martedì 24 novembre 2015

Mauricio Macri, profilo, la repubblica 24 nov 2015



Se c’è un tratto inequivocabile nella vita di Mauricio Macri, neo presidente d'Argentina, è la sua relazione con il padre Franco. Sul piano personale, perché gli impose una carriera - ingegnere - che lui mai amò e quasi mai esercitò. E su quello pubblico, perché la vicenda del padre, un magnate - oggi 85enne - che si arricchì con le commesse pubbliche negli anni della dittatura militare, e fu sempre molto chiacchierato per i milionari affari delle sue aziende, che spaziano dall’immobiliare ai componenti per auto, dalla nettezza urbana all’industria alimentare, lo insegue ancora oggi come una irritante ombra nelle sue crociate anticorruzione. Padre esigente, Franco Macri. Scontroso e distante, che lo aveva scelto - Mauricio è il primo di cinque fratelli - come erede destinato a gestire il futuro delle fortune familiari ma che non perdeva mai l’occasione per umiliarlo. C’è una biografa di Macri, Gabriela Cerruti, che nel libro El pibe (Il ragazzino), narra un episodio dell’adolescenza. Tutte le domeniche, Macri e suo padre giocavano a scacchi e il piccolo Mauricio perdeva sempre inseguito dagli sberleffi di Franco che, a tavola davanti al resto della famiglia, lo prendeva in giro. Finché un giorno vinse. Suo padre non disse nulla, chiuse la scacchiera e non giocarono mai più. 

La famiglia paterna di Macri arrivò in Argentina poco dopo la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Suo nonno era un aristocratico calabrese, sua nonna era romana. Suo padre iniziò a lavorare come operaio ma nella ricca Argentina dell’epoca, granaio del mondo, costruì rapidamente un patrimonio. Così Mauricio crebbe nei migliori collegi, studiò alla Columbia negli Stati Uniti e si laureò all’Uca, la prestigiosa Università cattolica di Buenos Aires, iniziando poi a lavorare nelle aziende paterne. Nel 1991 venne rapito. Fu una banda formata da agenti della polizia. Lo tennero sequestrato due settimane finché la famiglia non pagò un riscatto da sei milioni di dollari. Dice Macri che quella drammatica esperienza cambiò la sua vita. Decise di rompere con il padre e iniziò a pensare alla politica. Il primo passo, nel 1995, fu il Boca Junior. Quando riuscì a diventarne presidente disse: «Mio padre non mi avrebbe mai concesso di svolgere un ruolo autonomo negli affari di famiglia, ma qui al Boca non può più dirmi cosa devo o non devo fare». 

Erano gli ultimi anni di Maradona, tornato a casa dopo Barcellona e Napoli. Macri e il pibe de oro non andarono mai d’accordo. Diego, che veniva dalle favelas, disprezzava quel figlio di ricchi che, secondo lui, non aveva dovuto combattere per niente. Una volta gli disse: «Tu il Boca lo hai ereditato, io l’ho conquistato». Macri gestì la squadra più importante di Buenos Aires per tredici anni, vincendo 17 titoli. Fu il trampolino che gli diede la possibilità di fare il salto in politica. Sospinto dai successi con il Boca jr. si presentò candidato a sindaco della capitale la prima volta nel 2003, ma venne sconfitto. Poi vinse, diventando sindaco prima nel 2007, e poi ancora nel 2011. Ma la relazione con il padre continuò a perseguitarlo: Franco Macri è amico di Cristina Kirchner e militante peronista. Non voleva che suo figlio si candidasse alla presidenza del Paese.

Adesso sarà il primo presidente dell’Argentina nato dopo la caduta di Perón (1955), il primo ad aver vissuto il dramma di un sequestro, il primo a vincere in un ballottaggio, il primo a non essere né peronista né radicale. Mauricio Macri si è sposato tre volte e ha quattro figli. Con l’ultima moglie, Juliana Awada, imprenditrice tessile, si conobbero in una palestra. Hanno una figlia, Antonia, di 4 anni, grazie alla quale - dice Macri - «sono metà nonno dei figli dei miei figli e metà padre». Il suo libro preferito è il cacciatore di aquiloni di Khaled Housseini, la musica: quella di Phil Collins. Quando iniziò l’ultima campagna elettorale, a giugno, Macri adottò un cagnolino. Gli mise il nome della strada che costeggia il palazzo presidenziale della Casa Rosada, “Balcarce”. Poi gli comprò una cuccia a forma di palazzo presidenziale tutta rosa. La sua mascote gli ha portato fortuna. Nonostante Cristina e Scioli abbiano utilizzato tutta la forza persuasiva della propaganda di Stato per convincere gli argentini che era "l’anticristo”, li ha battuti.

martedì 3 novembre 2015

Affari e Finanza 2 novembre 2015

Argentina, la sfida dell’autarchia peronista

IL CANDIDATO DELL’ OPPOSIZIONE MACRI E QUELLO DELLA PRESIDENTE USCENTE, SCIOLI, ARRIVANO AL BALLOTTAGGIO CON POSIZIONI SIMILI: PRUDENZA NELL’AUSTERITY E NEL RIGORE, NECESSARI INVECE PER UN PAESE IN CUI L’INFLAZIONE È AL 25%

