domenica 17 luglio 2016

i fratelli coltelli dell'Avana (il Venerdì di Repubblica, 1 luglio 2016)





Omero Ciai


Ora che l'opera è compiuta, dopo che la pace con l'America di Obama ha concluso l'ultima guerra fredda del Novecento, si potrebbe tornare con la memoria a un pomeriggio del 1959, era il 27 aprile, quando Fidel e Raúl erano, come oggi, su sponde opposte, ma esattamente rovesciate. Lo scenario è un albergo di Houston, Texas, il Sahamrock, in una stanza dell'ultimo piano, dove si svolse una delle tante, memorabili, risse tra i due fratelli della rivoluzione cubana. Raúl era partito dall'Avana, con sua moglie Vilma Espín, e lo storico capo dell'intelligence, Manuel Piñero - Barbaroja -, con l'obiettivo di raggiungere Fidel alla fine del suo primo, storico e trionfale, viaggio negli Stati Uniti come nuovo líder maxímo dei "barbudos" che avevano liberato Cuba, e convicerlo a rientrare subito in patria per annunciare la svolta filo sovietica del nuovo governo. All'epoca, Raúl e Che Guevara, i due comunisti del direttorio rivoluzionario, temevano che Fidel avesse intenzione di trattare con gli americani e volevano che rompesse subito le relazioni dell'isola con la vicina potenza imperialista. Fidel considerava il tutto molto prematuro e, come sempre nelle litigate con Raúl, vinse anche quella volta. Nel penthouse del Sahamrock volarono molte parolacce ma alla fine il comandante en jefe proseguì il suo viaggio, da Houston andò a Buenos Aires, mentre Raúl tornò a casa bastonato e deluso. Per la svolta socialista avrebbe dovuto aspettare due anni. Fidel la dichiarò nell'aprile del 1961, alla vigilia della "Baia dei Porci". 

La leggendaria sudditanza psicologica di Raúl Castro verso il fratello maggiore è durata fino all'estate del 2006 quando Fidel, ottantenne, è stato costretto a cedergli il potere dopo un intervento chirurgico per i diverticoli nell'intestino, a causa dei quali, per la seconda volta, ha rischiato di morire.  Da quel momento, il piccolo Raúl, il figlio preferito di mamma Lina Ruz, più di Ramón, il maggiore, e di Fidel, il più forte, si è preso un sacco di vendette. Un ex amico intimo del presidente cubano, oggi in esilio, dice che quello di Raúl è stato come un "colpo di Stato" al rallentatore, durato più di 56 anni, ma costruito dietro le quinte con dedizione e perseveranza. Negli ultimi dieci anni, Raúl ha fatto tutto quello che Fidel gli aveva impedito di fare per mezzo secolo. Dalle riforme economiche a quelle politiche, fino alla pace con gli Stati Uniti, abbandonando senza troppe esitazioni l'universo geopolitico costruito dal fratello che, all'inizio del Duemila, aveva ritrovato nuova linfa con la fratellanza strategica del Venezuela di Hugo Chávez. Fidel è un sognatore che inseguendo la chimera del socialismo ha regalato fame e carestia all'isola, come il periodo especial degli anni Novanta -. Raúl un pragmatico che per perpetuare il potere riforma il sistema. Chi li ha conosciuti entrambi sostiene che Raúl è stato sempre "innamorato" di Fidel che, da fratello maggiore, lo ha spesso protetto ma umiliandolo, prendendolo in giro e imponendo sempre, con violenza e aggressività, le sue volontà. Alcibiades Hidalgo, che è stato a lungo segretario personale di Raúl, racconta che quando si scontrava con Fidel - nel palazzo della rivoluzione i loro uffici era collegati da un lungo corridoio custodito da guardie armate -, il numero due di Cuba lasciava l'Avana per rifugiarsi dall'altra parte dell'isola, nella provincia di Santiago, territorio della sua infanzia e degli anni della guerriglia, dove s'abbandonava alla depressione e all'alcol. "A volte - racconta Hidalgo - dopo una lite scompariva per settimane". 

