sabato 31 ottobre 2015

Argentina, Daniel Scioli l'erede sgradito dei Kirchner (Repubblica, 20 ottobre 2015)


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI


BUENOS AIRES 
DANIEL Scioli si concede tra un tackle e l'altro. Trotterella e risponde: "Amo l'Italia, è la mia seconda patria", dice mentre si riposa dalle fatiche di una partita di calcetto nel complesso sportivo che ha fatto costruire accanto alla sua villa nella periferia ricca della provincia di Buenos Aires. "Mi pare che Renzi stia facendo un ottimo lavoro", "Se divento presidente dell'Argentina voglio stringere nuovi rapporti politici e economici con l'Italia". Il suo bisnonno, Luigi, arrivò qui da Campobasso alla fine dell'800. Lui ha conosciuto bene l'Italia quando gareggiava con i motoscafi offshore . Andava sempre a Lecco da Fabio Buzzi, il famoso pilota e costruttore di barche da corsa. Oggi va tutti gli anni a Modena per il braccio ortopedico, il destro, che porta da quando nell'89 ebbe un gravissimo incidente mentre correva lungo il delta del fiume Paranà. Scioli, caso raro tra gli oriundi d'Argentina, parla bene l'italiano anche grazie alla moglie, Karina Rabolini, che da giovane era modella e sfilava a Milano.

Governatore peronista della provincia di Buenos Aires dal 2007, 58 anni, è il candidato alla presidenza nelle elezioni del 25 ottobre con maggiori possibilità di succedere a Cristina Kirchner. È, anche, l'erede sgradito di Cristina. La presidenta ha dovuto accettarlo e sostenerlo perché, tra i possibili successori, era largamente quello con più elettori potenziali. Non è stato un gran governatore ma gli vogliono bene. Ha l'aria da brava persona e, nonostante sia in politica da quasi un ventennio, lo cooptò Menem alla fine degli Anni '90, è riuscito a conservare l'immagine del politico per caso in un Paese devastato dalla corruzione dei politici. Un campione dello sport, ha vinto otto titoli mondiali con il suo motoscafo offshore , ricco e benestante  -  suo padre aveva l'unica concessione per vendere gli Electrolux svedesi  -  molto prima di scendere in politica. Come stasera mentre gioca a calcetto in una squadra di ragazzini che, evidentemente, lo sopportano solo perché, oltre a essere il proprietario del team, è una "vecchia gloria", molto intimo di Maradona e Carlos Tevez. Lo chiamano "Pichichi", come il trofeo per il capocannoniere del campionato di calcio in Spagna, veste una maglietta numero 9, e gli fanno anche segnare un gol.

Non si ricorda come un gran governatore ma c'è sempre, soprattutto quando accade qualche tragedia. Manda telegrammi di cordoglio a tutti e corre dai parenti quando, come succede spesso, sequestrano o ammazzano qualcuno per rapinarlo. La sua legge migliore, merito della moglie che non può avere figli, è stata quella che rende gratuita per tutti la procreazione assistita. Con il romanzo peronista dei Kirchner, la coppia che ha governato l'Argentina dopo il default del 2001 (prima Nestor, morto d'infarto nel 2010, poi per due mandati, sua moglie Cristina) Scioli non ha mai avuto grande feeling. Con Nestor, che all'inizio lo volle come vicepresidente, litigò per i sussidi statali alle tariffe dei servizi (acqua, luce, gas e telefono) e sui diritti umani per l'abolizione dell'amnistia ai militari della dittatura. "Un paese serio  -  diceva Scioli  -  non annulla le sue leggi". Nestor lo isolò e lo umiliò. Lasciando la vicepresidenza Scioli voleva candidarsi a sindaco di Buenos Aires ma Kirchner voleva allontanarlo e lo costrinse a optare per la provincia. Dalla Casa Rosada Cristina lo ha odiato e preso spesso in giro in pubblico mentre lo lasciava senza fondi per pagare gli stipendi dei funzionari locali. All'epoca, qualche anno fa, intervenne in difesa di Scioli addirittura Maradona: in tv, pregando Cristina di liberare i soldi dello Stato centrale.