Buenos Aires Il panorama economico di questa Argentina che in una fredda primavera australe s’avvia a scegliere il suo nuovo presidente, fra Daniel Scioli e Mauricio Macri, con il primo ballottaggio della sua recente storia democratica, assomiglia fatalmente a quello della fine degli anni Novanta. Come allora, dopo un altro decennio di sperperi peronisti, - nel 1999 era appena uscito di scena Carlos Memen- , chiunque entrerà alla Casa Rosada dovrà prima di ogni altra cosa affrontare l’emergenza economica. Oggi la crisi brasiliana, la riduzione della domanda cinese e il calo dei prezzi delle materie prime, hanno messo in stand by l’economia argentina che da due anni non cresce e nel 2016, secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, entrerà in recessione (-0,7%). Un quadro complicato dalla contrazione dell’export (-17% previsto nel 2015 rispetto all’anno scorso), dall’esaurimento delle riserve valutarie, dall’inflazione (oggi al 26%), da un deficit di bilancio che s’avvia entro la fine dell’anno a sfiorare il 7% del Pil e infine dalla svalutazione “sommersa” della moneta. Il valore del peso sul mercato ufficiale dei cambi è bloccato a 10,50 sull’euro, ma sul mercato parallelo per comprare un euro ci vogliono più di 17 pesos (stessa simmetria sul dollaro, rispettivamente circa 9 e 15-16 euro per dollaro). Dopo il default del dicembre 2001, Nestor Kirchner prima e sua moglie Cristina poi (è entrata in carica nel 2007), hanno inseguito 
un modello economico statalista e protezionista, rompendo con gli organismi economici internazionali (Fmi in testa), cancellando unilateralmente il debito estero (misura che continua aprovocare guai legali a non finire), e promuovendo il contenimento delle importazioni. Una politica che è andata quasi incredibilmente bene, con tassi di crescita del Pil fra l’8 e il 9% annuo, finché però è durato il boom dei prezzi delle materie prime. Nel caso argentino: soia, grano, e petrolio. Ma che ormai è del tutto insostenibile soprattutto perché ha gonfiato a dismisura la spesa di uno Stato che non può più neppure finanziare il suo deficit ricorrendo a prestiti esteri proprio perché nessuno glieli fa più. Soltanto la Cina, un anno fa, ha accettato di aprire una linea di credito da 11 miliardi di dollari per coprire il nuovo debito argentino. Un credito già quasi completamente consumato e che ora Pechino si rifiuta di rifinanziare. Osservata da Buenos Aires, l’Argentina di queste settimane elettorali sembra immersa in una bolla mediatica dove i candidati a sostituire Cristina Kirchner evitano accuratamente di affrontare il tema della contingenza economica, e dove una classe media spensierata continua a far debiti grazie a programmi statali che finanziano il consumo a rate con zero interessi: scarpe, vestiti, elettrodomestici, auto nuove. Sospinta dall’ossessione di conservare una influenza egemonica nella politica argentina e, magari, anche dalla speranza di diventare indimenticabile e eterna come Evita Péron, la presidente Kirchner ha organizzato questo festival di primavera pompando pesos nel mercato interno che sono serviti soprattutto ad aumentare salari e pensioni frantumati dall’inflazione. Con l’effetto brutale di trasferire altri guai sui suoi successori. Così il dibattito ruota tutto intorno al “modello” della fragile autarchia argentina. Daniel Scioli, candidato peronista, promette di mantenerlo riformandolo, mentre Mauricio Macri di cambiarlo, (“Cambiemos” è il suo slogan), a tappe forzate. I mercati hanno festeggiato il risultato del primo turno elettorale del 25 ottobre quando è diventato evidente non solo che sarebbe stato necessario un ballottaggio il prossimo 22 novembre, ma che, soprattutto, i suffragi minoritari ottenuti dal “Frente para la victoria” di Scioli e Cristina lasciavano prefigurare una possibile svolta. A urne chiuse, fra i consensi ottenuti da Macri e dal peronista dissidente Sergio Massa, arrivato terzo, oltre il 60% degli argentini aveva votato contro il partito di Cristina Kirchner, rieletta con il 54% quattro anni fa. L’indice della Borsa è subito schizzato su del 3 percento, il costo dei dollari sul mercato nero è sceso e il valore dei bond è aumentato. Altro segnale: l’ultimo ministro dell’economia del governo in carica, Axel Kicillof, che si presentava per un seggio di deputato nel nuovo Parlamento è stato eletto ma con appena un 22% dei voti. Sia nel caso di una vittoria di Macri, che in quella di Scioli, i margini di manovra del prossimo presidente sono piuttosto ristretti. Sotto accusa adesso ci sono soprattutto i sussidi che lo Stato finanzia per contenere al ribasso le spese familiari dei servizi: luce, gas, elettricità e trasporti. Insieme ai piani sociali contro la povertà. Per ridurre il deficit statale i tagli sono indispensabili. Ma sono più facili nel caso di Macri che sostiene politiche liberiste piuttosto che in quello di Scioli che difende il “modello” sociale del kirchnerismo peronista. Riguardo agli holdouts, i fondi di investimento che possiedono una piccola parte dei bond del vecchio debito argentino e chehanno rifiutato la rinegoziavillaggio zione, entrambi i candidati difendono la necessità di un accordo. Se accetterà di pagare l’Argentina può chiudere le cause giudiziare aperte e sperare di ottenere nuovi crediti internazionali attraverso l’emissione di buoni del Tesoro post accordo. L’altro fronte aperto è la svalutazione del peso. Macri ha promesso di eliminare in fretta il blocco del mercato dei cambi lasciando fluttuare liberamente il peso e di diminuire il controllo sulle importazioni. Nel caso di Scioli invece la svalutazione sarebbe guidata e moderata conservando il regime del cambio bloccato. Inoltre con Macri è abbastanza probabile che tornerebbe in gioco il Fondo monetario internazionale al quale un suo esecutivo chiederebbe aiuto. Scenario invece del tutto improbabile nel caso di vittoria di Scioli. Secondo gli osservatori, infine, dovrebbe essere abbastanza simile la politica estera di entrambi i possibili vincitori con un chiaro riavvicinamento agli Stati Uniti e misure a favore degli investimenti internazionali. Ma nel backstage che nessuno vuole guardare ci sono tutti i fantasmi della fine del secolo scorso, quando una etereogenea coalizione antiperonista guidata da Fernando de la Rua sconfisse il continuismo rappresentato da Eduardo Duhalde per andare a infrangersi due anni dopo nel più tragico fallimento della storia recente. De la Rua, come Macri, era sindaco uscente di Buenos Aires. Duhalde, come Scioli, era governatore uscente della provincia di Buenos Aires.

