lunedì 28 aprile 2014

Il nostro agente a Caracas, il Venerdì 16 aprile 2014


CARACAS.   Dimenticate Maduro. E dimenticate anche il presidente del Parlamento di Caracas, Diosdado Cabello, il più aggressivo e intransigente fra gli eredi di Hugo Chávez. L’uomo più potente del Venezuela è un altro. Compie 82 anni in questi giorni ed è nato a Artemisa, isola di Cuba, provincia dell’Avana. Era con Fidel Castro nell’assalto alla Caserma Moncada (1953); con il Che Guevara nello sbarco del Granma (1956); con Raúl Castro nella marcia trionfale dei barbudos (1959). 

A Cuba è stato ministro degli Interni e ideatore del G-2, il temuto, soprattutto all’interno dell’isola, servizio di intelligence del regime castrista. Barbetta, profilo alla D’Artagnan, magrissimo e frugale, Ramiro Valdés è oggi, dietro a Raúl, che – si dice – lo odi da sempre, uno degli ultimi grandi dinosauri della rivoluzione cubana. Vicepresidente del Consiglio di Stato, vicepresidente del Consiglio dei ministri, membro del Burò del partito comunista, Valdés è a Cuba, e non per caso, anche ministro dell’informatica e della comunicazione. Censore e controllore dell’informazione. Dal 2010 è anche il proconsole cubano in Venezuela. Chávez, in una delle ultime puntate di Alò Presidente, le sterminate trasmissioni della domenica pomeriggio a reti unificate, prima di ammalarsi del tumore che se l’è portato via il 5 marzo di un anno fa, lo presentò come l’uomo che avrebbe risolto i frequenti black out elettrici del Paese. Un consulente all’energia. In realtà i compiti di Ramiro erano ben altri. Consolidare con qualsiasi mezzo la rivoluzione bolivariana e garantire la transizione post mortem del caudillo venezuelano. 

Lo storico messicano Jorge Castañeda lo segnala come l’artefice del patto – siglato all’Avana mentre Chávez agonizzava nel Cimeq, la clinica per i burocrati dove il presidente venezuelano venne operato tre volte – fra le due anime del potere a Caracas: i civili (Maduro) e i militari (Diosdado). Ma la relazione eccessiva e del tutto asimmetrica, per risorse e dimensioni, fra Cuba e il Venezuela va narrata nei dettagli.


Il primo approccio fra Fidel Castro e Hugo Chávez data 1994 quando il tenente colonnello esce dalla prigione dov’era finito due anni prima per un tentativo fallito di colpo di Stato contro Carlos Andrés Pérez, presidente socialista, liberista e anche un po’ ladro, dell’epoca. Gli sconfinati giacimenti di petrolio del Venezuela sono sempre stati un pallino di Fidel che, già alla fine di gennaio del ‘59, poche settimane dopo la vittoria, e molto prima di litigare con Nixon e gettarsi nelle mani dell’Urss, era volato a Caracas per convincere il governo venezuelano a appoggiare la sua rivo- luzione regalandogli un po’ di greggio. 

Una supplica respinta, dopo la quale Fidel, per vendicarsi, sosterrà e finanzierà la nascita di una fallimentare guerriglia procubana in Venezuela. Nella primavera del 1994 l’incontro con Chávez è una rivelazione e il líder máximo, allora costretto dopo il crollo dell’Urss a lottare contro la più grande carestia vissuta sulla sua isola, seguirà nell’ombra l’ascesa dell’inatteso alleato fino al trionfo elettorale del 1998. Da quel momento la penetrazione dei cubani in Venezuela non conoscerà più ostacoli fino a trasformarsi in una surreale egemonia. 