Così il resiliente Scioli, capricorno testardo e determinato  -  è nato il 13 gennaio del '57  -  , capace di riemergere da qualsiasi sventura della vita come quando vinceva senza un braccio le gare in offshore ha avuto la sua rivincita, la candidatura presidenziale peronista. Il suo vero problema adesso è che rischia di essere arrivato tardi alla festa. La doppia tenaglia della crisi della Cina, che qui compra soia e minerali, e di quella del Brasile, che assorbe il 50% dell'export argentino, possono mettere al tappeto Buenos Aires. Cristina, nel suo fervore populista, ha già speso tutto quel che c'era e la Banca centrale ha prosciugato le riserve in dollari per non svalutare la moneta locale, il peso. Gli economisti disegnano scenari tragici per il prossimo governo: crescita zero, svalutazione e aumento della disoccupazione. Scioli non vuole parlarne ma neppure i suoi avversari. L'Argentina vive una stagione di grande polarizzazione. Meno della metà del Paese a qualsiasi prezzo con Cristina, gli altri tutti contro. Ma gli altri, gli "anti-kirchneristi", sono divisi e, per questo, Scioli potrebbe vincere già al primo turno domenica davanti a Mauricio Macri e a Sergio Massa, oriundi d'Italia anche loro. In Argentina si diventa presidente, evitando il ballottaggio, se si supera il 40% dei suffragi con un vantaggio di almeno dieci punti sul secondo. È lo scenario a scaletta degli ultimi sondaggi: Scioli 40, Macri 30, Massa 20.

Quando gli domandano se continuerà il "progetto Kirchner", quello dell'Argentina autarchica, nazionalista ma ideologicamente solidale e populista, Scioli risponde: "Governerò alla mia maniera, correggendo quel che non va". Ma Cristina Kirchner in realtà lo ha già blindato. Intorno a Scioli vigilerà "La Campora", l'associazione giovanile kirchnerista guidata dal figlio di Cristina, Massimo, che si presenta deputato. Lei, dice, che se ne andrà in Patagonia, a Santa Cruz. Ma tutti sono convinti che resterà dietro la porta della Casa Rosada in attesa che il suo erede fallisca. Per tornare fra due ali di folla come Perón il 17 ottobre di 70 anni fa. E ricominciare il romanzo peronista, Eva e Perón, lei e Nestor, che ora Scioli vuole, senza alcun diritto dinastico, occupare.

sabato 24 ottobre 2015

Crisi, scandali e colpi bassi. In Brasile è assedio a Dilma e anche Lula la sfiducia (Repubblica, 23 ottobre 2015)

DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI
   

BRASILIA                   
Il Parlamento del Brasile è uno dei luoghi più originali del mondo. Siccome può entrarci chiunque, basta presentare un documento, i suoi corridoi sono spesso attraversati da cortei interni di manifestanti che protestano. Ci sono gli indios dell'Amazzonia che hanno qualche problema da risolvere; femministe contro una nuova legge antiaborto; operai licenziati; ambientalisti: un putiferio di contestatori in cerca di ascolto e soluzioni come in una immensa agorà. Qui, l'opposizione al governo di Dilma Rousseff, cerca, da settimane, i numeri per ottenere l'avvio della procedura di impeachment della presidenta dopo gli scandali politici - Petrobras su tutti - e le grandi manifestazioni in tutte le principali città del Paese che hanno chiesto una svolta in una situazione che diventa ogni giorno di più ingovernabile. L'assedio a Dilma è ormai un'agonia quotidiana in un contesto che sembra davvero quello della tempesta perfetta: crisi economica, crisi politica (il governo non ha più maggioranza parlamentare), e crisi istituzionale (almeno un quinto dei 500 deputati del Congresso sono coinvolti nelle indagini di corruzione). L'altro ieri è stata presentata al presidente della Camera, Eduardo Cunha, una nuova richiesta per la procedura di impeachment che dovrà valutare nei prossimi giorni. Cunha è un leader degli evangelici, è diventato presidente della Camera perché il suo partito, il centrista Pmdb, è alleato di Dilma. Ma ora lui è un suo nemico. E nell'esecutivo si teme che possa fare qualsiasi cosa, anche per spostare l'attenzione da una inchiesta che lo vede coinvolto e accusato di possedere  fondi provenienti dalla corruzione in almeno quattro conti segreti in una banca svizzera. Nel parlamento brasiliano ci sono 28 partiti, molti piccoli e piccolissimi, che ballano da una parte all'altra intorno ai tre maggiori (PT -sinistra -, Psdb - opposizione -, Pmdb -centristi-)  e quello che ieri sembrava improbabile, la messa in stato d'accusa di Dilma, domani potrebbe diventare facilmente realtà.