sabato 31 ottobre 2015

Argentina, Daniel Scioli l'erede sgradito dei Kirchner (Repubblica, 20 ottobre 2015)


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI


BUENOS AIRES 
DANIEL Scioli si concede tra un tackle e l'altro. Trotterella e risponde: "Amo l'Italia, è la mia seconda patria", dice mentre si riposa dalle fatiche di una partita di calcetto nel complesso sportivo che ha fatto costruire accanto alla sua villa nella periferia ricca della provincia di Buenos Aires. "Mi pare che Renzi stia facendo un ottimo lavoro", "Se divento presidente dell'Argentina voglio stringere nuovi rapporti politici e economici con l'Italia". Il suo bisnonno, Luigi, arrivò qui da Campobasso alla fine dell'800. Lui ha conosciuto bene l'Italia quando gareggiava con i motoscafi offshore . Andava sempre a Lecco da Fabio Buzzi, il famoso pilota e costruttore di barche da corsa. Oggi va tutti gli anni a Modena per il braccio ortopedico, il destro, che porta da quando nell'89 ebbe un gravissimo incidente mentre correva lungo il delta del fiume Paranà. Scioli, caso raro tra gli oriundi d'Argentina, parla bene l'italiano anche grazie alla moglie, Karina Rabolini, che da giovane era modella e sfilava a Milano.

Governatore peronista della provincia di Buenos Aires dal 2007, 58 anni, è il candidato alla presidenza nelle elezioni del 25 ottobre con maggiori possibilità di succedere a Cristina Kirchner. È, anche, l'erede sgradito di Cristina. La presidenta ha dovuto accettarlo e sostenerlo perché, tra i possibili successori, era largamente quello con più elettori potenziali. Non è stato un gran governatore ma gli vogliono bene. Ha l'aria da brava persona e, nonostante sia in politica da quasi un ventennio, lo cooptò Menem alla fine degli Anni '90, è riuscito a conservare l'immagine del politico per caso in un Paese devastato dalla corruzione dei politici. Un campione dello sport, ha vinto otto titoli mondiali con il suo motoscafo offshore , ricco e benestante  -  suo padre aveva l'unica concessione per vendere gli Electrolux svedesi  -  molto prima di scendere in politica. Come stasera mentre gioca a calcetto in una squadra di ragazzini che, evidentemente, lo sopportano solo perché, oltre a essere il proprietario del team, è una "vecchia gloria", molto intimo di Maradona e Carlos Tevez. Lo chiamano "Pichichi", come il trofeo per il capocannoniere del campionato di calcio in Spagna, veste una maglietta numero 9, e gli fanno anche segnare un gol.