Un conflitto sentimentale e politico che ha attraversato i lunghi decenni del regime castrista a Cuba. Dai primi anni, quando Raúl si schierò subito con Che Guevara contro i non comunisti come Camilo Cienfuegos e Huber Matos; alle relazioni con l'Urss, cui Raúl fu sempre molto più fedele che Fidel; fino ai tempi della glasnost e della perestrojka, alla fine degli anni Ottanta. All'inizio, infatti, Raúl fu gorbacioviano. E suo sodale era l'ideologo del partito, Carlos Aldana, che Fidel destituí, in una notte, quando decise che era meglio opporsi alle riforme sovietiche di Gorbaciov. Come migliore amico di Raúl era il generale Ornaldo Ochoa, processato e fatto fucilare da Fidel nel 1989, perché tramava contro di lui. In ogni crisi c'è sempre stato il richiamo del sangue, e Raúl ha scelto il legame con Fidel sopra a qualsiasi altro. Fino alla fine quando è diventato lui il numero uno. Non è un segreto a Cuba che quando si ristabilì dall'operazione all'intestino, all'inizio del 2007, Fidel volle tornare a dirigere il Paese perché si rendeva conto che, come scrittore, con le sue riflessioni pubblicate dal Granma, l'organo del partito, non aveva più molta influenza sul destino dell'isola. Ma Raúl gli aveva già fatto il deserto intorno, epurando tutti gli uomini del fratello dai posti di responsabilità. Con Fidel governavano soprattutto i civili, con Raúl presero il potere tutti i militari che aveva formato mentre era capo delle Forze armate. L'industria e il turismo passarono sotto il controllo dei generali, nuovi manager e oligarchi di Cuba. 

Anche nelle attitudini personali, Fidel e Raúl sono molto diversi. Raúl ha sempre cercato di riparare quello che Fidel distruggeva. A cominciare dalle famiglie. Ha sempre fatto da padre ai figli dispersi di Fidel. Per esempio a Fidelito, il figlio che suo fratello ebbe dalla prima moglie, Mirta Diaz Balart, che è crescito nella famiglia di Raúl, insieme a tre femmine, Deborah, Mariela e Nilsa, e a un maschio, Alejandro, che oggi è il capo dei servizi segreti cubani e si profila già come un probabile erede. E basta leggere il bel libro di Alina Fernandez, la figlia illegittima di Fidel che scappò negli Stati Uniti,  per ritrovarci le dolcezze e le attenzioni di Raúl alla nipote adolescente che babbo Fidel evitava d'incontrare. Le famiglie Castro, per espresso volere di Fidel sono state sempre ermeticamente separate. Nell'ossessione per la segretezza e la sicurezza del líder maxímo c'era una spiegazione come quella che per decenni ha impedito che i due fratelli viaggiassero sulla stessa auto o sullo stesso aereo. Se accadeva qualcosa a Fidel, c'era Raúl per prenderne il posto. Ma della separazione familiare, Raúl ha sempre sofferto. Tanto che, come ricorda ancora Hidalgo, il giorno che i due Alejandro, uno figlio di Fidel e l'altro di Raúl, si conobbero per caso, quest'ultimo, emozionato dalla notizia, decise di organizzare una grande festa per celebrare l'incontro fortuito. La dedizione familiare di Raúl, completamente assente in Fidel, ha causato al minore dei Castro anche qualche problema. Raúl ha sempre conservato qualche forma di relazione con i membri della famiglia che hanno lasciato l'isola socialista. Come sua sorella Juanita, che fuggì a Miami, dopo aver lavorato per la Cia contro Fidel, o come Mirta, la prima moglie di Fidel, che si esiliò in Spagna. Dalia Soto del Valle, la seconda moglie di Fidel, non ha mai gradito l'affetto di Raúl per Mirta. Così, quando un medico consigliò all'allora numero due del regime, una bella nuotata mattutina per alleggerire i dolori alla schiena e Raúl fece chiamare l'unico luogo di Cuba dove c'era una piscina riscaldata d'inverno, il Cimeq, gli spiegarono che non poteva andarci perché era riservato alla First Lady, Dalia. "Non vorrà mica incontrare sua cognata in costume?". 

domenica 12 giugno 2016

Buenos Aires, le nuove mamme di Plaza de Mayo: "Rivogliamo le nostre ragazze"




