domenica 21 dicembre 2014

Il fantasma di Fidel (Repubblica, 20 dicembre 2014)




L'AVANA - Tutti i pomeriggi verso le cinque Fidel Castro beve un grande bicchiere di spremuta d'arancia e mangia qualche sedano: agenti antiossidanti contro il cancro e un toccasana per la malattia che lo ha portato due volte, nel 1992 e nel 2006, a un passo dalla morte. La diverticolite nell'intestino. Arance e sedani, come moltissime altre cose vengono prodotti in loco, nella grande fattoria, si chiama "Punto Cero", che circonda la sua villa dell'Avana, quartiere di Siboney. L'abbiamo intravista ieri sbirciando oltre la vasta vegetazione che l'abbraccia. La strada che gira intorno alla fattoria della famiglia di Fidel è l'unica senza traffico in città. Ogni cento metri una videocamera di sicurezza. Tre accessi con la sbarra e il gabbiotto dei soldati. Praticamente è un fortino e se, per caso, qualcuno si ferma in meno di due minuti arriva la macchina della polizia. Prima chiedono i documenti, subito dopo danno l'ordine di sloggiare in fretta. C'è anche il cartello che proibisce di scattare fotografie.

Che il potere debba essere invisibile e superprotetto è da sempre una prassi dell'anziano líder maxímo. Così a pochi giorni dalla svolta di Obama e Raúl, in assenza di dichiarazioni ufficiali, sul pensiero del patriarca si può soltanto speculare. Deve averlo saputo qui, dietro questi enormi alberi, il fogliame e la recinzione che nascondono tutto. Nel suo studio o nel salotto, dove il fratello Raúl  -  questo è certo  -  si reca spesso a salutarlo.

La casa di Raúl, si chiama "La Rinconada", invisibile come quella di Fidel, è a meno di mezzo chilometro in linea d'aria. Come, sempre a meno di mezzo chilometro, c'è il Cimeq, la clinica super accessoriata per i dignitari del regime dove venne operato per tre volte Hugo Chávez. E dove probabilmente il caudillo venezuelano morì prima di essere riportato a Caracas. Molti dettagli riservati della vita di Fidel li ha rivelati in un libro  -  "La vie cachée de Fidel Castro"  -  uscito a Parigi qualche mese fa, un bodyguard della sua scorta, Juan Reynaldo Sanchez, fuggito in Florida nel 2008. Le descrizioni sono abbastanza eccezionali. Secondo Sanchez, "el Caballo", vecchio soprannome popolare del leader, governava l'isola come un signorotto medievale cui ogni cosa era permessa. Case in ogni dove, zone riservate per la caccia e per la pesca (Fidel adorava quella subacquea), e "Punto Cero", dove si produce tutto quello che lui e la sua famiglia mangiano, comprese le mucche per il latte di tutti giorni su un'isola dove per decenni tutti gli altri hanno bevuto solo quello in polvere che arrivava dall'Urss.

Fidel ha sempre giustificato la più assoluta segretezza con la necessità della sicurezza sua e della sua famiglia. Necessaria per la serie di attentati falliti  -  ma molti sono inventati dalla propaganda  -  che ha subìto dalla Cia. Ma è ovvio che c'è molto di più: l'invisibilità incute terrore e innalza il mito dal resto dei mortali.
Sull'Avana splende un tiepido sole, è alta stagione, il dolce inverno dei Caraibi: "Tra due mesi avremo le Marlboro", dice il proprietario di uno dei tanti piccoli caffè privati all'aperto nelle strade intorno al vecchio centro coloniale della città sorti con le riforme economiche promosse da Raúl. Ma intorno a lui gli avventori sperano in molto di più. Si va dal famoso slogan di Deng ("Compagni arricchitevi ") che fece esplodere l'economia cinese al "Benvenuto Mr. Marshall", l'imponente programma di aiuti americani all'Europa della post guerra contro il nazismo. In molti sono convinti che inizia un'altra era, senza la povertà e le carestie che hanno scandito i lunghi anni dell'avventura socialista. Arriveranno gli yankee e gli investimenti per ricostruire le facciate sfregiate dei palazzi, l'asfalto scassato delle strade e i marciapiedi butterati. Ma soprattutto arriveranno nuove opportunità di affari e lavoro per tutti.

Nelle stanze del potere le cose non stanno esattamente così. È la pace dei vincitori quella che Raúl vuole firmare con l'America tenendo ben lontani i vinti, la vecchia cricca degli anticastristi sconfitti che stanno a Miami, dagli eventuali prossimi bottini economici. E per questo tanti pensano che dietro alle mosse del fratello ci sia la celebre astuzia di Fidel che, di certo, non può non gioire di fronte a un presidente americano che, finalmente, riconosce in mondovisione che l'embargo e tutta la politica degli Stati Uniti verso la sua Cuba sono stati un clamoroso, quanto inutile sbaglio.