Nascosti dietro alle misiones, i programmi sociali lanciati da Chávez con personale medico cubano, sono arrivati i consiglieri militari e politici che, guidati ieri da Fidel e oggi da Ramiro, hanno costruito un vero e proprio contro potere nell’amministrazione pubblica, nell’intelligence e nelle Forze armate venezuelane. Chávez si fidava soltanto dei cubani e gli aveva affidato tutto ciò che lo riguardava: dalla sua sicurezza personale (erano cubane le sue guardie del corpo) a, sfortunatamente, la sua salute.

Dati ufficiali non ce ne sono, ma il numero di cubani trasferiti in Venezuela varia, a seconda delle stime, fra 50 mila e 100 mila e da ormai quindici anni Caracas è per L’Avana un asset privilegiato e indispensabile non solo perché fra le due capitali ci sono appena 1400 km in linea d’aria, un’oretta e mezza di volo aereo. Dai porti venezuelani salpano ogni giorno 100 mila ba- rili di petrolio a costi stracciati ma inoltre L’Avana ottiene investimenti diretti, crediti a basso interesse e, dulcis in fundo, milionari contratti come intermediaria per importazioni venezuelane da altri Paesi. E non è tutto – ha scritto la giornalista venezuelana Cristina Marcano su El País –, oltre a aiuti per circa 9 miliardi di euro all’anno, il regime castrista ha un potere senza precedenti sul governo della più grande potenza petrolifera del Sudamerica. 

Ramiro Valdés con Nicolàs Maduro


Chi c’è infatti dietro la formazione dei colectivos, le bande paramilitari che appoggiano Maduro e attaccano i cortei di protesta degli studenti, e sembrano una replica moderna dei Cdr, i comitati di difesa della rivoluzione, inventati da Castro negli anni Sessanta per terrorizzare gli oppositori? E chi dietro la raffinata strategia di censura dell’informazione? Ci sarebbe sempre Ramiro Valdés anche dietro alla scelta di reprimere nel modo più brutale la rivolta studentesca esplosa nel momento di massima debolezza per Maduro. 

Un anno terribile dopo la modesta vittoria elettorale successiva alla morte di Chávez. I numeri del voto, e i rapporti di forza, consigliavano moderazione nell’esercizio del potere e invece la leadership post cha- vista ha scelto di accelerare il cammino della rivoluzione socialista contro l’altra metà del Paese, organizzando perfino, sotto le feste di Natale, l’esproprio proletario dei commercianti. Poi l’inflazione alle stelle (56 per cento), la carestia, la criminalità fuori controllo, culmi- nata nell’omicidio di Monica Spear, l’ex miss e reginetta delle telenovelas, ammazzata in una rapina mentre era in vacanza col marito e la figlioletta.

A febbraio il presidente Nicolás Maduro sembrava spacciato, sull’orlo di cadere nel vortice di un disastro politico strabiliante: essere riuscito a mandare quasi in default uno Stato petrolifero. Oggi la situazione è diversa. Il fronte dell’opposizione si è diviso fra chi punta sulla via, diciamo così, insurrezionale della protesta; e chi sulla conquista di una maggioranza sociale che porti a una vittoria elettorale fra qualche tempo. Leopoldo Lopez, il leader oppositore più radicale di tutti, è in prigione accusato di associazione a delinquere; il suo vice in esilio. 

Mentre Capriles, candidato unitario dell’opposizione sconfitto d’un soffio un anno fa da Maduro, rilascia interviste sostenendo che «la strategia delle barricate rischia alla lunga di rafforzare il regime». Spaccando gli oppositori, Maduro a suo modo ha vinto e ora può attendere che l’apice della crisi trascorra. Con lui per ora ha vinto anche il proconsole Valdés che può garantire all’Avana ancora qualche tempo di relazioni privilegiate con Caracas e il suo petrolio.

domenica 13 aprile 2014

Il Venerdì 25 Ottobre 2013 (un ritratto di Maduro)