DAL NOSTRO INVIATO

Omero Ciai


BUENOS AIRES - L'inizio è soltanto un post-it colorato, dall’aspetto innocuo, con il disegno di Betty Boop, l’eroina dei cartoon sexy degli anni Trenta, un indirizzo e un numero di telefono. Un’immagine che riempie le pareti dei muri lungo le vie del microcentro di Buenos Aires, l’area pedonale della capitale argentina più frequentata dai turisti, tra librerie e negozi alla moda. È la pubblicità dei bordelli, ufficialmente illegali, in realtà molto diffusi in tutto il Paese. Soltanto a Buenos Aires, fra i locali vip di Corrientes o Santa Fe e i miserabili postriboli dell’immensa periferia, ce ne sarebbero oltre un migliaio. E sono, insieme allo spaccio di droga, uno dei grandi affari della criminalità locale. L’altra immagine, apparentemente lontana, sono i cartelli con le foto segnaletiche delle ragazze scomparse. Nei negozi, nelle stazioni, negli aeroporti. Un nome, l’età, l’ultimo luogo in cui l’adolescente in foto è stata vista. Un telefono di contatto. Si confondono con le indicazioni stradali, i manifesti pubblicitari, le insegne, come un urlo di orrore che si perde nei rumori della metropoli. L’ultima ragazza hanno provato a rapirla l’altra sera. Usciva dall’università, dopo un corso serale alla facoltà di medicina, in piazza Houssay, a Recoleta, il quartiere più borghese di Buenos Aires. Due uomini e un coltello appoggiato dietro la schiena. Si è salvata grazie a un passante coraggioso che si è avvicinato a chiedere cosa stesse accadendo.

"Quello delle case chiuse", spiega Margarita (nella foto), "è un affare milionario nel quale sono coinvolti tutti. Poliziotti, politici, giudici, funzionari statali. Dividono gli incassi con le bande dei narcos. L’ipocrisia maschile fa dire loro, e persino credere, che le ragazze si prostituiscono per loro scelta. Invece nei bordelli sono tutte prigioniere. Tutte, nessuna esclusa. Sono schiave. Sono state sequestrate o ingannate. Le picchiano, le drogano e le minacciano per evitare che scappino". Margarita ha sessantasei anni. Ha perso una figlia, Susi. L’ha cercata per anni dopo che era scomparsa finché non l’ha ritrovata morta. L’hanno assassinata dopo averla trasferita da un locale a un altro per tutto il Paese. A Costitución, uno dei quartieri degradati di Buenos Aires, Margarita ha costruito una mensa per i poveri. La manda avanti grazie a qualche contributo pubblico e a molti contributi privati. Ma, nella sua battaglia contro la “Tratta” delle ragazze che alimenta il mercato della prostituzione, ha fondato una associazione di Madri che ricorda da vicino un’altra agghiacciante tragedia dell’Argentina, i trentamila desaparecidos della dittatura militare. Le ribelli di Margarita, che sfidano la catena di silenzi e complicità, sono le nuove Madri di Plaza de Mayo. Si riuniscono per sfilare, il terzo venerdì di ogni mese, sulla famosa piazza di Buenos Aires, davanti al palazzo presidenziale della Casa Rosada, con le foto delle loro figlie scomparse appese sul petto. Come Hebe de Bonafini e Estela Carlotto fecero quarant’anni fa.
Quello della trata è un business che nel ranking della criminalità è secondo soltanto al traffico della droga e delle armi secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), che nei suoi dossier conferma anche quanto denunciato dalle Madres: “Vi sono implicati in forma ricorrente funzionari pubblici e politici...”. Ogni anno scompaiono quasi mille ragazze, forse di più. Spesso sono minorenni e non tutte diventano desaparecidas nello stesso modo. Alcune vengono rapite, altre, all’inizio, semplicemente ingannate. Altre ancora vengono vendute ai trafficanti da un familiare o da un’amica. O finiscono nel giro perché comprano droga. Molte sono povere, alcune sono ragazze-madri. Sonia e Fabiola vengono dal vicino Paraguay. A Sonia, che oggi ha trentanove anni, le promisero un lavoro artistico a Buenos Aires quando faceva la cameriera in un bar. Attraversò la frontiera senza documenti ma nessuno la fermò perché avevano corrotto i doganieri. La sfruttarono per dodici anni, quattordici clienti al giorno. Fabiola venne invece venduta dal fratello, le fece credere che avrebbe lavorato in Argentina come baby sitter.

Le connessioni della rete sono internazionali. Ci sono ragazze vendute ai narcos messicani. In Perù, in Spagna. Margarita dice che un locale o un appartamento con sei o sette ragazze può fruttare fino a centomila euro di incassi al mese. Di più se le giovani sono minorenni. Denaro che crea un network di connivenze e complicità. Dall’agente di polizia del quartiere ai politici locali che con le mazzette della prostituzione finanziano perfino le campagne elettorali. «Quando scomparve mia figlia Susi», racconta Margarita, "io ero una militante peronista. Iniziai a cercarla e mi accorsi che dirigenti politici comunali che conoscevo erano complici della Tratta: prendevano denaro in cambio di permessi che firmavano per l’apertura di locali. Mia figlia fu costretta a prostituirsi anche in un nigth club, si chiamava “Shampoo”, poi venne chiuso per le denunce di alcune ragazze. Il proprietario, Gabriel Conde, è latitante in Messico, a Cancun. È figlio di Luis Conde, un vicepresidente della squadra di calcio Boca Juniores, morto qualche anno fa. Politica, pallone, servizi di sicurezza, tutti hanno affari nella Tratta e sono favoreggiatori dei criminali".