È come se attraverso Raúl, che si assume tutti i rischi di un gesto che forse lui non avrebbe potuto compiere, Fidel abbia vinto ancora una volta. Come quando scese dalla Sierra o come quando respinse, in tre giorni di guerra, l'invasione della Baia dei Porci. Ha vinto ancora, ora che l'America non si propone più di abbattere con qualsiasi mezzo disponibile né lui, né l'eredità che ha lasciato. Ma vuole collaborare perché "Somos todos americanos". Anche se fosse l'ultima è la sua vittoria più bella perché nessuno sta più chiedendo all'isola che conquistò con la guerriglia all'alba del 1959 di cambiare regole per essere accolta nel consesso internazionale. Il partito unico, la censura alla stampa, la caccia ai dissidenti prima o poi finiranno. Ma finiranno quando lo decideranno Raúl e gli oligarchi dell'esercito che lo circondano, o i loro eredi, e non perché lo pretende, affamandoli e combattendoli, il nemico di sempre.

La morale piaccia o non piaccia sta qui. Per questo molti repubblicani Usa e i congressisti cubani della Florida sono furibondi. Il regime di Cuba li ha messi ancora una volta fuorigioco. Non contano nulla, come gli sconfitti di ieri, in questa partita. Allora da qualche parte in questa storia ci dev'essere la leggendaria sagacia politica del "Caballo" che morirà nel suo letto di "Punto Cero" dopo aver fatto per decenni di quest'isola quello che ha voluto.
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lunedì 20 ottobre 2014

Brasile, repubblica 03 ottobre 2014

Sāo Bernardo do Campo (San Paolo).  Il polso del Brasile bisogna prenderlo qui, nella sterminata cintura industriale di San Paolo, la sua capitale produttiva e finanziaria, dove ci sono le grandi fabbriche dell'auto che, subito dopo i Mondiali, hanno iniziato sottovoce a licenziare. Niente di catastrofico ma la tendenza del "decennio prodigioso" (2003-2013) s'è ormai invertita. Dieci anni fa in Brasile si vendevano 100mila auto al mese, due anni fa l'industria toccò il picco: 300mila nuovi proprietari di auto ogni mese. Fu il simbolo di una rivoluzione sociale che in pochi anni aveva portato fuori dalla miseria quasi trenta milioni di persone che avevano iniziato a spendere, a consumare, e soprattutto a indebitarsi. In dieci anni la disoccupazione è scesa dal 13 al 5 percento. E il reddito delle fasce più basse è cresciuto da 700 reais (230 euro) a 1100 (310 euro). Un cortocircuito magico sostenuto dalle esportazioni di materie prime - soprattutto soia verso la Cina -, dall'aumento dei salari, e dai programmi sociali di redistribuizione dei governi del Pt, il partito dei lavoratori di Lula e Dilma Rousseff, che hanno incoraggiato l'esplosione dei consumi interni.

Quando arriviamo a Sāo Bernardo do Campo ci sono i picchetti. Alla Volkswagen come alla Mercedes Benz è iniziata la stagione dei rinnovi salariali e le proteste danno l'idea dei guai che, dopo le elezioni (primo turno domenica, ballottaggio 26 ottobre), si troverà ad affrontare il nuovo esecutivo. L'inflazione è alta, sfiora il 7%; il pil ha il segno meno da due trimestri; il deficit di bilancio dello Stato cresce. Gli economisti vicini al governo di Dilma sostengono che la burrasca è passeggera. E che presto la curva dell'economia riprenderà a salire come nel fantastico 2010 quando la crescita volò al 7,5%. Gli altri, invece, dicono che il problema sta nel modello. Che va cambiato come promettono gli altri due candidati: l'ambientalista Marina Silva e il centrista Aécio Neves. Il modello di Dilma è quello che si appoggia su un forte intervento dello Stato nel mercato, sulle misure protezionistiche (alti dazi sull'import), e sul contenimento artificiale dei prezzi, primo fra tutti quello della benzina che viene calmierato dal governo. Che il colpevole sia il modello sono convinti i broker della Borsa che svendono azioni facendola crollare ogni volta che i sondaggi premiano nella corsa elettorale l'attuale "presidenta".

L'incertezza sulle prospettive ha reso molto volatili le preferenze sul voto. I sondaggi sembrano un tobogàn dove i candidati svolazzano prima su e poi giù un giorno dopo l'altro.
Come se mezzo Paese impaurito non sapesse a chi affidarsi per ritrovare fiducia nel futuro.
La ricetta di Dilma è quella della continuità e infatti stravince nelle regioni più povere del Nord est dove milioni di persone dipendono dai programmi di assistenza sociale dello Stato. E temono di perderli se a Planalto, il palazzo del presidente a Brasilia, arriverà qualcun altro.  Marina e Aécio Neves, il terzo incomodo centrista che spera di entrare nel ballottaggio, vanno fortissimo nelle aree produttive.  Da San Paolo giù verso Sud fino a Porto Alegre. Tra le classi medie, quelle delle proteste, che chiedono più infrastrutture, programmi scolastici, migliori ospedali. E meno corruzione. Per gli avversari della Rousseff l'ultimo scandalo, quello di Petrobras, la holding petrolifera, è l'incarnazione di un modo di gestire il potere. "Hanno usato la più grande industria del Paese come un bancomat personale", ha detto la Silva in tv quando si è scoperto che per anni, dagli uffici della holding erano state distribuite mazzette ai politici.


