmela ma altrettanto certamente dice una cosa falsa. Dice che Jorge avrebbe dovuto celebrare il suo matrimonio nella chiesa di San José de Flores. E questo è impossibile. Jorge è un gesuita, e non è mai stato sacerdote a San Josè de Flores. Ci andava sì da bambino e adolescente, mai da prete».

«Quando terminò il Liceo tecnico e divenne perito chimico, Jorge disse a mia madre che voleva studiare medicina. Allora mamma decise di sistemare la soffitta che c’era sopra la terrazza della nostra casa per farlo studiare in pace, lontano da noialtri. Un giorno, però, salì a pulirla e trovò solo libri di teologia. Quando mio fratello tornò a casa l’affrontò, chiedendogli perché le avesse mentito. Non posso scordarmelo: “Non ti ho mentito mamma — rispose calmo Jorge — ti ho detto sì che volevo studiare medicina, ma medicina dell’anima”. Lei ci rimase malissimo perché capì che lo avrebbe presto perduto. Papà invece era contento: fosse stato per lui i suoi figli avrebbero dovuto essere tutti preti e monache. Jorge decise che sarebbe entrato in seminario che ormai aveva diciannove anni, era un 21 settembre e doveva andare con gli amici ad un picnic perché in Argentina quel giorno è l’inizio della primavera. Invece andò in chiesa a parlare con il sacerdote. A quel tempo è vero che c’era una possibile fidanzata, me lo ha raccontato spesso lui stesso ma senza mai dirmi il nome. Era una ragazza del suo gruppo di amici, quelli del picnic. Quel giorno di primavera avrebbe dovuto dichiararsi a lei. Ma se continuo a raccontare finisce che mi fratello mi scomunica...».

Maria Elena affonda le dita in una scatola azzurra di cartone, dalla quale estrae due lettere: una autografa del maggio ’58 ai genitori dal collegio “Sagrada Familia” di Cordova e un’altra scritta a lei appena divorziata, qualche anno dopo. E alcune foto di Papa Francisco adolescente. «Siamo rimasti soltanto io e lui», dice con la prima lacrima che le scende sulla guancia mentre fuma l’ennesima sigaretta. «E adesso lo perdo di nuovo. Lui che è stato sempre presente. Anche quando affrontai il divorzio da mio marito mi appoggiò, mi aiutò. Non posso ancora credere che è diventato Papa. Quando è partito per Roma ci siamo salutati come sempre. Jorge ama Buenos Aires e amava il suo lavoro qui. Ha lasciato perfino la casa in curia un po’ in disordine, qualche libro sul letto, lettere da aprire, la spesa fatta, come se dovesse tornare subito. No, non ci ho ancora parlato, ma ho deciso da sola, prima che fosse lui a chiederlo agli argentini, di non spendere i soldi del viaggio per Roma. Lo vede come siamo in sintonia? So che quando lo incontrerò ci abbracceremo senza dirci nulla. Senza scene, soprattutto se in pubblico. Perché siamo italiani del nord: le emozioni sono profonde ma restano dentro».

«Quando venne nominato cardinale da Papa Wojtyla allora sì, andai a Roma con lui. Il giorno prima un altro porporato gli chiese se avesse già scelto la Limousine per andare in Vaticano e lui rispose “Sì, certo, come no”. Ma quale Limousine. Andammo a piedi, camminando per tutta Roma. Lui con i suoi piedi piatti che poi gli fanno sempre male. Ecco, mio fratello è così».

giovedì 7 marzo 2013

La rivoluzione interrotta del caudillo che usò il petrolio per diventare eterno (Rep 6marzo2013)

Un po' meno della metà dei venezuelani lo ha sempre odiato, un po' più della metà dei venezuelani lo ha trasformato in un vendicatore epico e mitologico. Hugo Chávez Firas (nato a Sabaneta il 28 luglio 1954) è stato davvero l'ultimo "caudillo" sudamericano e ha interpretato a partire dalla fine del 1998, nel modo più compiuto questa logora ma sempreverde figura politica in un subcontinente ancora alle prese con miseria e ingiustizie. 

Pensando all'uomo che ha governato fino a ieri il Venezuela, vincendo quattro elezioni consecutive, vengono in mente i personaggi delle epopee letterarie dell'America Latina, come viene in mente la tragica parabola di Simón Bolívar, da cui Chávez trasse impulso e leggenda collocando nel palazzo di Miraflores perfino una poltrona vuota, quella del "Libertador", accanto alla sua. Nel bene e nel male Chávez ha attraversato oltre un decennio di storia, determinandola con la forza delle sue intuizioni e delle sue scelte. Persino delle sue "ricette" politiche che, magari riviste e corrette, hanno fatto scuola in molti Paesi, dal Brasile all'Argentina, dall'Ecuador alla Bolivia.