Il gioiello dell’Associazione delle Madri è “l’equipo de rescate”, un gruppo di familiari delle vittime, tutti uomini, che assaltano i bordelli per liberare le ragazze quando qualcuna di loro riesce a comunicare l’indirizzo e chiede aiuto. "Quando una ragazza viene sequestrata è essenziale agire il più presto possibile", sottolinea Margarita, "perché iniziano subito a drogarle, e diventano tossicodipedenti, oppure le trasferiscono in altre città". È successo poco tempo fa alla figlia di una famiglia benestante della capitale. Lei voleva comprare droga e la ragazza che gliela vendeva l’ha portata in una “villa miseria”, una baraccopoli del Gran Buenos Aires, la provincia. L’ha consegnata a un gruppo di narcos. Amici e familiari, insieme al grupo de rescate di Margarita sono entrati armati nella baraccopoli e sono riusciti a liberarla. "Se aspettavamo la polizia, non l’avremmo ritrovata più". Aveva il corpo pieno di piccole bruciature rotonde. È la tortura tipica dei narcos, che per domare le ragazze rapite gli spengono le sigarette sulla pelle. Ma non va sempre così. Una storia emblematica è quella di Nora. A diciassette anni scappò di casa. Sua madre riuscì a rintracciarla dopo qualche tempo in un postribolo nella zona di Tucuman, nel nord del Paese. Era prigioniera e l’aiutò a fuggire. Ma ormai era diventata tossicodipendente, tossica di Paco, la “droga dei poveri” in America Latina, uno scarto della lavorazione della cocaina che si fuma e produce assuefazione in pochissimo tempo. Dopo qualche giorno a casa di sua madre si presentò un sedicente 'fidanzato' di Nora, accompagnato da un agente di polizia. Convinsero Nora a testimoniare davanti a un giudice contro la madre e se la portarono via. Schiava loro e della droga. Per questo le Madri oggi chiedono allo Stato assistenza medica e pedagogica gratuita per le figlie ritrovate, e una casa dove possano proteggerle mentre escono dall’inferno.

Un caso che ha commosso l’Argentina fu quello di Marita Veron, desaparecida a ventitré anni un pomeriggio di aprile del 2002. Dopo anni di battaglie, sua madre, Susana Trimarco, riuscì a portare sul banco degli imputati i suoi sequestratori. Al processo, alla fine del 2012, nonostante le molte testimonianze, furono tutti assolti. Susana denunciò che i giudici erano stati corrotti dai rapitori di Marita e l’onda di sdegno che attraversò il Paese convinse, qualche mese più tardi, la Corte Suprema a rivedere la sentenza, condannando la maggior parte degli imputati. Susana non ha mai ritrovato Marita e oggi dirige una Fondazione, “Maria de los angeles”, che combatte in Argentina la piaga sociale della Tratta.

Allo Stato le Madri chiedono che il sequestro delle ragazze legato allo sfruttamento della prostituzione diventi un reato di lesa umanità, affinché non sia mai possibile archiviarlo. E chiedono l’istituzione di una Banca di impronte digitali e del Dna, come per i desaparecidos della dittatura militare. "Non solo le adolescenti che fuggono dalle case chiuse", aggiunge Margarita, "e rischiano la morte perché possono denunciare i loro carcerieri e i loro clienti. Anche le altre ragazze, quando invecchiano e non servono più, possono essere assassinate. A Buenos Aires le buttano in fondo ai pozzi per
l’acqua in una zona periferica, a Temperly. Spesso quando si ritrovano i corpi vengono seppelliti come quelli di persone senza identità perché nessuno apre l’inchiesta". Oggi in Argentina sono scomparse altre due ragazze. Altre due scompariranno domani.

sabato 28 maggio 2016

Vecchie ruggini e no al liberismo il gelo di Bergoglio che preoccupa Macri (Repubblica 27 maggio 2016)

