martedì 24 novembre 2015

Mauricio Macri, profilo, la repubblica 24 nov 2015



Se c’è un tratto inequivocabile nella vita di Mauricio Macri, neo presidente d'Argentina, è la sua relazione con il padre Franco. Sul piano personale, perché gli impose una carriera - ingegnere - che lui mai amò e quasi mai esercitò. E su quello pubblico, perché la vicenda del padre, un magnate - oggi 85enne - che si arricchì con le commesse pubbliche negli anni della dittatura militare, e fu sempre molto chiacchierato per i milionari affari delle sue aziende, che spaziano dall’immobiliare ai componenti per auto, dalla nettezza urbana all’industria alimentare, lo insegue ancora oggi come una irritante ombra nelle sue crociate anticorruzione. Padre esigente, Franco Macri. Scontroso e distante, che lo aveva scelto - Mauricio è il primo di cinque fratelli - come erede destinato a gestire il futuro delle fortune familiari ma che non perdeva mai l’occasione per umiliarlo. C’è una biografa di Macri, Gabriela Cerruti, che nel libro El pibe (Il ragazzino), narra un episodio dell’adolescenza. Tutte le domeniche, Macri e suo padre giocavano a scacchi e il piccolo Mauricio perdeva sempre inseguito dagli sberleffi di Franco che, a tavola davanti al resto della famiglia, lo prendeva in giro. Finché un giorno vinse. Suo padre non disse nulla, chiuse la scacchiera e non giocarono mai più. 

La famiglia paterna di Macri arrivò in Argentina poco dopo la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Suo nonno era un aristocratico calabrese, sua nonna era romana. Suo padre iniziò a lavorare come operaio ma nella ricca Argentina dell’epoca, granaio del mondo, costruì rapidamente un patrimonio. Così Mauricio crebbe nei migliori collegi, studiò alla Columbia negli Stati Uniti e si laureò all’Uca, la prestigiosa Università cattolica di Buenos Aires, iniziando poi a lavorare nelle aziende paterne. Nel 1991 venne rapito. Fu una banda formata da agenti della polizia. Lo tennero sequestrato due settimane finché la famiglia non pagò un riscatto da sei milioni di dollari. Dice Macri che quella drammatica esperienza cambiò la sua vita. Decise di rompere con il padre e iniziò a pensare alla politica. Il primo passo, nel 1995, fu il Boca Junior. Quando riuscì a diventarne presidente disse: «Mio padre non mi avrebbe mai concesso di svolgere un ruolo autonomo negli affari di famiglia, ma qui al Boca non può più dirmi cosa devo o non devo fare». 

Erano gli ultimi anni di Maradona, tornato a casa dopo Barcellona e Napoli. Macri e il pibe de oro non andarono mai d’accordo. Diego, che veniva dalle favelas, disprezzava quel figlio di ricchi che, secondo lui, non aveva dovuto combattere per niente. Una volta gli disse: «Tu il Boca lo hai ereditato, io l’ho conquistato». Macri gestì la squadra più importante di Buenos Aires per tredici anni, vincendo 17 titoli. Fu il trampolino che gli diede la possibilità di fare il salto in politica. Sospinto dai successi con il Boca jr. si presentò candidato a sindaco della capitale la prima volta nel 2003, ma venne sconfitto. Poi vinse, diventando sindaco prima nel 2007, e poi ancora nel 2011. Ma la relazione con il padre continuò a perseguitarlo: Franco Macri è amico di Cristina Kirchner e militante peronista. Non voleva che suo figlio si candidasse alla presidenza del Paese.