DAL NOSTRO INVIATO
Omero Ciai
CARACAS - La notte, quasi tutte le notti, Nicolás Maduro risale con la Limousine presidenziale le colline di Caracas fino al Cuartel de la Montaña, la caserma del «4 febbraio», dove in una bara di marmo sono custodite le spoglie dell’ex presidente Hugo Chávez. «Vado lì e rifletto», ha detto. A volte ci dorme anche accanto al mausoleo del Jefe supremo di cui si considera «figlio», forse nella speranza di trarne ispirazione per i suoi compiti di go- verno. Altre volte Maduro riposa nella suite giapponese del palazzo presidenziale a Miraflores, ma evita accuratamente di usare tutte le stanze degli uffici che sono state conservate così come Chávez le ha lasciate e che verranno presto trasformate anch’esse in un museo. Maduro non abita neppure «la Casona», la residenza presidenziale, dov’è rimasta quasi tutta la famiglia dell’ex presidente, le figlie, i generi, i nipoti.


Ma mentre avanza il progetto di rendere immortali i luoghi e le gesta del comandante che non c’è più e si consolida il culto alla personalità dell’inventore del Socialismo del XXI secolo, è la sua creatura che rischia di finire in liquidazione. Che Nicolás Maduro, l’erede prescelto da Chávez prima di morire dopo una lunga battaglia contro il cancro il 5 marzo scorso, fosse appena un suo pallido, e semplicemente fedele discepolo, era noto. Meno noto, che in pochi mesi si trovasse a dover affrontare la più grave crisi economica dall’inizio della «rivoluzione bolivariana». Inflazione al 45,4 per cento, una penuria da carestia dei prodotti di prima necessità, black out elettrici, doppio regime con il dollaro comprato e venduto al mercato nero a un valore sette volte maggiore rispetto al cambio fisso imposto dal governo, corruzione dilagante, le casse del Tesoro statale sempre più vuote. Uno scenario da brividi per l’ex sindacalista e autista di autobus che sette mesi fa, era il 14 aprile, vinse le elezioni con appena un punto e mezzo in percentuale sul candidato dell’opposizione, facendo gridare alla truffa elettorale anche alcune Cancellerie di altri Paesi che tardarono diverse settimane ad accettarne la vittoria.

Di fronte alle difficoltà, la strategia non è cambiata rispetto agli anni di Chávez ma ormai è un po’ avvizzita. Maduro accusa l’opposizione, los escualidos (gli squallidi) della borghesia e l’imperialismo di ogni problema. Contro il Venezuela c’è «un complotto interno e internazionale». Anzi, in realtà, c’è anche di più, perché qualcuno, secondo Maduro, avrebbe già tramato per ucciderlo diverse volte. Così ora è sempre più necessario militarizzare l’economia, inviando i soldati dell’esercito dietro le casse dei supermercati per scongiurare le lunghissime code, e sollecitare il Parlamento a concedere al presidente i «superpoteri», quelli che gli consentiranno di governare con i decreti, esauto- rando i deputati dalla discussione delle leggi. Dopo la stentata vittoria d’aprile, all’ini- zio della sua avventura, sembrò che Maduro volesse attuare qualche correzione al model- lo chavista. E così venne interpretata la no- mina a vicepresidente per l’area economica di Nelson Merentes, un pragmatico incaricato di rettificare gli errori più grossolani nella gestione del Paese. L’esperimento è durato poco e al centro del potere è tornato l’anziano Jorge Giordani, un comunista molto ortodosso, di origini italiane, che ripete terrorifiche formulette del tipo «è nella penuria dei beni che la società trova l’essenza del socialismo». Insieme alla scomparsa della carta igienica, ormai un simbolo della crisi che ha convinto Maduro ad occupare con la polizia militare la fabbrica Manpa, il maggior produttore del Paese, e ad annunciare l’acquisto di milioni di rotoli sul mercato internazionale, l’ultimo fenomeno è paradossale. Il cambio ufficiale calmierato del dollaro ha creato un mercato illegale dei biglietti aerei accaparrati da bande che approfittano della differenza tra il valore della valuta a cambio fisso, garantita dallo Stato a chi dichiara di dover viaggiare all’estero, e la quotazione della valuta al mercato nero. Prendono a cambio fisso e rivendono al nero. Risultato: gli aerei sono strapieni e per acquistare un passaggio fra Caracas e Miami bisogna aspettare quattro, cinque, anche sei mesi.