DAL NOSTRO INVIATO


BUENOS AIRES.
In Argentina si sono convinti che il neo presidente, Mauricio Macri, non piaccia molto a Papa Francesco. Tanto che anche un'udienza, a suo modo storica, come quella che si svolgerà oggi nella residenza privata di Santa Marta con la presidente delle "Madri di piazza di Maggio", Hebe de Bonafini, viene letta come un segnale sfavorevole. Le presunte divergenze con Macri e l'incontro con Hebe, simbolo storico delle vittime della dittatura militare, non possono essere messi sullo stesso piano. Ma a Buenos Aires si nota come Papa Francesco «continui a ricevere personalità molto vicine all'ex presidente Cristina Kirchner», come è stata, nell'ultimo decennio, anche Hebe de Bonafini. Il tutto nasce dalla sorpresa che provocò in Argentina la sensazione di freddezza del primo e unico faccia a faccia a Roma tra l'ex arcivescovo della capitale, da tre anni Papa, e Macri, alla fine di febbraio. E che ora si riverbera sulle difficoltà politiche dei primi mesi del nuovo governo. La terapia shock in economia, adottata subito dal nuovo presidente, con la svalutazione della moneta locale, l'impennata dei prezzi, e il taglio, per ragioni di bilancio, di molti sussidi governativi ai servizi di base (luce, gas, trasporti), hanno causato un'ondata di malcontento soprattutto nei settori più poveri della popolazione. Così i segnali che vengono da Roma sono letti anche come una critica alle scelte del nuovo governo. E sono osservati con preoccupazione nelle stanze della Casa Rosada, la sede della presidenza. Ad ammettere le difficoltà ci ha pensato l'altro ieri la vicepresidente del governo argentino, Gabriela Michetti, riconoscendo che tra Buenos Aires e Roma «c'è distanza nella comprensione del progetto politico ». «Non voglio dire - ha sottolineato la vice di Macri - che il Santo Padre non comprenda il nostro progetto politico, ma che forse non abbiamo potuto raccontargli bene verso dove vogliamo andare». «È necessaria - ha concluso - una chiacchierata, chiara e profonda, nella quale il presidente possa spiegare a Papa Francesco come pensa di risollevare il Paese».
Poche ore prima di questa dichiarazione, il cardinale Mario Poli, arcivescovo di Buenos Aires, aveva celebrato il Tedeum con un discorso, «dai forti accenti sociali», nel quale chiedeva un tavolo di negoziato tra governo, opposizione e sindacati, e una strategia politica più attenta verso i poveri. Recessione e inflazione, che Macri ha ereditato dagli ultimi anni della Kirchner, sono però peggiorati con la terapia shock e il 30% degli argentini vivono oggi al di sotto della cosiddetta linea di povertà. Un dato che preoccupa la Chiesa, poco persuasa dai discorsi del governo quando assicura che le sue scelte economiche garantiranno la ripresa nei prossimi mesi.
Per questo i gesti di Roma vengono tradotti e piegati nella politica locale. D'altra parte lo scarso entusiasmo di Bergoglio verso il presidente Macri viene da lontano e risale ai tempi in cui il primo era arcivescovo della capitale e il secondo era sindaco. Una questione di feeling divenuta evidente nel primo incontro del febbraio scorso, dopo il quale i giornali argentini iniziarono a parlare di una "Santa crepa", i dissapori che dividerebbero il Santo Padre dal nuovo leader del governo argentino. Una lista corposa, secondo alcuni. Intanto perché Macri, quando si recò a Roma, sperava di ottenere dal Papa una data per il suo primo viaggio pastorale in Argentina, paese di entrambi, che Francesco lasciò quando era ancora il vescovo Bergoglio e nel quale non è ancora tornato. La visita, ipotizzata per quest'anno è invece ancora rinviata, magari proprio perché l'ambiente, politico e sociale, è inquieto. Poi tanti episodi apparentemente minori. Come le note simpatie di Macri per la religione buddista. O le accuse a Juliana Awada, la moglie di Macri, criticata perché avrebbe utilizzato, nella sua azienda di tessuti, la collaborazione di laboratori clandestini con condizioni di lavoro considerate "schiaviste". In realtà, com'è stato evidente dall'omelia del cardinale Poli, la Chiesa teme che le politiche liberiste di Macri finiranno per favorire le diseguaglianze, invece di arginarle, in un Paese che ha ancora molti debiti con la parte più povera della sua popolazione. E forse la pensa così anche il Papa.
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venerdì 22 aprile 2016