Adesso sarà il primo presidente dell’Argentina nato dopo la caduta di Perón (1955), il primo ad aver vissuto il dramma di un sequestro, il primo a vincere in un ballottaggio, il primo a non essere né peronista né radicale. Mauricio Macri si è sposato tre volte e ha quattro figli. Con l’ultima moglie, Juliana Awada, imprenditrice tessile, si conobbero in una palestra. Hanno una figlia, Antonia, di 4 anni, grazie alla quale - dice Macri - «sono metà nonno dei figli dei miei figli e metà padre». Il suo libro preferito è il cacciatore di aquiloni di Khaled Housseini, la musica: quella di Phil Collins. Quando iniziò l’ultima campagna elettorale, a giugno, Macri adottò un cagnolino. Gli mise il nome della strada che costeggia il palazzo presidenziale della Casa Rosada, “Balcarce”. Poi gli comprò una cuccia a forma di palazzo presidenziale tutta rosa. La sua mascote gli ha portato fortuna. Nonostante Cristina e Scioli abbiano utilizzato tutta la forza persuasiva della propaganda di Stato per convincere gli argentini che era "l’anticristo”, li ha battuti.

martedì 3 novembre 2015

Affari e Finanza 2 novembre 2015

Argentina, la sfida dell’autarchia peronista

IL CANDIDATO DELL’ OPPOSIZIONE MACRI E QUELLO DELLA PRESIDENTE USCENTE, SCIOLI, ARRIVANO AL BALLOTTAGGIO CON POSIZIONI SIMILI: PRUDENZA NELL’AUSTERITY E NEL RIGORE, NECESSARI INVECE PER UN PAESE IN CUI L’INFLAZIONE È AL 25%