Anche quando entrò sulla scena per la prima volta, il 4 febbraio 1992, guidando un fallito colpo di Stato militare contro il presidente Carlos Andrés Perez, aveva già le idee chiarissime. Dieci anni prima, insieme ad un gruppo di giovani militari, Chávez aveva fondato il "movimento bolivariano rivoluzionario 200" (allusione ai 200 anni dalla nascita di Bolívar), che nei loro obiettivi avrebbe dovuto "cambiare il Paese" allontanando dal potere i vecchi partiti e i vecchi oligarchi incapaci di affrontare e risolvere l'estrema povertà della maggior parte dei venezuelani.

Un passaggio chiave nell'avventura politica di Chávez fu il famoso "Caracazo " del 1989. Il 27 e 28 febbraio di quell'anno l'esercito represse nel sangue una rivolta popolare contro un pacchetto di misure anticrisi imposte dal Fondo monetario internazionale. La violenza dei militari fu particolarmente brutale in tutta la cintura dei quartieri popolari alla periferia di Caracas, e il numero delle vittime non fu mai reso noto ufficialmente (alcune fonti parlarono di 3.500 morti).

Tre anni dopo, in memoria di quella strage, Chávez tentò il putsch. Andò male e si arrese quasi subito ma nei "barrios" della capitale divenne un eroe così venerato che per la rivincita doveva solo attendere il suo momento. Trascorse appena due anni in carcere e, appena uscito, riprese l'attività politica.

Il primo incontro con il leader che avrebbe guidato e appoggiato la sua ascesa, Fidel Castro, avvenne alla fine del 1994, pochi mesi dopo la sua uscita dalla prigione. Subito dopo fondò il movimento Quinta repubblica e la coalizione elettorale "Polo patriottico", che in poco tempo raccolse l'appoggio di tutte le formazioni della sinistra venezuelana. Il 6 novembre del 1998 finalmente il successo. Chávez venne eletto presidente con il 56,5 per cento dei voti.

Da quel momento la sua unica ossessione fu quella di trasformare in eterna la vittoria mobilitando una parte della società venezuelana, quella più indigente, contro l'altra, "los escualidos" (gli squallidi) della classe media alta e dell'aristocrazia, rurale e petrolifera. Appena arrivato a Miraflores, il palazzo presidenziale nel vecchio centro barocco di Caracas, Chávez modificò la Costituzione, allungando a sei anni il mandato. Poi lo rese perenne: il presidente può ripresentarsi tutte le volte che può. Infine, al termine di un lungo braccio di ferro che si ricorda con il nome di "paro petrolifero", e dopo un golpe fallito contro di lui, tra la fine del 2002 e il 2003, conquistò le chiavi della cassaforte: il controllo personale e assoluto su Pdvsa, la holding del petrolio.

Una strategia perfetta che gli ha garantito il trionfo in tre elezioni successive: 2000, 2006 e 2012. Per oltre dieci anni ha fatto in Venezuela tutto quel che ha voluto, umiliando qualsiasi opposizione. Ha chiuso Rctv, la tv degli "escualidos" e ridotto all'obbedienza tutte le altre. Litigato con il re di Spagna e rotto con Washington. Ma soprattutto ha usato la sua grande risorsa, il petrolio, per modificare il ruolo geostrategico del Venezuela. Stringendo nuove alleanze con Cuba, l'Iran e infine la Cina.

Senza freni Chávez ha anche cercato di allungare la sua egemonia su Centro e Sud America, proponendosi come modello a molti personaggi in cerca d'autore. Dalla peronista Cristina Kirchner, nuova Evita dell'Argentina; a Evo Morales, il presidente "indio" della Bolivia; a Daniel Ortega, il sandinista invecchiato male di Managua; fino a Correa, presidente caudillo dell'Ecuador. Suo mentore e spesso, finché ne ha avuto le forze, suo stratega, è stato Fidel Castro, che dopo anni di precario isolamento, post caduta del Muro e dell'Urss, aveva trovato in Chávez la capacità dissuasiva - milioni e milioni di barili di greggio - che dalla sua piccola e povera isola non avrebbe mai immaginato di possedere.

Nel suo Paese, confondendo sempre, da buon caudillo, il governo con lo Stato, ha occupato tutto quel che c'era da occupare. Riuscendo comunque a galvanizzare masse con le sue "misiones ", i programmi sociali, che non hanno cambiato l'esistenza degli indigenti ma certo gliela hanno resa meno penosa e umiliante. Grazie a Chávez migliaia di venezuelani si sono potuti operare gratis, molti hanno avuto una casa, altri un paio di occhiali, altri ancora un vitalizio.

Giudicare oggi la profondità dei cambiamenti che è riuscito a realizzare non è facile. Bisognerà lasciar riposare tutta la sabbia della propaganda prima di valutare gli effetti del suo "socialismo del XXI secolo" ma non c'è dubbio che nella sua morte prematura c'è un aspetto crudele. Il suo tormento per diventare perenne s'è scontrato con un male incurabile. Così quella di Chávez è un'altra rivoluzione interrotta, abbandonata ai suoi precari epigoni, che lo trasformerà in un altro immortale o, se volete, più cinicamente, in un'altra effigie da t-shirt come Evita, il Che o Sandino.

domenica 3 marzo 2013