Nonostante sia cresciuta nel "partito dei lavoratori" e abbia condiviso con Lula una lunga stagione di lotte politiche, oggi il programma di Marina vuole cancellare i tratti "socialisteggianti" dell'amministrazione del Pt. Una svolta neo liberale che ridurrebbe il peso dello Stato concedendo totale autonomia alla Banca centrale e più spazio all'industria privata. E che, senza intervenire sull'assistenza ai poveri, promette di spendere meglio le risorse. Non per gli stadi di calcio ma per scuole, ospedali e sicurezza. Un mutamento che riguarderebbe anche la posizione geostrategica del Brasile, con un riavvicinamento agli Stati Uniti e un progressivo allontanamento dall'orbita del Mercosur, il mercato comune con i paesi vicini, soprattutto l'Argentina, che impedisce al Brasile di firmare accordi di libero mercato con l'Europa, gli Usa o i Paesi dell'area del Pacifico. Insomma Marina, ma anche Aécio, prospettano di liberare il Paese dai lacci che, secondo loro, ne ostacolano la crescita. Se è vero, come sostengono alcuni esperti, che il nocciolo dei pasticci sta soprattutto nelle barriere protezionistiche e in una industria che, al riparo della globalizzazione, è andata perdendo competitività.


 L'ultima battaglia però è nel fortino degli evangelici, alle cui Chiese aderiscono ormai quasi il 25% degli elettori. All'inizio della campagna elettorale in Brasile si è parlato molto di leggi contro l'omofobia, di matrimoni gay e di aborto. Tutti temi che fanno venire i brividi ai sacerdoti pentecostali. Poi quando i candidati hanno scoperto di aver a che fare con una società molto più conservatrice di quella che immaginavano - una inchiesta dell'Istat locale ha rivelato che quasi il 70 percento dei brasiliani è contrario alle nozze gay e ad una moderata liberalizzazione dell'aborto - le proposte sono scomparse dai programmi elettorali. Dilma che è agnostica, figlia di comunisti, e da giovane è stata guerrigliera contro la dittatura militare, è andata a fare proseliti nelle chiese evangeliche. Marina Silva non ne ha bisogno perché è adepta in quella più grande, "l'Assemblea di Dio". Ma, sondaggi alla mano, Dilma e Marina si dividono il consenso dei pentecostali. 38% per la "presidenta", 54% per la sua avversaria.  Chi salverà il Brasile? La continuità o il cambiamento? Insicuri e anche un po' spaventati milioni di elettori alla vigilia del voto se lo stanno ancora chiedendo.

sabato 5 luglio 2014

Cristina e il culto della personalità di Nestor (il Venerdì di Rep 27 giugno 2014)

Nestor Kirchner abbraccia Hebe de Bonafini dopo l'abolizione delle leggi di indulto
e amnistia per i crimini commessi dalle Forze armate durante la dittatura (1976-83)


Una piazzetta, un ponte, un torneo di calcetto. Poi viali, scuole, aeroporti, centri sportivi, facoltà, stazioni, musei, teatri, parchi, sale congressi, ambulatori, ospedali. Persino fabbriche. La febbre per rendere omaggio all'ex presidente Nestor Kirchner, il marito della presidente Cristina, morto d'infarto a sessant'anni nel 2010, s'è ormai impossessata dell'Argentina e contagia ogni luogo del Paese. Dovunque scoprono busti, ritratti, statue e gli intitolano qualcosa. Nell'hotel Santa Cruz a Rio Gallegos, in Patagonia, hanno chiamato "Nestor Kirchner" addirittura la saletta della pausa caffé. Migliaia di chilomentri più sù, a Misiones, l'ultima provincia del nord argentino incastrata fra il Paraguay e il Brasile, gli hanno intitolato un intero quartiere, una linea di autobus, e un commissariato. Vicino a Buenos Aires anche una mensa scolastica e una biblioteca sono dedicate al ricordo del defunto presidente. Il culto della personalità nel peronismo, il movimento politico che domina la scena argentina da quasi settant'anni, non è un fenomeno nuovo. Ma finora era circoscritto al generale Perón e soprattutto alla sua seconda moglie, Evita, morta giovanissima a 33 anni nel 1952. Con Nestor ha rotto gli argini tanto da offuscare la memoria del padre fondatore e germogliare un nuovo inizio: il "neoperonismo" di Cristina.