Buenos Aires Il panorama economico di questa Argentina che in una fredda primavera australe s’avvia a scegliere il suo nuovo presidente, fra Daniel Scioli e Mauricio Macri, con il primo ballottaggio della sua recente storia democratica, assomiglia fatalmente a quello della fine degli anni Novanta. Come allora, dopo un altro decennio di sperperi peronisti, - nel 1999 era appena uscito di scena Carlos Memen- , chiunque entrerà alla Casa Rosada dovrà prima di ogni altra cosa affrontare l’emergenza economica. Oggi la crisi brasiliana, la riduzione della domanda cinese e il calo dei prezzi delle materie prime, hanno messo in stand by l’economia argentina che da due anni non cresce e nel 2016, secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, entrerà in recessione (-0,7%). Un quadro complicato dalla contrazione dell’export (-17% previsto nel 2015 rispetto all’anno scorso), dall’esaurimento delle riserve valutarie, dall’inflazione (oggi al 26%), da un deficit di bilancio che s’avvia entro la fine dell’anno a sfiorare il 7% del Pil e infine dalla svalutazione “sommersa” della moneta. Il valore del peso sul mercato ufficiale dei cambi è bloccato a 10,50 sull’euro, ma sul mercato parallelo per comprare un euro ci vogliono più di 17 pesos (stessa simmetria sul dollaro, rispettivamente circa 9 e 15-16 euro per dollaro). Dopo il default del dicembre 2001, Nestor Kirchner prima e sua moglie Cristina poi (è entrata in carica nel 2007), hanno inseguito 
un modello economico statalista e protezionista, rompendo con gli organismi economici internazionali (Fmi in testa), cancellando unilateralmente il debito estero (misura che continua aprovocare guai legali a non finire), e promuovendo il contenimento delle importazioni. Una politica che è andata quasi incredibilmente bene, con tassi di crescita del Pil fra l’8 e il 9% annuo, finché però è durato il boom dei prezzi delle materie prime. Nel caso argentino: soia, grano, e petrolio. Ma che ormai è del tutto insostenibile soprattutto perché ha gonfiato a dismisura la spesa di uno Stato che non può più neppure finanziare il suo deficit ricorrendo a prestiti esteri proprio perché nessuno glieli fa più. Soltanto la Cina, un anno fa, ha accettato di aprire una linea di credito da 11 miliardi di dollari per coprire il nuovo debito argentino. Un credito già quasi completamente consumato e che ora Pechino si rifiuta di rifinanziare. Osservata da Buenos Aires, l’Argentina di queste settimane elettorali sembra immersa in una bolla mediatica dove i candidati a sostituire Cristina Kirchner evitano accuratamente di affrontare il tema della contingenza economica, e dove una classe media spensierata continua a far debiti grazie a programmi statali che finanziano il consumo a rate con zero interessi: scarpe, vestiti, elettrodomestici, auto nuove. Sospinta dall’ossessione di conservare una influenza egemonica nella politica argentina e, magari, anche dalla speranza di diventare indimenticabile e eterna come Evita Péron, la presidente Kirchner ha organizzato questo festival di primavera pompando pesos nel mercato interno che sono serviti soprattutto ad aumentare salari e pensioni frantumati dall’inflazione. Con l’effetto brutale di trasferire altri guai sui suoi successori. Così il dibattito ruota tutto intorno al “modello” della fragile autarchia argentina. Daniel Scioli, candidato peronista, promette di mantenerlo riformandolo, mentre Mauricio Macri di cambiarlo, (“Cambiemos” è il suo slogan), a tappe forzate. I mercati hanno festeggiato il risultato del primo turno elettorale del 25 ottobre quando è diventato evidente non solo che sarebbe stato necessario un ballottaggio il prossimo 22 novembre, ma che, soprattutto, i suffragi minoritari ottenuti dal “Frente para la victoria” di Scioli e Cristina lasciavano prefigurare una possibile svolta. A urne chiuse, fra i consensi ottenuti da Macri e dal peronista dissidente Sergio Massa, arrivato terzo, oltre il 60% degli argentini aveva votato contro il partito di Cristina Kirchner, rieletta con il 54% quattro anni fa. L’indice della Borsa è subito schizzato su del 3 percento, il costo dei dollari sul mercato nero è sceso e il valore dei bond è aumentato. Altro segnale: l’ultimo ministro dell’economia del governo in carica, Axel Kicillof, che si presentava per un seggio di deputato nel nuovo Parlamento è stato eletto ma con appena un 22% dei voti. Sia nel caso di una vittoria di Macri, che in quella di Scioli, i margini di manovra del prossimo presidente sono piuttosto ristretti. Sotto accusa adesso ci sono soprattutto i sussidi che lo Stato finanzia per contenere al ribasso le spese familiari dei servizi: luce, gas, elettricità e trasporti. Insieme ai piani sociali contro la povertà. Per ridurre il deficit statale i tagli sono indispensabili. Ma sono più facili nel caso di Macri che sostiene politiche liberiste piuttosto che in quello di Scioli che difende il “modello” sociale del kirchnerismo peronista. Riguardo agli holdouts, i fondi di investimento che possiedono una piccola parte dei bond del vecchio debito argentino e chehanno rifiutato la rinegoziavillaggio zione, entrambi i candidati difendono la necessità di un accordo. Se accetterà di pagare l’Argentina può chiudere le cause giudiziare aperte e sperare di ottenere nuovi crediti internazionali attraverso l’emissione di buoni del Tesoro post accordo. L’altro fronte aperto è la svalutazione del peso. Macri ha promesso di eliminare in fretta il blocco del mercato dei cambi lasciando fluttuare liberamente il peso e di diminuire il controllo sulle importazioni. Nel caso di Scioli invece la svalutazione sarebbe guidata e moderata conservando il regime del cambio bloccato. Inoltre con Macri è abbastanza probabile che tornerebbe in gioco il Fondo monetario internazionale al quale un suo esecutivo chiederebbe aiuto. Scenario invece del tutto improbabile nel caso di vittoria di Scioli. Secondo gli osservatori, infine, dovrebbe essere abbastanza simile la politica estera di entrambi i possibili vincitori con un chiaro riavvicinamento agli Stati Uniti e misure a favore degli investimenti internazionali. Ma nel backstage che nessuno vuole guardare ci sono tutti i fantasmi della fine del secolo scorso, quando una etereogenea coalizione antiperonista guidata da Fernando de la Rua sconfisse il continuismo rappresentato da Eduardo Duhalde per andare a infrangersi due anni dopo nel più tragico fallimento della storia recente. De la Rua, come Macri, era sindaco uscente di Buenos Aires. Duhalde, come Scioli, era governatore uscente della provincia di Buenos Aires.