martedì 14 aprile 2015

La nuova revoluciòn (Affari e Finanza rep 13 aprile 2015)

C’ è perfino un imprenditore americano, di Jacksonville, che progetta di ristabilire con Cuba un servizio quotidiano di piccoli traghetti lungo lo Stretto della Florida, come quello che c’era più di sessant’anni fa prima della rivoluzione. La pace scoppiata a dicembre fra Obama e Raúl Castro ha suscitato grandi appetiti per quella che dovrebbe nei prossimi anni diventare la transizione al capitalismo della regina dei Caraibi fino ad oggi ingabbiata in una rigida economia da socialismo reale. Turismo, infrastrutture e un mercato interno che potrebbe svilupparsi e avere necessità di nuovi prodotti d’importazione, agricoli e non. La chiave del tutto è l’estrema prossimità di Cuba con il suo storico nemico, solo 150 chilometri d’Oceano, con il quale fino ad ora per l’embargo imposto 55 anni fa da Eisenhower e Kennedy, ha avuto relazioni economiche molto limitate. E se, sul fronte politico la strada non sembra né breve né agile perché l’embargo può essere cancellato solo da un voto del Congresso Usa che non è dietro l’angolo, su quello economico già ci si muove per prenotare posizioni e non restare fuori dalla partita. È di questi giorni la notizia dell’accordo fra la compagnia telefonica statale cubana, Etecsa, e la Idt americana per la prima connessione diretta tra i due Paesi. American Express e Mastercard, bandite per decenni, hanno annunciato che presto le loro carte di credito potranno essere usate sull’isola. Il gigante della distribuzione audiovideo, Netflix, ha iniziato a operare e su Airbnb, la maggiore rete per l’affitto di case e appartamenti per le vacanze nel mondo, i clienti online possono trovare offerte di sistemazione a Cuba, direttamente con i singoli proprietari. Le stanze nelle «casas particulares » (case private) dell’Avana costano 30 dollari al giorno ma tra le offerte ci sono già mansioni familiari extralusso in campagna o vicino alle spiagge. 

Piccole e fragili svolte che danno però una idea di come potrebbe trasformarsi l’isola dei fratelli Castro quando, abolito l’embargo, milioni di turisti americani potranno raggiungerla senza divieti. Dall’inizio del 2015, dopo l’annuncio della svolta nella politica della Casa Bianca, un viaggio a Cuba è diventata la vacanza più desiderata nello star system e il primo obiettivo di molti politici nazionali. Kevin Spacey, Naomi Campbell, Beyoncé, Paris Hilton, solo per citare alcuni dei famosi che hanno passeggiato di recente sull’isola. E già si calcola che entro il 2017, grazie all’allentamento dei vincoli, gli americani che visiteranno L’Avana supereranno i due milioni. Religiosi, docenti, studenti, professionisti ma, per ora, ancora e soprattutto tanti cubanoamericani che hanno familiari sul posto. Però, «nel giro di un decennio — sottolineano esperti del settore — Cuba, che il 50% degli statunitensi possono raggiungere con un volo aereo di massimo tre ore, potrebbe diventare una destinazione privilegiata per il turismo americano con milioni di presenze ogni anno». Una gallina dalle uova d’oro non solo per le compagnie dei viaggi in crociera nei Caraibi, che già si preparano, appena sarà possibile, a fare tappa nei porti dell’isola, ma anche per tutto ciò che sta attorno all’esplosione del turismo. Dai polli della Georgia al riso dell’Arkansas, che bisognerà importare, tanto per dirne una. Ma il vero business saranno le infrastrutture necessarie per accogliere questo tsunami turistico. Aeroporti, porti, strade e alberghi. Tranne alcuni, più moderni, la maggior parte di quelli che ci sono vanno ristrutturati e ne serviranno di nuovi per trasformare — come auspicano alcuni imprenditori turistici — Cuba in una «tra le prime dieci destinazioni turistiche del mondo», almeno per i newyorchesi. L’anno scorso il totale dei turisti a Cuba non ha raggiunto i tre milioni. E se, nei prossimi anni, fossero dieci, o magari venti milioni, chi si associa all’affare? Al momento, come ha scritto il Wall Street Journal, la nuova rivoluzione cubana alcuni fortunati possono toccarla grazie ai beni immobiliari. Da quando Raúl Castro ha eliminato la proibizione di vendere e comprare case, il mercato degli immobili ha cominciato a girare e su El Papelito, un giornaletto di annunci semiclandestino che si compra a un dollaro, sono apparsi decine e decine di appartamenti in vendita. Da quattro mesi, dopo l’inizio della pace con l’America, tutto s’è accelerato perché cominciano ad arrivare acquirenti dall’estero. Per legge non è permesso a un non residente comprare un appartamento ma sono molti, soprattutto cubano-americani della Florida, ad aver già scelto di bruciare i tempi acquistando subito attraverso un intermediario locale o un lontano parente. Il dinosauro socialista si muove molto lentamente ma la realtà delle cose è velocissima e sfrutta qualsiasi opportunità le venga concessa. 