Sindaco di Rio Gallegos e poi governatore della regione di Santa Cruz, nell'estremo sud del Paese, Nestor Kirchner è stato in Argentina il presidente della resurrezione dopo la bancarotta nazionale del 2001. Vinse le elezioni nel 2003, marcate da una battaglia aperta tra le varie anime del peronismo, superando al primo turno l'ex presidente Carlos Memen che si ritirò evitando di affrontarlo al ballottaggio. Quattro anni dopo, nel 2007, nonostante fosse molto popolare e senza avversari per ottenere un secondo mandato, lasciò per dare spazio a sua moglie Cristina.  Il progetto della coppia era semplice: alternarsi negli uffici della Casa Rosada, sede della presidenza a Buenos Aires, ogni quattro anni e rimanerci il più a lungo possibile, aggirando la Costituzione che vieta più di due mandati presidenziali consecutivi. La morte prematura di Nestor cancellò il disegno ma favorì la rielezione della vedova che, nel 2011, stravinse parlando soprattutto del consorte che non c'era più.  "L'Argentina - ha scritto Sylvina Wagner, giornalista e biografa non ufficiale dei Kirchner - ha plasmato, come la maggior parte dell'America Latina, il suo carattere sulla base del melodramma. Con Cristina, dopo molti anni, l'Argentina ha recuperato la sua impronta melodrammatica come ai tempi di Evita Duarte".

Per gli argentini Nestor è stato un modello. Gli ha restituito l'orgoglio quando erano una nazione ferita. Litigando con tutti. Dal Fondo monetario ai creditori. E poi con Bush figlio e con le aziende spagnole. Con i vicini, dall'Uruguay al Brasile. Mostrando una presunzione che spesso sconfinava nella pura superbia. Ma soprattutto Nestor  ha avuto la fortuna di montare in sella all'onda della ripresa economica, assicurata, per un paese esportatore di materie prime come l'Argentina, dalla grande svalutazione monetaria post bancarotta e dalla vorace domanda cinese di grano e soia.  Cristina ha creato il mito di Nestor con diligenza e impegno per poter governare. Nestor che reinventa il peronismo di sinistra e abolisce l'indulto ai militari della dittutura, Nestor che combatte contro le banche straniere e le costringe ad accettare un taglio del 70 percento sul debito estero dell'Argentina, Nestor che sbatte la porta in faccia al Fmi, Nestor anti imperialista, Nestor superman. Tante cose sono vere, altre meno. Fatto sta che oggi Nestor è l'unico leader peronista defunto ad avere un possente mausoleo tutto suo. A Rio Gallegos dove nacque. Un monumento grigio in pietra patagonica, cemento e granito, alto undici metri e largo sedici, di due piani con cupola. Le spoglie di Domingo Perón, presidente dell'Argentina dal 1946 al '55 e fondatore del peronismo, riposano in forma molto più discreta in una villa di campagna a 40 chilometri da Buenos Aires. Da anni si parla di costruirgli un mausoleo ma poi non se ne fa mai nulla. Quelle di Evita, la popolarissima Evita, stanno in un modesto pantheon familiare nel cimitero della Recoleta, nel centro di Buenos Aires. Nestor, invece, è ormai dovunque. La frenesia del ricordo è tale che un giornalista del "Clarin", per prendere in giro tutti gli omaggi alla memoria che si moltiplicano nel Paese, ha messo in rete un blog dove raccoglie le foto di tutte le inaugurazioni di luoghi dedicati al marito di Cristina.

Nei piani di Cristina Kirchner la fondazione del mito avrebbe dovuto avanzare insieme alla campagna per la sua seconda rielezione, proibita dalla Costituzione. E' andata male. Prima un gran nemico, suo e di suo marito, è addirittura diventato Papa. Poi alle elezioni legislative l'anno scorso hanno vinto i suoi avversari, tutti peronisti, da Sergio Massa a Daniel Scioli. E oggi Cristina sta entrando nel suo ultimo anno di presidenza. Mestamente. Con i presagi di una nuova crisi del debito alle porte. Ma è difficile che, lasciata la Casa Rosada, si limiterà a fare la nonna. Chi la sostituirà dovrà, più o meno apertamente, ottenere il suo appoggio. Apparentemente da qualche tempo le chiavi della politica argentina sono state trasferite a Roma, in Vaticano, nelle stanze di Papa Francesco. Non c'è politico che non chieda udienza, sostegno, benedizione al Papa argentino. Ma Cristina è tosta. E caparbiamente continua a inaugurare ossequi a Nestor in ogni angoletto del Paese. Lei e Lui, leader inossidabili del neoperonismo.


domenica 25 maggio 2014

Cuba, la fuga dei figli di papà (Repubblica 25 maggio 014)