Repubblica 19 aprile 2016

Il vice, il "sultano" e l'ex sfidante 

L'asse dei falchi che ha battuto Dilma

DAL NOSTRO INVIATO
BRASILIA.
C'è il deputato che giura sull'impeachment per difendere il caffé. Quello subito dopo per l'agricoltura. Un altro che lo giustifica per l'amore verso la propria famiglia. Uno per ringraziare la zia che lo allevò quand'era piccolo. Nel grande festival dei peones di domenica notte nel parlamento di Brasilia per l'impeachment di Dilma Rousseff c'è stato perfino uno, avvolto nella bandiera nazionale, che prima di pronunciare al microfono il fatidico "sì", ha fatto gli auguri di compleanno alla nipote. Tutti molto emozionati, i 513 parlamentari avevano trenta secondi di notorietà in tv, nella lunga maratona che ha avviato la destituzione della presidente. E non si sono lasciati sfuggire la possibilità di salutare elettori, amici lontani e perfino antenati in un circo mediatico che è durato più di cinque ore.
Ma il grande regista dell'operazione, il presidente della Camera, Eduardo Cunha, che ha gestito la nuova alleanza fra i nemici della Rousseff, non è un uomo senza macchia. Il suo nome è appena uscito nei Panama Papers. La lista è quella della Penbur Holding, una agenzia offshore creata dalla Mossak Fonseca per muovere capitali nei paradisi fiscali. Non è la prima volta che Cunha finisce impigliato in casi di corruzione. Tanti anni fa, sua moglie Claudia, che all'epoca lavorava come anchorwoman in una catena tv di Rio de Janeiro, rimase stordita leggendo in diretta un lancio d'agenzia che annunciava la destituzione del marito da un incarico statale per un'inchiesta legale. Oggi i giudici dello scandalo Petrobras accusano Cunha di aver ricevuto tangenti per 5 milioni di dollari. E dietro la sua decisione di accogliere la richiesta di messa in Stato d'accusa della presidente, ci sarebbe proprio la necessità di garantirsi appoggi nella Commissione Etica della Camera che avrebbe già dovuto sospenderlo, togliendogli quell'immunità che lo protegge dall'azione dei magistrati.
È il patto con il diavolo che l'opposizione al governo di Dilma Rousseff ha dovuto accettare per raggiungere l'obiettivo. A Brasilia, Cunha lo chiamano "Il Sultano". Leader degli evangelici, possiede 150 domini web col nome di "Gesù". Antiabortista scatenato, Cunha, che ha anche la cittadinanza italiana, ha promosso una legge per istituire "il giorno dell'orgoglio eterosessuale", ed è famoso come militante della "Bancada de la bala", il gruppo di parlamentari che vuole liberalizzare il possesso di armi.
L'altro regista di quello che Dilma continua a chiamare «il golpe » è un politico di lungo corso, che conquistò le prime pagine dei rotocalchi quando, nel 2003, sposò in terze nozze, una reginetta di bellezza. All'epoca Michel Temer aveva già 61 anni e la ragazza, Marcela Tedeschi, che ancora oggi è sua moglie, appena diciannove. Temer, leader del partito centrista Pmdb, è colui che garantì la governabilità dopo il primo scandalo di corruzione del partito di Lula più di dieci anni fa. Nel 2010 venne eletto per la prima volta vicepresidente, in coppia con Dilma. Rieletto nel 2014. Fino al grande tradimento, il 29 marzo scorso, quando ha deciso di uscire dal governo aprendo la strada al colpaccio dell'impeachment. Politico raffinato, noto come un grande conciliatore in un parlamento frantumato dove convivono 25 partiti, Temer per sostituire Dilma ha ora bisogno dell'appoggio dei socialdemocratici del Psdb.
Aecio Neves, il candidato socialdemocratico sconfitto da Dilma al ballottaggio di fine 2014, non si è mai rassegnato alla sconfitta. L'inchiesta "Lava Jato", sul giro di tangenti tra aziende private e commesse pubbliche, che ha colpito soprattutto il Pt di Lula e Dilma — ma che ha sfiorato anche Aecio — e il precipitare della recessione economica, hanno convinto il Psdb che si poteva tentare la spallata senza aspettare nuove elezioni.
A poco a poco, mentre nelle piazze cresceva il malcontento popolare, anche gli altri leader del centro destra, dall'ex presidente Fernando Henrique Cardoso, a José Serra, hanno iniziato ad appoggiare l'impeachment. Un male minore pur di cacciare Dilma nonostante l'evidente forzatura istituzionale. Il movente, il maquillage di bilancio per occultare il deficit statale, è debole per autorizzare una messa in Stato d'accusa. La pressione delle migliaia di manifestanti anti Dilma, quelli che vanno in piazza con la divisa gialla della maglietta della nazionale di calcio (scelgono quasi tutti il numero dieci di Neymar perché è il più ammirato), ha fatto il resto, spingendo il Psdb verso il patto con il diavolo.
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sabato 19 marzo 2016