Il nodo è l’eredità impossibile del modello economico voluto da Chávez e costruito intorno all’immensa, ma non infinita, rendita petrolifera del Venezuela che rappresenta oltre il 60 percento di tutto il bilancio statale. Oggi il Venezuela deve importare quasi il 90 percento di tutto ciò che si consuma e per farlo ha bisogno di un miliardo di dollari ogni settimana. L’inflazione, la penuria dei prodotti di base, la scarsità di valuta, il mercato nero o il peggioramento dei servizi pubblici – come scrivono molti osservatori - non sono il frutto di complotti e sabotaggi antibolivariani, ma l’inevitabile conseguenza di quin- dici anni di statalizzazione dell’economia, di inefficienza ed esagerata regolazione: dai controlli sui cambi e sui prezzi all’asfissia dell’iniziativa privata, che Chávez ha combattuto e distrutto perché apparteneva a chi considerava un nemico di classe. Il Venezuela non produce più quasi nulla e deve spendere quasi 60 miliardi di dollari all’anno per importare i beni consumati dai suoi 30 milioni di abitanti. L’uso dissennato dei fondi del petrolio, grazie ai quali Chávez ha finanziato tutte le campagne elettorali e tutti i programmi sociali, ha fatto il resto, lasciando agli eredi della rivoluzione bolivariana un sistema sull’orlo della bancarotta.

Da giovane Maduro era maoista, militava in un partitino filocinese. Poi, dopo l’incontro con Cilla Flores, una degli avvocati che difese Chávez al processo per il fallito colpo di Stato militare del 1992 - che l’allora tenente colonnello guidò dalla caserma dove oggi c’è il suo mausoleo -, Maduro divenne un seguace del santone indiano Sai Baba. Cilla gli riempiva di amuleti contro «le forze del Male» l’ufficio al ministero degli Esteri. È diventata sua moglie solo qualche mese fa, dopo anni di convivenza. Ma oggi che non è più soltanto «la prima combattente della rivoluzione», come la definì Maduro appena eletto presidente, ma anche ufficialmente la First Lady, Cilla abita da sola in una residenza che era destinata all’ospitalità di capi di Stato stranieri. Suo marito dorme con l’eroe. In realtà, la stampa dell’opposizione descrive Maduro come un gran corteggiatore, un galan cinquantenne che piazza le sue amanti in ambasciate e consolati in giro per il mondo. Voci, che nessuno però ha verificato. Nei circoli chavisti si dice che Maduro divenne il delfino designato di Chávez grazie a Fidel Castro che lo conobbe quando era ministro degli Esteri del Venezuela e lo suggerì al fraterno compagno perché gli ispirava fiducia.
Ma più che all’Avana, a cui comunque continua ad assicurare forniture di petrolio a prezzi scontatissimi, Maduro oggi guarda a Pechino. È dai cinesi infatti che ha ricevu- to l’ultimo prestito da cinque miliardi di dollari che gli ha dato un po’ di respiro. Le cifre però sono impietose e il disavanzo, fra ciò che il Venezuela guadagna in valuta esportando petrolio e ciò di cui ha bisogno per mantenere l’alto livello di importazioni e i programmi statali, aumenta. Circostanza che non preoccupa affatto Giordani, il filosofo della penuria, né l’ala più ortodossa del Psuv (Partito socialista unito del Venezuela), ma che ha già aperto il confronto nel governo e agita il sonno di Maduro accanto alle spoglie del valoroso comandante defunto.