Non si ricorda come un gran governatore ma c'è sempre, soprattutto quando accade qualche tragedia. Manda telegrammi di cordoglio a tutti e corre dai parenti quando, come succede spesso, sequestrano o ammazzano qualcuno per rapinarlo. La sua legge migliore, merito della moglie che non può avere figli, è stata quella che rende gratuita per tutti la procreazione assistita. Con il romanzo peronista dei Kirchner, la coppia che ha governato l'Argentina dopo il default del 2001 (prima Nestor, morto d'infarto nel 2010, poi per due mandati, sua moglie Cristina) Scioli non ha mai avuto grande feeling. Con Nestor, che all'inizio lo volle come vicepresidente, litigò per i sussidi statali alle tariffe dei servizi (acqua, luce, gas e telefono) e sui diritti umani per l'abolizione dell'amnistia ai militari della dittatura. "Un paese serio  -  diceva Scioli  -  non annulla le sue leggi". Nestor lo isolò e lo umiliò. Lasciando la vicepresidenza Scioli voleva candidarsi a sindaco di Buenos Aires ma Kirchner voleva allontanarlo e lo costrinse a optare per la provincia. Dalla Casa Rosada Cristina lo ha odiato e preso spesso in giro in pubblico mentre lo lasciava senza fondi per pagare gli stipendi dei funzionari locali. All'epoca, qualche anno fa, intervenne in difesa di Scioli addirittura Maradona: in tv, pregando Cristina di liberare i soldi dello Stato centrale.

Così il resiliente Scioli, capricorno testardo e determinato  -  è nato il 13 gennaio del '57  -  , capace di riemergere da qualsiasi sventura della vita come quando vinceva senza un braccio le gare in offshore ha avuto la sua rivincita, la candidatura presidenziale peronista. Il suo vero problema adesso è che rischia di essere arrivato tardi alla festa. La doppia tenaglia della crisi della Cina, che qui compra soia e minerali, e di quella del Brasile, che assorbe il 50% dell'export argentino, possono mettere al tappeto Buenos Aires. Cristina, nel suo fervore populista, ha già speso tutto quel che c'era e la Banca centrale ha prosciugato le riserve in dollari per non svalutare la moneta locale, il peso. Gli economisti disegnano scenari tragici per il prossimo governo: crescita zero, svalutazione e aumento della disoccupazione. Scioli non vuole parlarne ma neppure i suoi avversari. L'Argentina vive una stagione di grande polarizzazione. Meno della metà del Paese a qualsiasi prezzo con Cristina, gli altri tutti contro. Ma gli altri, gli "anti-kirchneristi", sono divisi e, per questo, Scioli potrebbe vincere già al primo turno domenica davanti a Mauricio Macri e a Sergio Massa, oriundi d'Italia anche loro. In Argentina si diventa presidente, evitando il ballottaggio, se si supera il 40% dei suffragi con un vantaggio di almeno dieci punti sul secondo. È lo scenario a scaletta degli ultimi sondaggi: Scioli 40, Macri 30, Massa 20.

Quando gli domandano se continuerà il "progetto Kirchner", quello dell'Argentina autarchica, nazionalista ma ideologicamente solidale e populista, Scioli risponde: "Governerò alla mia maniera, correggendo quel che non va". Ma Cristina Kirchner in realtà lo ha già blindato. Intorno a Scioli vigilerà "La Campora", l'associazione giovanile kirchnerista guidata dal figlio di Cristina, Massimo, che si presenta deputato. Lei, dice, che se ne andrà in Patagonia, a Santa Cruz. Ma tutti sono convinti che resterà dietro la porta della Casa Rosada in attesa che il suo erede fallisca. Per tornare fra due ali di folla come Perón il 17 ottobre di 70 anni fa. E ricominciare il romanzo peronista, Eva e Perón, lei e Nestor, che ora Scioli vuole, senza alcun diritto dinastico, occupare.

sabato 24 ottobre 2015

Crisi, scandali e colpi bassi. In Brasile è assedio a Dilma e anche Lula la sfiducia (Repubblica, 23 ottobre 2015)

DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI
   

BRASILIA                   
Il Parlamento del Brasile è uno dei luoghi più originali del mondo. Siccome può entrarci chiunque, basta presentare un documento, i suoi corridoi sono spesso attraversati da cortei interni di manifestanti che protestano. Ci sono gli indios dell'Amazzonia che hanno qualche problema da risolvere; femministe contro una nuova legge antiaborto; operai licenziati; ambientalisti: un putiferio di contestatori in cerca di ascolto e soluzioni come in una immensa agorà. Qui, l'opposizione al governo di Dilma Rousseff, cerca, da settimane, i numeri per ottenere l'avvio della procedura di impeachment della presidenta dopo gli scandali politici - Petrobras su tutti - e le grandi manifestazioni in tutte le principali città del Paese che hanno chiesto una svolta in una situazione che diventa ogni giorno di più ingovernabile. L'assedio a Dilma è ormai un'agonia quotidiana in un contesto che sembra davvero quello della tempesta perfetta: crisi economica, crisi politica (il governo non ha più maggioranza parlamentare), e crisi istituzionale (almeno un quinto dei 500 deputati del Congresso sono coinvolti nelle indagini di corruzione). L'altro ieri è stata presentata al presidente della Camera, Eduardo Cunha, una nuova richiesta per la procedura di impeachment che dovrà valutare nei prossimi giorni. Cunha è un leader degli evangelici, è diventato presidente della Camera perché il suo partito, il centrista Pmdb, è alleato di Dilma. Ma ora lui è un suo nemico. E nell'esecutivo si teme che possa fare qualsiasi cosa, anche per spostare l'attenzione da una inchiesta che lo vede coinvolto e accusato di possedere  fondi provenienti dalla corruzione in almeno quattro conti segreti in una banca svizzera. Nel parlamento brasiliano ci sono 28 partiti, molti piccoli e piccolissimi, che ballano da una parte all'altra intorno ai tre maggiori (PT -sinistra -, Psdb - opposizione -, Pmdb -centristi-)  e quello che ieri sembrava improbabile, la messa in stato d'accusa di Dilma, domani potrebbe diventare facilmente realtà.