La primavera di Cuba aspettando Santo Obama (la Repubblica 19 marzo 2016)


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI

L'AVANA. Dalla terrazza dell'hotel Saratoga si domina, a perdita d'occhio, tutta la capitale di Cuba. Fra la spuma bianca di una piña colada e il profumo della hierba buena di un mojito, avvocati e consulenti finanziari americani, si riposano sulle sdraio di tela chiara osservando lo spettacolo del Sole che tramonta dietro la cupola bianca del Capitolio. Confusi tra qualche ricco pensionato canadese in gita primaverile e quattro giovanotti newyorchesi in vacanza, sono loro i nuovi procacciatori d'affari sbarcati sull'isola proibita per avviare la nuova era delle relazioni fra Washington e l'Avana che il presidente Barack Obama s'appresta a sigillare con la storica visita che inizierà domani. Affari, per ora, pochi, cocktail caraibici numerosi. Ma da quando vi hanno alloggiato il segretario di Stato John Kerry, Paris Hilton e Beyoncé, questo vecchio e fastoso albergo, completamente ristrutturato dieci anni fa, è diventato uno dei luoghi preferiti dagli americani. Stanze da 400 dollari minimo e proprietà Habaguanex, una delle aziende turistiche del governo cubano, ai margini dello spettacolare centro coloniale dell'Havana Vieja.  Lo stesso che assaltano come stormi d'uccelli curiosi centinaia di turisti che in questi giorni si spintonano fra le pietre della piazza della Cattedrale e la struggente bellezza dei portici della Plaza Vieja. L'Avana è di moda. E' al centro del mondo con i suoi alberghi che da mesi non hanno più una stanza disponibile e i nuovi visitatori costretti a saggiare gli standard delle "casas particulares", i bed and breakfast privati, che sorgono ovunque  per soddisfare le richieste di alloggio. E la città si offre ai suoi nuovi amanti con i suoi storici gioielli da Luna Park. La "Bodeguita del Medio", dove s'ubriacava Hemingway; il Floridita, altro bar dello scrittore; "l'Ambos Mundo", il suo primo albergo che conserva religiosamente una stanza dove visse. E i ritratti di Che Guevara, le magliette, gli adesivi, le cartoline postali, le borse. Il guerrigliero eroico in ogni dove. E i sigari. E il rum. E il Museo della rivoluzione.

Il nuclueo antico dell'Avana splende di lavori in corso e attende nuovi padroni per riconquistare colori. Sugli edifici sbrecciati e polverosi tanti cartelli bianchi e rossi scritti a mano: "Se vende" (in vendita). Ma la procedura resta complessa: gli stranieri non possono investire negli immobili, l'eventuale compravendita è privilegio dei cubani. Così chi investe non appare, si fida di un prestanome locale. L'affare adesso sono i piccoli alberghi, molto trendy per clienti ricchi ed esclusivi.  Un impreditore italiano che vive qui da anni ci porta in una stradina chiusa dietro la cattedrale e ci mostra quello che sta succedendo. In fondo alla via c'è Doña Eutimia, un ristorante privato specializzato in cucina criolla che già da tempo s'è conquistato un posto sulle guide turistiche. Sei mesi fa non c'era altro. Oggi ci sono altri cinque ristoranti che fanno concorrenza al più famoso, con tanto di buttadentro. L'esplosione del turismo e le timide aperture all'iniziativa privata stanno cambiando il paesaggio cittadino. Promuovendo quel che sperava Obama quando ha accettato la riconciliazione senza chiedere nulla in cambio al regime castrista. La nascita di quella classe media che, dopo quasi sessant'anni d'uniformità socialista, prima o poi reclamerà diritti.