I fronti della battaglia oggi sono almeno quattro. C'è il tribunale dei Conti che ha respinto il bilancio delle spese del governo per il 2014. E sulla base del quale, per "irresponsabilità istituzionale", è stata presentata l'ultima richiesta di impeachment. C'è il tribunale elettorale, che sta esaminando le denuncie sull'ultima campagna presidenziale (autunno 2014), nelle quali Dilma è accusata di uso di fondi illeciti. C'è il Parlamento. E c'è, infine, il tribunale del Parana, dove prosegue "Lava Jato" (lava auto), la madre di tutte le inchieste sulla corruzione politica. Gli scenari dell'accerchiamento alla presidenta sono due, ci spiega Carlos Zarattini, vice capogruppo alla Camera del Pt. Se l'impeachment inizia in Parlamento a cadere sarebbe solo lei e, particolare per nulla insignificante, a prenderne il posto fino alla fine del mandato (2018) sarebbe il vice presidente Michel Temer, esponente del Pmdb, stesso partito di Cunha,   alleato ma non troppo del Pt di Lula. "E sarebbe un golpe", ripete Dilma. Se invece l'impeachment inizia nel tribunale elettorale cascano tutti e si va a nuove elezioni entro 90 giorni. Insomma una classica sceneggiatura dove colpi bassi, ricatti, e prebende da basso impero in Parlamento la fanno da padroni. In realtà l'altro problema sul palco del teatro politico è che l'opposizione è divisa sulla strada da seguire per ottenere l'obiettivo della fine anticipata della presidenta. Aecio Neves, il candidato dell'opposizione Psdb sconfitto da Dilma nell'ottobre scorso per una manciata di voti, punta dritto alla messa in Stato d'accusa mentre il padre nobile dello stesso partito, l'ex presidente Fernando Henrique Cardoso, invita alla calma, a evitare una rottura costituzionale e preferirebbe, forzando il tormento, le dimissioni di Dilma.


Isolata nella sua torre d'avorio presidenziale, l'elegante palazzo dell'Alvorada disegnato da Niemeyer all'estremità di Brasilia sulle sponde del lago Paranoà, Dilma Rousseff sa benissimo che, se anche riuscirà a sopravvivere alla baraonda parlamentare, il suo destino lo deciderà l'economia. Dopo un fantastico decennio di crescita il Brasile è entrato in una recessione che, per gli esperti, durerà almeno due anni. La disoccupazione cresce e è previsto che entro febbraio 2016 superi la soglia psicologica del 10 percento. Il real, la moneta brasiliana, si è già svalutato di oltre il 30% in pochi mesi. Le maggiori agenzie internazionali di rating hanno derubricato il debito del Brasile al limite dei bond spazzatura nonostante il governo continui a contenere il deficit tagliando la spesa sociale. E qui scoppia l'ultima disgrazia di Dilma. Ormai è isolata soprattutto nel Pt, il suo partito. "Tagli, tagli e ancora tagli. Non può continuare così - dice Carlos Zarattini -. Bisogna cambiare la politica economica, scegliere misure anticicliche, lo Stato deve riprendere a investire".  Lula, leader indiscusso della sinistra brasiliana, ha chiesto la testa di Joaquim Levy, il ministro dell'economia liberista, scelto anche con il suo appoggio da Dilma l'anno scorso per rimettere a posto i conti del bilancio statale e calmare il nervosismo dei mercati. Ma lei, per ora, resiste. Convinta che solo risanando si potrà poi ricominciare a crescere. Lula, invece, che non nasconde il suo desiderio di ripresentarsi candidato alla presidenza non può rinunciare a quel che ha costruito: i 30 milioni di brasiliani usciti dalla miseria, parte dei quali, senza i programmi sociali dello Stato, rischiano di tornarci. Lo scontro è duro. E Lula, inseguito anche lui dai giudici del "Lava Jato", soprattutto per colpa di figli e cognate che avrebbero approfittato della parentela per arricchirsi, viene ormai a Brasilia tutte le settimane per assediare, perfino lui, la presidenta che scelse come erede. Cercò di convincerla già l'anno scorso a non ripresentarsi per un secondo mandato lasciandogli subito campo aperto. Ora, con l'appoggio del partito, vuole commissariarla. Almeno sulla politica economica. Intanto, stasera, estradato dall'Italia, torna per scontare la condanna a dodici anni di carcere, Henrique Pizzolato, il banchiere del Mensaläo, il primo scandalo del partito dei lavoratori, al potere dal 2002. E un altro caos è servito. Un'altra spina per Dilma. L'opposizione festeggia convinta che ora Pizzolato parlerà ingrossando accuse, vere e presunte. L'agonia continua.