I fronti della battaglia oggi sono almeno quattro. C'è il tribunale dei Conti che ha respinto il bilancio delle spese del governo per il 2014. E sulla base del quale, per "irresponsabilità istituzionale", è stata presentata l'ultima richiesta di impeachment. C'è il tribunale elettorale, che sta esaminando le denuncie sull'ultima campagna presidenziale (autunno 2014), nelle quali Dilma è accusata di uso di fondi illeciti. C'è il Parlamento. E c'è, infine, il tribunale del Parana, dove prosegue "Lava Jato" (lava auto), la madre di tutte le inchieste sulla corruzione politica. Gli scenari dell'accerchiamento alla presidenta sono due, ci spiega Carlos Zarattini, vice capogruppo alla Camera del Pt. Se l'impeachment inizia in Parlamento a cadere sarebbe solo lei e, particolare per nulla insignificante, a prenderne il posto fino alla fine del mandato (2018) sarebbe il vice presidente Michel Temer, esponente del Pmdb, stesso partito di Cunha,   alleato ma non troppo del Pt di Lula. "E sarebbe un golpe", ripete Dilma. Se invece l'impeachment inizia nel tribunale elettorale cascano tutti e si va a nuove elezioni entro 90 giorni. Insomma una classica sceneggiatura dove colpi bassi, ricatti, e prebende da basso impero in Parlamento la fanno da padroni. In realtà l'altro problema sul palco del teatro politico è che l'opposizione è divisa sulla strada da seguire per ottenere l'obiettivo della fine anticipata della presidenta. Aecio Neves, il candidato dell'opposizione Psdb sconfitto da Dilma nell'ottobre scorso per una manciata di voti, punta dritto alla messa in Stato d'accusa mentre il padre nobile dello stesso partito, l'ex presidente Fernando Henrique Cardoso, invita alla calma, a evitare una rottura costituzionale e preferirebbe, forzando il tormento, le dimissioni di Dilma.


Isolata nella sua torre d'avorio presidenziale, l'elegante palazzo dell'Alvorada disegnato da Niemeyer all'estremità di Brasilia sulle sponde del lago Paranoà, Dilma Rousseff sa benissimo che, se anche riuscirà a sopravvivere alla baraonda parlamentare, il suo destino lo deciderà l'economia. Dopo un fantastico decennio di crescita il Brasile è entrato in una recessione che, per gli esperti, durerà almeno due anni. La disoccupazione cresce e è previsto che entro febbraio 2016 superi la soglia psicologica del 10 percento. Il real, la moneta brasiliana, si è già svalutato di oltre il 30% in pochi mesi. Le maggiori agenzie internazionali di rating hanno derubricato il debito del Brasile al limite dei bond spazzatura nonostante il governo continui a contenere il deficit tagliando la spesa sociale. E qui scoppia l'ultima disgrazia di Dilma. Ormai è isolata soprattutto nel Pt, il suo partito. "Tagli, tagli e ancora tagli. Non può continuare così - dice Carlos Zarattini -. Bisogna cambiare la politica economica, scegliere misure anticicliche, lo Stato deve riprendere a investire".  Lula, leader indiscusso della sinistra brasiliana, ha chiesto la testa di Joaquim Levy, il ministro dell'economia liberista, scelto anche con il suo appoggio da Dilma l'anno scorso per rimettere a posto i conti del bilancio statale e calmare il nervosismo dei mercati. Ma lei, per ora, resiste. Convinta che solo risanando si potrà poi ricominciare a crescere. Lula, invece, che non nasconde il suo desiderio di ripresentarsi candidato alla presidenza non può rinunciare a quel che ha costruito: i 30 milioni di brasiliani usciti dalla miseria, parte dei quali, senza i programmi sociali dello Stato, rischiano di tornarci. Lo scontro è duro. E Lula, inseguito anche lui dai giudici del "Lava Jato", soprattutto per colpa di figli e cognate che avrebbero approfittato della parentela per arricchirsi, viene ormai a Brasilia tutte le settimane per assediare, perfino lui, la presidenta che scelse come erede. Cercò di convincerla già l'anno scorso a non ripresentarsi per un secondo mandato lasciandogli subito campo aperto. Ora, con l'appoggio del partito, vuole commissariarla. Almeno sulla politica economica. Intanto, stasera, estradato dall'Italia, torna per scontare la condanna a dodici anni di carcere, Henrique Pizzolato, il banchiere del Mensaläo, il primo scandalo del partito dei lavoratori, al potere dal 2002. E un altro caos è servito. Un'altra spina per Dilma. L'opposizione festeggia convinta che ora Pizzolato parlerà ingrossando accuse, vere e presunte. L'agonia continua.