OMERO CIAI

MIAMI. L'ultimo a passeggiare sullo scintillante lungomare di South Beach, in Florida, è stato Josué, il  figlio più piccolo del generale Abelardo Colomé Ibarra. Guerrigliero sulla Sierra, oggi Ministro degli interni, membro del ristretto Burò politico del partito comunista, e uomo di Raúl,  Abelardo Colomé Ibarra, detto "Furry", 75 anni, è uno dei tanti grandi dinosauri del socialismo tropicale con prole all'estero, lontana dalle indigenze dell'isola dei fratelli Castro.  Qualche tempo fa, suo figlio Josué Colomé Vázquez ha preso un aereo dall'Avana a Cancun, in Messico, ha attraversato la frontiera con gli Stati Uniti, chiesto asilo, e raggiunto sua madre, Suri Vázquez Ruz, ex moglie di "Furry", che vive in esilio a Miami da alcuni anni. Poi Josué ha postato sulla sua pagina Facebook una sua foto sull'Ocean drive di Miami Beach accanto a una Ferrari e in un bar davanti a un  frullato, sorridente e felice. "Josué è stato sempre molto legato a sua madre" - confidano nella abbondante, e ormai anche molto variegata, comunità cubana di Miami: oltre un milione di anime che vivono nel lembo capitalista dello Stretto della Florida - "e alla fine ha scelto di raggiungerla". Ma lo stesso hanno fatto Glenda Murillo, figlia di Marino Murillo, lo zar a Cuba delle riforme economiche, fuggita a Tampa, Florida, dopo uno stage di studi in Messico. E Pablo Ernesto Remirez de Estenoz, 24 anni, figlio di un ex ministro degli Esteri ed ex capo della delegazione cubana a Washington. E ancora Ernesto Andollo, figlio del generale Leonardo Andollo Valdés. O Antonio Luzon, figlio di un vicepresidente del Consiglio dei ministri. E se qualcuno lascia l'isola per amore, come Glenda che ha raggiunto il suo compagno nonostante la resistenza del padre; altri lo fanno per insofferenza  e avversione. Ernesto Andollo ha postato sul web una foto mentre in un museo delle cere stringe il collo a una statua di Fidel Castro, e Pablo Remirez una sua immagine davanti al "Versailles", il famoso ristorante tempio dell'anticastrismo negli Stati Uniti.

La diaspora cubana non è una novità ma la lista di familiari della nomenclatura che, nonostante i privilegi di cui godono sull'isola, scelgono di andarsene, è così nutrita da lasciar credere che ai nipotini della rivoluzione del futuro socialista importi davvero poco. "Bisogna distinguere - dice lo scrittore cubano in esilio Norberto Fuentes - perché alcuni vanno all'estero a studiare, o a fare affari, e nei progetti del regime saranno la nuova classe dirigente, quelli che dovranno perpetuare il castrismo dopo Fidel e Raúl. Altri invece rompono". Fra quelli che tagliano i ponti, un esempio è Juan Juan Almeida, figlio del comandante Juan Almeida Bosque, morto nel 2009, che oggi lavora nell'odiata America per un network anticastrista, "Martinoticias". Mentre sull'altro fronte si può citare la nipote di Castro,  figlia del primogenito Fidelito, Mirta Castro Smirnova, laureata in fisica nucleare in Spagna, dove risiede, quando ancora per la maggior parte dei cubani era vietato uscire dall'isola.  Altri ancora si muovono con discrezione, come pesci sott'acqua. Senza dare troppa pubblicità a quella che nelle fila del castrismo può essere ancora oggi bollata come "diserzione". E' il caso di Lourdes Argivaes, nipote di Celia Sanchez - la potentissima segretaria di Castro nei primi anni della rivoluzione - , e ex moglie di uno dei figli di Che Guevara, che vive a Marbella in Spagna. E di Deborah Andollo, anche lei come il già citato Ernesto, figlia del generale Andollo Valdés, che lavora in un acquario con i delfini sull'isola di Cozumel, in Messico.

"La rivoluzione - ha scritto la giornalista americana Ann Louise Bardach - ha frantumato le famiglie cubane provocando scontri fra cugini, zii e zie, fratelli, sorelle e padri".  Una tragedia greca alla quale neppure la famiglia del líder maxímo è stata estranea. Suo cognato, il fratello della sua prima moglie, Mirta, la madre di Fidelito, e suo amico alla facoltà di Giurisprudenza negli anni dell'Università, Rafael Diaz-Balart, si esiliò in Florida e divenne un acerrimo nemico dei "barbudos". Sua sorella, Juanita, lasciò Cuba per gli Stati Uniti e lavorò addirittura per la Cia. Come la sua famosa figlia illegittima, Alina Fernandez Revuelta. Lontano da Cuba vivono anche i figli e i nipoti di Ramon Castro Ruz, il fratello maggiore di Fidel e Raúl. Ma erano altre epoche, oggi quelli che se ne vanno sono gli eredi più giovani di coloro che conservano da oltre mezzo secolo il potere sull'isola. Come la giovane caporedattrice del "Granma", il quotidiano del partito, Mairelys Cuevas Gomez, o il figlio dell'ex direttore Lazaro Barredo. A spingerli lontano, loro che in un regime quasi monarchico potrebbero facilmente succedere ai padri, sarà forse la noia, la monotonia, il grigiore socialcomunista, come giustificò la sua defezione la scrittrice Zoé Váldes dopo l'opera prima, "Il nulla quotidiano", appunto. Oppure l'irrequietezza giovanile, quella che anima uno degli ultimi scandali di Cuba dal punto di vista del sistema, con il figlio, "Silvito el libre", di un mostro sacro della retorica rivoluzionaria, come il cantautore Silvio Rodriguez, che se ne va in giro per il mondo a suonare rap contro il socialismo. "Amo mio figlio qualsiasi cosa pensi", ha detto Silvio Rodriguez per proteggerlo dalle ire dei censori.