E’ proprio l’effetto che immaginava Obama quando ha scelto di chiudere con mezzo secolo di conflitti ideologici e rischiare l’accordo con il regime. Senza attendere ancora, come vorrebbero molti suoi avversari repubblicani, che un chissà quando, il castrismo si sbricioli da solo. Oggi i maggiori partner economici di Cuba sono il Venezuela bolivariano e la Cina ma sarà inevitabile, cancellato l’embargo, che tutti gli sguardi si dirigano verso gli Stati Uniti. Semplicemente per prossimità geografica. La pressione è già fortissima, e non solo quella della famosa lobby agricola americana che già da anni combatte l’embargo per esportare liberamente sull’isola. L’export degli Stati Uniti verso Cuba è intorno ai 400 milioni di dollari annui ma si stima che, normalizzate le relazioni, possa facilmente superare in fretta i 4 miliardi di dollari. Raúl Castro insiste sul fatto che, dopo gli anni talebani del «socialismo o morte» del fratello, il suo obiettivo è soltanto quello di riformare il sistema «per costruire un socialismo sostenibile e prospero». In realtà immagina una transizione alla cinese (o meglio, viste le dimensioni, alla vietnamita) dove l’importante sarà conservare il potere economico sulle risorse dell’isola nelle mani delle Forze armate che, già oggi, ne controllano più dell’80 percento. Per questo manovra con circospezione, con numerosi stop and go. La nuova legge sugli investimenti stranieri ha cancellato molti lacci burocratici ma altri, come l’obbligo di contrattare il personale attraverso le agenzie di Stato, alle quali vanno anche corrisposti i singoli stipendi, restano. Ci sono però già «pillole di mercato», come la zona speciale di sviluppo del porto di Mariel. A 45 chilometri dalla capitale, Mariel è la grande scommessa di Raúl Castro sul futuro del disgelo con Washington: un complesso industriale, con porto, aziende, magazzini, che potrebbe diventare il più importante dei Caraibi e dove gli investitori esteri hanno, insieme alla garanzia dei servizi di base, forti esenzioni sia fiscali che sui profitti come in una zona franca. Il progetto è stato finanziato soprattutto dal Brasile ma grandi industrie, come Toyota o Hyundai, studiano la possibilità di installarci stabilimenti. È l’industrializzazione che i più lungimiranti fra i barbudos della rivoluzione del 1959, Che Guevara in testa, sognavano nei primi anni del nuovo potere per strappare l’isola di allora alla schiavitù della monocoltura dello zucchero. Come un cerchio che si chiude.

venerdì 3 aprile 2015

Il potere malato dei parenti sudamericani (rep 3 aprile 2015)