venerdì 11 settembre 2015

Adios Kirchner, il Venerdì 11 settembre 2015


 DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI
                                                                                                                                  BUENOS AIRES
              C'è un modo facile facile per prendere il polso all'Argentina. Bisogna andare nelle "cuevas" (grotte) di Recoleta, il quartiere chic di Buenos Aires. Le cuevas sono i locali dove si comprano o si vendono i dollari al mercato nero. Dall'esterno "le grotte" sono irriconoscibili ma tutti sanno quali sono. Una porta di ferro senza insegne, un campanello anonimo, una sala d'aspetto molto affollata, tutti in piedi perché il via vai è rapido. Una delle eredità bastarde dell'epoca dei Kirchner - Nestor (morto nel 2010) e sua moglie Cristina - che s'accinge a finire dopo 12 anni, è proprio il controllo sugli acquisti di moneta Usa: c'è una quotazione ufficiale, calmierata e sorvegliata, del dollaro; e un'altra, sul mercato libero, illegale ma tollerato. La differenza tra le due, che oggi è superiore al 50%, dà un'idea puntuale dello stato delle finanze del Paese. Più aumentano debito e inflazione, più costa il dollaro. E gli argentini, che da sempre hanno zero fiducia nella loro moneta nazionale, il peso, trascorrono le giornate cambiando. Dal dollaro al peso e dal peso al dollaro, ovunque riescano a farlo. Quella sul valore ufficiale del dollaro è una delle tante frottole di una sceneggiatura, quella dell'Argentina felix, bella perché stoicamente autarchica e blindata contro la globalizzazione, che ha fatto da backstage alla lunga stagione del kirchnerismo,  l'ennesima reincarnazione del peronismo. La sera che siamo arrivati a Buenos Aires l'abbiamo trascorsa con Ismael Bermudez, un principe del giornalismo economico del "Clarin" e bestia nera della presidente, mentre i suoi colleghi, di tutti i giornali, gli rendevano omaggio con una cena. "Senza il lavoro di Ismael - era il leit motiv dell'ossequio - staremmo qui ancora a credere alle panzane dell'Indec (l'Istat argentino, controllato dal governo) su inflazione e povertà". Il giorno dopo è uscito il report dell'Uca, l'Università cattolica, istituzione indipendente e molto vicina a Papa Francesco, secondo cui negli ultimi anni il tasso di povertà è tornato a crescere e sfiora un terzo degli argentini, numero molto superiore rispetto a quel 4,7% ufficiale che si son bevuti i buontemponi della Fao premiando Cristina per le sue battaglie contro la fame mentre, in un festival di spropositi, il portavoce del governo sosteneva che "in Argentina ci sono meno poveri che in Germania".

Eppure Cristina Kirchner, 62 anni, presidente dal 2007 dopo il marito Nestor, è uno dei pochi leader argentini che lascia il potere con un indice d'approvazione positiva abbastanza alto, intorno al 40%. Una spiegazione, insieme a quella dei suoi discorsi sempre molto infuocati contro le banche e gli impreditori, è facile trovarla nella politica dei programmi sociali e dei sussidi. C'è quello per le famiglie numerose, quello per i giovani che non lavorano, quello per i pensionati poveri, quello per la salute dei bambini. Un fiume di denaro, 15 miliardi di euro quest'anno, il 15% del bilancio statale, che attraverso i "punteros", i delegati di zona peronisti che controllano anche i voti, plana sulle "villas miseria", le baraccopoli della sterminata provincia di Buenos Aires. Cristina ha programmi per tutto e, in questi mesi elettorali, mentre la Banca centrale inonda l'Argentina di denaro cash, ne rilancia uno a settimana. L'ultimo "plan" si chiama "Renovar" e consente alla classe media di cambiare il vecchio frigorifero e la vecchia lavatrice con un forte sconto che finanzia lo Stato, a rate senza interessi. Poi ci sono i sussidi, dai trasporti al riscaldamento, in un Paese dove la bolletta della luce è, letteralmente, grazie alle sovvenzioni statali, più economica di un caffé. Una politica difficile da sostenere a lungo, che gonfia sempre di più il deficit di bilancio ma che, insieme ai continui aumenti, dovuti all'inflazione, di stipendi e pensioni, garantisce a Cristina un ampio sostegno nelle classi popolari rinviando la disgrazia dell'indebitamento nazionale a chi le succederà.