Ma vivono all'estero anche i figli di uno dei generali della linea dura, Ramiro Váldes, plenipotenziario della strategica missione nel Venezuela di Chávez e Maduro, e oggi numero tre del regime. Ramirito, che ha rotto con il padre e vive a Palencia, in Spagna, e Agustin. E quello di uno degli intellettuali più vicini a Fidel, lo storico e urbanista Eusebio Leal, che risiede a Barcellona e dipinge. In America vivono i figli di Isabel Rodriguez Lopez-Callejas, sorella di Luis Alberto, il marito della figlia maggiore di Raúl, Deborah, generale dell'esercito e uno dei manager più influenti nelle industrie di Stato gestite dalle Forze armate. Ma anche Margarita, la figlia di Ricardo Alarcon, per vent'anni presidente del parlamento cubano, e a lungo indicato come delfino e successore di Fidel. E Camila, la figlia di Manuel Piñero, al secolo "Barbaroja", l'uomo che gestì dall'Avana tutte le guerriglie sudamericane filo castriste, che ha sposato un americano. E' un'onda, questa dei "figli di papà", che non si ferma e che in Florida, tra gli esponenti del vecchio esilio, quello degli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, quando dall'isola fuggivano solo gli oppositori, sta creando qualche malumore verso il governo americano. "Stanno offrendo asilo ai figli dei repressori", sussurra più d'uno.


Vasta è anche la comunità dei figli degli eroi caduti in disgrazia. Risiedono all'estero, fra Miami e Madrid, Ivan, Lily e Juan Carlos, figli di José Abrantes, ministro degli interni morto in carcere nel '92. Diana Ochoa, figlia del generale Arnaldo Ochoa fucilato nell'89. Ileana e Antonio de la Guardia, figli di Tony, un capo dell'intelligence giustiziato insieme ad Ochoa. Jorge Masetti, figlio di Ricardo Masetti, il giornalista amico del Che, che fondò l'agenzia di stampa cubana, Prensa Latina. E Liset Ulloa, ex moglie di Antonio Castro, detto "il principe", figlio favorito di Fidel. Ma tra i fuggitivi in cerca di un diverso futuro, più o meno tollerati dall'Avana, ci sono figli di militari, ex ambasciatori, funzionari, noti e ignoti nelle gerarchie della burocrazia cubana. Tutti in attesa di un epilogo. Se mai ci sarà.

sabato 3 maggio 2014

Il presidente Correa e i figli del giaguaro (repubblica 1 maggio 014)







HA un bel problema Rafael Correa, presidente dell’Ecuador, sempre un po’ muscoloso con gli avversari politici. “I figli del giaguaro” si sono messi contro di lui e, visti i precedenti, rischiano anche di vincere la nuova contesa. Tre condannati per oltraggio al Capo dello Stato si sono rifugiati nella zona protetta amazzonica dei Sarayaku, comunità di indios nativi, noti appunto come i “figli del giaguaro” per la loro audacia e determinazione. E soprattutto famosi per aver vinto due anni fa una interminabile causa giuridica contro le multinazionali del petrolio, pronte a perforare la “Pachamama”, l’intoccabile “Madre Terra” dei loro avi, in cerca di nuovi giacimenti di greggio. L’assemblea Sarayaku s’è riunita e ha deliberato che “per rispetto dei diritti umani” i tre ricercati avranno tutta la protezione necessaria all’interno della riserva nonostante il presidente Correa abbia ordinato a polizia e esercito di arrestarli al più presto.

Ora la situazione è di stallo: gli indios denunciano via radio che il loro territorio, 3mila km quadrati nel sud-est del Paese, viene sorvolato da aerei militari e che le Forze armate stanno circondando i limiti della loro area, ma si rifiutano tenacemente di consegnare i tre fuggiaschi. Politicamente è un gran guaio perché i tre non sono delinquenti comuni. Uno è un deputato, Clever Jimenez; un altro è un giornalista, Fernando Villavicencio; l’ultimo è un medico, Carlos Figueroa. La vicenda risale a tre anni quando fa Jimenez, deputato di un partito oppositore, chiese alla magistratura di indagare sul comportamento del presidente nel corso di una rivolta di agenti di polizia che chiedevano aumenti salariali. Correa ci rimase male, denunciò a sua volta Jimenez e, qualche mese fa, ha vinto la causa. 