Se volessero affrontare, almeno con l'esempio, una delle grandi disgrazie del loro continente, i leader sudamericani dovrebbero iniziare a far pulizia in famiglia. L'elenco dei parenti potenti (figli, mogli, mariti, fratelli) finiti sotto inchiesta o sott'accusa per corruzione è così denso che quasi nessun Paese si salva dall'idea che la prossimità familiare ai centri di comando sia fonte non solo di privilegi ma anche di milionarie truffe. L'ultimo caso ha colpito un'icona della sinistra latinoamericana come Michelle Bachelet, la presidente del Cile, quando suo figlio Sebastian è stato costretto a dimettersi dall'incarico nel governo che la mamma le aveva affidato perché, secondo la magistratura, ha usato allegramente il suo potere per affari piuttosto loschi di speculazioni immobiliari e altre operazioni illecite. Uno scandalo che ha ferito seriamente la popolarità di Michelle crollata in poche settimane al minimo storico tra il biasimo generale. 

E' poi di questi giorni in Argentina la vicenda del figlio di Cristina Kirchner, Maxímo, finito sotto indagine per presunte illegalità nell'amministrazione degli alberghi di famiglia in Patagonia, evasione fiscale e trasferimento illecito di fondi in conti esteri. Ma quasi tutti i leader latinoamericani hanno avuto negli ultimi anni il cruccio di famiglia. Successe a Lula, ex presidente del Brasile, quando divenne pubblico che il figlio, conosciuto come "Lulinha" (piccolo Lula), faceva discutibili manovre ottenendo vantaggiosi contratti con aziende private brasiliane nel nome del padre. Al messicano Peña Nieto quando sua moglie si comprò una lussuosa residenza con i soldi dello Stato. Al colombiano Alvaro Uribe quando i suoi figli, Tomàs e Jeronimo, vennero indagati perdepositi in paradisi fiscali frutto probabilmente di tangenti. Al peruviano Ollanta Humala che ha un fratello che sconta in carcere una condanna a 19 anni. Oppure il nicaraguense Arnoldo Aleman, rimasto famoso soprattutto perché, durante la presidenza, numerosi suoi familiari si dedicaro a saccheggiare le casse pubbliche . Come al vicepresidente boliviano, Garcia Linera, che avrebbe favorito gli affari della cognataO, infine, al presidente di Panama, Juan Carlor Varela, alla cui zia per corruzione hanno appena sequestrato il passaporto.

Il decennio prodigioso nella crescita economica dell'America Latina ha portato con sè anche tanta corruzione politica e, ovviamente, i casi citati sono appena una punta dell'iceberg. Eppure oggi qualche speranza di cambiamento bisogna riconoscerla. Rispetto ad altre epoche, basti pensare alle fortune messe insieme dalla famiglia Pinochet in Cile o durante la dittatura militare in Argentina, le recenti istituzioni democratiche iniziano a funzionare e, nella maggior parte dei Paesi, quando la stampa si fa eco delle inchieste della magistratura l'opinione pubblica reagisce e si mobilita per punire i corrotti. E', per esempio, successo in Bolivia dove il partito del presidente Evo Morales ha perso domenica scorsa le elezioni ammistrative e lui stesso è stato costretto ad ammettere pubblicamente: "Gli elettori ci hanno voltato le spalle perché tra di noi c'è troppa corruzione". In tutti i Paesi democratici, nell'ultimo ventennio, la magistratura si è rafforzata, è meno sottomessa al potere e vigila sui politici. Invece dove la democrazia è molto debole o non c'è, come in Venezuela o a Cuba, non c'è neppure opinione pubblica o giustizia e sappiamo pochissimo dei patrimoni sottratti alla collettività dalle famiglie dei due fratelli Castro o dal clan boliviariano dei chavisti a Caracas, affamata dalla carestia. Infatti "Democracy is to put under control the political power", le sante parole di Karl Popper.