Lungo il Rio de la Plata i tempi della politica sono svelti. Sette mesi fa, nelle settimane dell'indignazione per Alberto Nisman - il procuratore che accusava la Kirchner e il suo ministro degli esteri di aver stretto un patto diabolico con l'Iran sull'attentato all'Amia, il centro ebraico saltato in aria vent'anni fa - trovato morto nel suo appartamento, la presidente sembrava spacciata, quasi costretta a dimettersi prima della scadenza del mandato. E invece è risorta di nuovo come l'Ave fenix. La tragica fine di Nisman è ormai archiviata tra i grandi enigmi immortali e di lui non si ricordano più nemmeno all'Itamae di Puerto Madero, il ristorante sushi con i tavoli lungo il canale dove pranzava tutti i giorni.  Se il peronismo è ancora, tra sogni irredenti e deliri collettivi, soprattutto una mistica, un sentimento, bisogna ammettere che Cristina Kirchner, con tutta la sua proverbiale superbia, ne ha interpretato l'ennesima reinvenzione con grande astuzia, approfittando di un decennio di boom economico, quello post bancarotta del 2001, ormai estinto, per affermarne la vocazione più fortemente populista. Ha bloccato le importazioni, combattuto le multinazionali, nazionalizzato la compagnia di bandiera, espropriato l'holding petrolifera, cancellato il sistema privato delle pensioni e annientato l'opposizione con ogni mezzo, lecito e illecito. Una divertente definizione della ricetta Kirchner la dobbiamo a Fernando Gualdoni di El País: "E' un cocktail con tre parti di peronismo degli anni Settanta, due di socialismo bolivariano del XXI secolo, altre due di 'capitalismo per gli amici' e, infine, una spruzzatina di marxismo da bar sport". Che però alla fine non le è bastato per vincere l'unica campagna decisiva, quella che due anni fa le avrebbe permesso di riformare la Costituzione, abolendo il divieto a ricandidarsi per la terza volta consecutiva. "Ora  - dice cinico Jorge Lanata, famoso giornalista autore di un programma d'inchieste in tv dove tutte le domeniche si fustiga Cristina - le converrebbe perdere.  Con l'opposizione al potere, costretta a risanare i conti dello Stato tagliando sussidi e prebende, avrebbe la possibilità di tornare tra quattro anni come la salvatrice dei poveri d'Argentina". Perché se invece vincerà il suo attuale, ma niente affatto amato delfino, Daniel Scioli, avrà poi tutto il tempo per affermare il suo potere e lentamente Cristina scomparirà. "Il peronismo è un movimento verticale - ammonisce Lanata -, non c'è posto per due leader. E tutti quelli che oggi giurano fedeltà alla presidente, Scioli li metterà in riga".

Alla fine di ottobre, per le presidenziali, si affronteranno Daniel Scioli, Mauricio Macri e Sergio Massa. Il primo, che è anche il favorito, è il governatore peronista della provincia di Buenos Aires, dove vivono quasi il 40% di tutti gli elettori; il secondo è l'ex sindaco antiperonista della capitale; mentre il terzo incomodo, Massa, voltò le spalle a Cristina per rifondare, un'altra volta, il peronismo. I primi due sono oriundi, figli di genitori emigrati dall'Italia. E, comunque vada, tutto cambierà. Mentre conta i giorni che l'avvicinano al suo addio al potere, Cristina lotta contro i giudici che indagano sulle sue fortune materiali, un patrimonio personale che s'è gonfiato per decine di milioni negli anni della presidenza, e sogna l'eternità. Dopo aver intitolato in omaggio al marito Nestor, martire della rinascita nazionale, piazze, strade e uffici pubblici, eretto statue e mausolei, ha timbrato anche l'ultima opera di Stato: la trasformazione del vecchio edificio delle Poste, dietro la plaza de Mayo, nel nuovo e immenso "Centro culturale Kirchner", il Beaubourg di Buenos Aires. Intanto che lei s'allontana e sembra che l'Argentina danzi ancora una volta intorno al luogo del delitto, un altro crac del debito, non resta che citare lo scrittore spagnolo Manuel Vicent, che una volta ha detto: "La mia passione per l'Argentina è nata tanto tempo fa ma è rimasta sempre intatta perché continuo a non capire niente di questo Paese. Si ama quello che non si capisce".  