Jimenez e Villavicencio sono stati condannati a diciotto mesi, Figueroa a sei, e tutti e tre a risarcire 140mila dollari per danni morali.
Il territorio dei Sarayaku è facile da raggiungere solo per via aerea. Dall’ultima città prima della foresta amazzonica, El Puyo, ci vogliono due o tre giorni di navigazione lungo i fiumi; oppure otto giorni di viaggio via terra. Ma c’è di più: è un’area in- violabile, dove Forze armate e polizia non possono entrare neppure per insediare i seggi elettorali, grazie anche alla nuova Costituzione voluta da Correa. Loro sono un popolo guerriero — immortalato in un film di Amnesty, Children of the jaguar — celebre per le sue battaglie: prima delle compagnie petrolifere cacciarono dai loro villaggi i missionari cattolici e i soldati dell’Ecuador. E ne vanno fieri: «Siamo il popolo del mezzogiorno, il popolo del Sole più alto. Altri sono stati sottomessi ma Sarayaku non cadrà. Sarayaku resisterà», recita la loro canzone ancestrale.

Jimenez e i suoi due collaboratori hanno presentato ricorso per la condanna presso la Corte interamericana dei diritti uma- ni ma nei Sarayaku hanno tro- vato un alleato che può compli- care i progetti di Correa. Presi- dente dal 2007, molto vicino al movimento bolivariano di Hu- go Chávez, Correa è considera- tounodeileaderdel“socialismo del XXI secolo”. E accusato in patria, come lo fu Chávez, di vo- ler imporre nel suo paese un nuovo regime. Non è peraltro nuovo nel ricorrere ai tribunali — che l’opposizione critica co- me sottomessi alle volontà del presidente — per dirimere le dispute politiche. Oltre ai tre rifugiati nella foresta, querelando per diffamazione ha portato alla sbarra un giornale, El Universo, e compare come vittima in un’altra ottantina di procedi- menti giudiziari. Tanto che, sia la Commissione interamericana per i diritti umani, sia l’organizzazione Human Rights Watch, hanno pubblicato dossier segnalando inquietudine per la libertà d’espressione in Ecuador.

Adesso i “figli del giaguaro” hanno scompaginato la scena offrendo “asilo” ai tre condannati. Mandare l’esercito ad arrestarli non è praticabile, soprattutto dal punto di vista dell’immagine. Correa spiega che si tratta di tre fuggiaschi e che i Sarayaku, proteggendoli, sfidano le leggi dello Stato. «Cosa può accadere — riflette il presidente — se qualsiasi comunità si considerasse depositaria di un’autorità tale da disobbedire alla Giustizia?». Un precedente inaccettabile. E anche un guaio bello grosso. 

lunedì 28 aprile 2014

Il nostro agente a Caracas, il Venerdì 16 aprile 2014


CARACAS.   Dimenticate Maduro. E dimenticate anche il presidente del Parlamento di Caracas, Diosdado Cabello, il più aggressivo e intransigente fra gli eredi di Hugo Chávez. L’uomo più potente del Venezuela è un altro. Compie 82 anni in questi giorni ed è nato a Artemisa, isola di Cuba, provincia dell’Avana. Era con Fidel Castro nell’assalto alla Caserma Moncada (1953); con il Che Guevara nello sbarco del Granma (1956); con Raúl Castro nella marcia trionfale dei barbudos (1959). 

A Cuba è stato ministro degli Interni e ideatore del G-2, il temuto, soprattutto all’interno dell’isola, servizio di intelligence del regime castrista. Barbetta, profilo alla D’Artagnan, magrissimo e frugale, Ramiro Valdés è oggi, dietro a Raúl, che – si dice – lo odi da sempre, uno degli ultimi grandi dinosauri della rivoluzione cubana. Vicepresidente del Consiglio di Stato, vicepresidente del Consiglio dei ministri, membro del Burò del partito comunista, Valdés è a Cuba, e non per caso, anche ministro dell’informatica e della comunicazione. Censore e controllore dell’informazione. Dal 2010 è anche il proconsole cubano in Venezuela. Chávez, in una delle ultime puntate di Alò Presidente, le sterminate trasmissioni della domenica pomeriggio a reti unificate, prima di ammalarsi del tumore che se l’è portato via il 5 marzo di un anno fa, lo presentò come l’uomo che avrebbe risolto i frequenti black out elettrici del Paese. Un consulente all’energia. In realtà i compiti di Ramiro erano ben altri. Consolidare con qualsiasi mezzo la rivoluzione bolivariana e garantire la transizione post mortem del caudillo venezuelano. 

Lo storico messicano Jorge Castañeda lo segnala come l’artefice del patto – siglato all’Avana mentre Chávez agonizzava nel Cimeq, la clinica per i burocrati dove il presidente venezuelano venne operato tre volte – fra le due anime del potere a Caracas: i civili (Maduro) e i militari (Diosdado). Ma la relazione eccessiva e del tutto asimmetrica, per risorse e dimensioni, fra Cuba e il Venezuela va narrata nei dettagli.