Il Cristo caduto, repsera 11 settembre 2015



Chissà se tutto è cominciato quel maledetto pomeriggio di luglio 2014, quando la Seleçäo, la nazionale di calcio brasiliana, dovette subire uno storico 7 a 1 dai tedeschi, in una disfatta tanto brutale quanto inaudita che riempì di lacrime e vergogna i volti storditi di mezzo Paese.  D'altra parte, neanche a farlo apposta, la semifinale mondiale fra Brasile e Germania si giocava nello stadio di Belo Horizonte, la città della presidente Dilma Rousseff. La capitale dello Stato di Minas Gerais dove Dilma è nata, è cresciuta, ha frequentato l'Università e dove, dopo guerriglia contro la dittatura e galera, ha iniziato a muovere i primi passi nella vita politica. Dalla batosta nel pallone - che come sapete in Brasile è una religione nazionale tanto quanto la danza del Samba - alla sentenza di Standard & Poor's, che ieri ha tagliato il rating del debito brasiliano timbrando come "spazzatura" (Junk Bond) i buoni del tesoro locali, il passo è breve. A ripensarci, infatti, anche i primi, veri affondi, del pool dei giudici di Curitiba sullo scandalo Petrobras, il giro di maxi tangenti tra politici e imprenditori intorno all'holding petrolifera nazionale, che ha trasformato la crisi economica in catastrofe sociale e politica, allargando di molto i confini e le possibili conseguenze di questo declino, risalgono più o meno alle settimane successive alla capitolazione della Seleçäo.
Così oggi lo stesso Paese che fino a due anni fa era il "principe" dei Brics, la locomotiva economica capace di trainare tutta l'America Latina fuori dal fango delle favelas, il Paese che era stato capace di rovesciare la sua piramide sociale trasformando in classe media spendacciona milioni di suoi ex poveri, si trova ad attraversare una tormenta che soffia sempre più forte nelle stanze del Palazzo do Planalto, stupenda opera d'architettura modernista di Neimeyr a Brasilia, dove Dilma Rousseff vive ormai assediata con due terzi del Paese che non vede l'ora di disarcionarla. L'ultimo sondaggio sulla popolarità della Presidenta è impietoso: appena il 17% dei brasiliani l'approva, tutto il resto vuole, e al più presto, il suo scalpo. Politico, ovviamente. E, agenzie di rating a parte, anche i dati economici sono disastrosi soprattutto per una nazione che appena nel 2013 era tra quelle "più felici" del globo terraqueo e certa delle "magnifiche sorti e progressive" del suo prossimo futuro. Il Brasile è in recessione (-2% del Pil), l'inflazione cresce (+8%) e il governo è costretto ad affrontare un vigoroso taglio delle spese per contenere il deficit di bilancio, sforbiciando esattamente dove aveva creato l'impulso per l'espansione del mercato interno, ossia in quei robusti programmi sociali che sono stati per un decennio il fiore all'occhiello del PT, il partito di Dilma e Lula, ormai sconvolto dagli scandali del malaffare.
Se lo chiedi agli economisti, la risposta sulle ragioni del botto brasiliano è facile, quasi elementare: sono mancate le riforme strutturali. Il Brasile ha goduto di una lunga stagione di crescita, iniziata più o meno insieme al primo governo di Inacio Lula Da Silva nel 2002, trascinata dalle commodities, le materie prime di cui il Paese è ancora molto ricco (grano, soia, zucchero, caffé, ferro, petrolio), ma appena i prezzi internazionali sono calati c'è rimasto impigliato e, il "decennio prodigioso" quando il Pil balzava in avanti del 7-9% ogni anno, s'è infranto per il rallentamento della Cina, che qui comprava le materie prime, e per la crisi del Venezuela e dell'Argentina. Paradossalmente i segnali c'erano da tempo. Il primo a saltare fu Eike Batista, il miliardario self made man, protagonista nel 2013 di una rumorosa bancarotta che all'epoca venne attribuita alla sua cupidigia ma che conteneva già tutti gli elementi del disastro attuale. Eike, non a caso, commerciava con i cinesi e sulla voracità di Pechino, ghiotta di ferro e petrolio, aveva fondato il suo scalcinato, e ormai terremotato, impero. Il resto lo hanno fatto le politiche del governo Dilma e di quell'euforico Guido Mantega, l'ex ministro dell'economia, che mentre continuava a gonfiare la spesa pubblica andava in giro affermando che in pochi anni il Brasile sarebbe diventato la quinta, o magari anche la quarta, potenza economica del mondo sbaragliando non solo la Gran Bretagna ma anche la Germania.
Oggi il Brasile ha una nuova classe media che rischia di tornare indietro ma soprattutto non ha nuovi servizi, nuove scuole e università e ospedali per soddisfarla. Non ha allegerito la macchina pubblica, né migliorato granché le sue infrastrutture e continua a finanziare posti di lavoro con soldi che il bilancio dello Stato non ha più.

Quando Dilma Rousseff arrivò al potere, scelta da Lula per succedergli alla guida del miracolo brasiliano, nel 2010, l'economia cresceva al 7,5% e oltre 30 milioni di cittadini erano usciti dalla povertà: una svolta epocale per il gigante sudamericano che seminò nuove speranze sulla possibilità di combattere fame e esclusione sociale in tutta l'America Latina e non solo. Ora l'illusione sembra perduta ma quello che è molto più grave per il Brasile è lo scenario di disfacimento sociale e politico che accompagna le difficoltà dell'economia. Gli scandali e la credibilità di Dilma, rieletta appena un anno fa con un vantaggio molto scarso sul suo avversario. L'opposizione ha tentato, per ora senza successo, un procedura di impeachment  contro la presidente; poi ha scelto di sedersi sul fiume aspettando che sia la crisi, peggiorando, a portarsela via. Lei resiste e promette. Ma con poco successo. Mentre Lula, campione del decennio dei miracoli, trascorre il suo tempo, scrivono i giornali, a maledire contro il governo e contro Dilma, stella cadente che lui stesso creò.