Il primo approccio fra Fidel Castro e Hugo Chávez data 1994 quando il tenente colonnello esce dalla prigione dov’era finito due anni prima per un tentativo fallito di colpo di Stato contro Carlos Andrés Pérez, presidente socialista, liberista e anche un po’ ladro, dell’epoca. Gli sconfinati giacimenti di petrolio del Venezuela sono sempre stati un pallino di Fidel che, già alla fine di gennaio del ‘59, poche settimane dopo la vittoria, e molto prima di litigare con Nixon e gettarsi nelle mani dell’Urss, era volato a Caracas per convincere il governo venezuelano a appoggiare la sua rivo- luzione regalandogli un po’ di greggio. 

Una supplica respinta, dopo la quale Fidel, per vendicarsi, sosterrà e finanzierà la nascita di una fallimentare guerriglia procubana in Venezuela. Nella primavera del 1994 l’incontro con Chávez è una rivelazione e il líder máximo, allora costretto dopo il crollo dell’Urss a lottare contro la più grande carestia vissuta sulla sua isola, seguirà nell’ombra l’ascesa dell’inatteso alleato fino al trionfo elettorale del 1998. Da quel momento la penetrazione dei cubani in Venezuela non conoscerà più ostacoli fino a trasformarsi in una surreale egemonia. 

Nascosti dietro alle misiones, i programmi sociali lanciati da Chávez con personale medico cubano, sono arrivati i consiglieri militari e politici che, guidati ieri da Fidel e oggi da Ramiro, hanno costruito un vero e proprio contro potere nell’amministrazione pubblica, nell’intelligence e nelle Forze armate venezuelane. Chávez si fidava soltanto dei cubani e gli aveva affidato tutto ciò che lo riguardava: dalla sua sicurezza personale (erano cubane le sue guardie del corpo) a, sfortunatamente, la sua salute.

Dati ufficiali non ce ne sono, ma il numero di cubani trasferiti in Venezuela varia, a seconda delle stime, fra 50 mila e 100 mila e da ormai quindici anni Caracas è per L’Avana un asset privilegiato e indispensabile non solo perché fra le due capitali ci sono appena 1400 km in linea d’aria, un’oretta e mezza di volo aereo. Dai porti venezuelani salpano ogni giorno 100 mila ba- rili di petrolio a costi stracciati ma inoltre L’Avana ottiene investimenti diretti, crediti a basso interesse e, dulcis in fundo, milionari contratti come intermediaria per importazioni venezuelane da altri Paesi. E non è tutto – ha scritto la giornalista venezuelana Cristina Marcano su El País –, oltre a aiuti per circa 9 miliardi di euro all’anno, il regime castrista ha un potere senza precedenti sul governo della più grande potenza petrolifera del Sudamerica. 

Ramiro Valdés con Nicolàs Maduro


Chi c’è infatti dietro la formazione dei colectivos, le bande paramilitari che appoggiano Maduro e attaccano i cortei di protesta degli studenti, e sembrano una replica moderna dei Cdr, i comitati di difesa della rivoluzione, inventati da Castro negli anni Sessanta per terrorizzare gli oppositori? E chi dietro la raffinata strategia di censura dell’informazione? Ci sarebbe sempre Ramiro Valdés anche dietro alla scelta di reprimere nel modo più brutale la rivolta studentesca esplosa nel momento di massima debolezza per Maduro. 

Un anno terribile dopo la modesta vittoria elettorale successiva alla morte di Chávez. I numeri del voto, e i rapporti di forza, consigliavano moderazione nell’esercizio del potere e invece la leadership post cha- vista ha scelto di accelerare il cammino della rivoluzione socialista contro l’altra metà del Paese, organizzando perfino, sotto le feste di Natale, l’esproprio proletario dei commercianti. Poi l’inflazione alle stelle (56 per cento), la carestia, la criminalità fuori controllo, culmi- nata nell’omicidio di Monica Spear, l’ex miss e reginetta delle telenovelas, ammazzata in una rapina mentre era in vacanza col marito e la figlioletta.

A febbraio il presidente Nicolás Maduro sembrava spacciato, sull’orlo di cadere nel vortice di un disastro politico strabiliante: essere riuscito a mandare quasi in default uno Stato petrolifero. Oggi la situazione è diversa. Il fronte dell’opposizione si è diviso fra chi punta sulla via, diciamo così, insurrezionale della protesta; e chi sulla conquista di una maggioranza sociale che porti a una vittoria elettorale fra qualche tempo. Leopoldo Lopez, il leader oppositore più radicale di tutti, è in prigione accusato di associazione a delinquere; il suo vice in esilio. 

Mentre Capriles, candidato unitario dell’opposizione sconfitto d’un soffio un anno fa da Maduro, rilascia interviste sostenendo che «la strategia delle barricate rischia alla lunga di rafforzare il regime». Spaccando gli oppositori, Maduro a suo modo ha vinto e ora può attendere che l’apice della crisi trascorra. Con lui per ora ha vinto anche il proconsole Valdés che può garantire all’Avana ancora qualche tempo di relazioni privilegiate con Caracas e il suo petrolio.