Perfino gli "almendrones" ( i "mandorloni") sembrano risorti. Si chiamano popolarmente così a Cuba le vecchie macchine ancora in vita di prima della rivoluzione, Buick e Chevrolet.  Rimetterli su strada per la gioia dei turisti è un altro degli affari di questi mesi. I dollari per l'operazione arrivano dai parenti di Miami, quelli della diaspora cubana dall'altra parte dello Stretto della Florida.  E' il flusso delle rimesse che aumenta e i cubano americani che iniziano a investire timidamente sui piccoli commerci dei loro familiari sull'isola, scommettendo sul cambiamento. La settimana che si apre con l'arrivo di Obama, si chiuderà con il primo concerto, gratuito, dei Rolling Stones. Ma non tutti guardano senza timori alla pace con gli Stati Uniti. Per esempio, Rey. Un ragazzo che ricorda come a scuola gli abbiano spiegato che l'ultimo americano visto a Cuba prima di Barack e Michelle Obama si chiamava Meyer Lansky, era un luogotenente di Lucky Luciano, e insieme a Batista voleva trasformare Cuba nel resort della mafia. Mambo, prostitute e casinò.  Marta invece è piena di speranze. In fila da Coppelia, la gelateria voluta da Fidel Castro nei giardini del Vedado, dove la incontriamo, ricorda i suoi anni da "Gloria dello sport". Era ginnasta e grazie al suo talento ha avuto una vita agevolata. Nessun doganiere, racconta, si permetteva di ficcare il naso nelle valige di uno sportivo quando andava a gareggiare all'estero. Così lei le riempiva di sigari e rum che rivendeva e tornava a casa con leccornie occidentali per tutta la famiglia. Oggi, a 62 anni, pulisce le stanze di una "casa particular" e il suo fragile benessere dipende dal turismo. Alla vigilia dell'evento - Obama è il primo presidente degli Stati Uniti che visita l'Avana dopo quasi un secolo - i cubani si divertono a scoprire dove andrà seguendo gli operai che asfaltano le strade e riverniciano i palazzi. Il percorso, rimesso a nuovo, l'hanno già battezzato "via Obama".  E lui, il presidente a stelle e strisce, è diventato "Santo Obama" perché il suo arrivo ha fatto scomparire le buche nelle strade.


Subito dopo c'è un altro appuntamento che potrebbe avere conseguenze sul futuro di Cuba. Il 15 aprile si apre il VII Congresso del Pcc, il partito comunista cubano. E sarà anche l'ultima assise con Raúl Castro al potere. Il fratello minore di Fidel, che compirà 85 anni a giugno, ha promesso che si ritirerà nel febbraio del 2018. Le manovre per la successione inizieranno al Congresso dove si dovrà decidere anche in che forme avverrà. L'attuale vicepresidente, per la prima volta, non è un Castro. Si chiama Miguel Diaz-Canel, 55 anni, designato da Raúl nel 2013. Ma i due veri "uomini forti" della leadership di regime sono suoi parenti. Il generale Luis Alberto Rodriguez Lopez-Callejas è suo genero e controlla Gaesa, l'holding delle Forze Armate. Alejandro Castro Espin è suo figlio, e guida l'intelligence. C'è chi spera che la successione a Raúl possa avvenire attraverso una consultazione più larga che coinvolga in qualche modo anche i cittadini e non solo i 14 membri - otto sono militari - del Burò politico del partito. Ma, per ora, sembrano illusioni, visto che il governo cubano ripete che non ha concessioni da fare alla pax americana né sul piano dei diritti civili, né su quello dei diritti umani. Chi non ci sta, oggi emigra più facilmente. Qualcuno, ed è un fenomeno nuovo, perfino torna nella speranza che le aperture vadano lentamente consolidandosi con una nuova politica economica. Ma i più smaliziati fanno notare che, fatte le debite proporzioni, a Cuba stanno nascendo dei mini oligarchi come nei mesi burrascosi della fine dell'Urss.  La maggior parte degli affari del turismo sono in mano alle aziende di Stato e per aprire un bar o un ristorante in una zona privilegiata bisogna essere molto vicini alla nomenclatura.

sabato 27 febbraio 2016

Il sub Marcos non è più un ricercato (Repubblica, 26 febbraio 2016)


Marcos può togliersi il passamontagna, non è più un ricercato. Per la giustizia messicana i reati di cui venne incriminato all'inizio del 1994, durante la rivolta degli indios del Chiapas, sono prescritti e lui è libero da ogni accusa. Ma forse non se lo toglierà il famoso passamontagna nero. Marcos ha sempre spiegato che lui e i militanti zapatisti non lo indossarono per non essere riconoscibili ma per l'esatto contrario: occultando il volto, nella società delle immagini, diventavano visibili. E fu quello che accadde, l'uomo del passamontagna diventò una star internazionale, il nuovo Che Guevara che aveva lasciato un tranquillo incarico di professore di filosofia all'Università di Città del Messico per confondersi con i più poveri, con gli indios del Chiapas, nell'estremo sud del Paese, nella foresta al confine con il Guatemala. Ad elevarlo nel ruolo di eroe della sinistra ci pensò subito un'eretica appassionata come Danielle Mitterrand, la vedova dell'ex Presidente francese, che per prima aprì il pellegrinaggio degli intellettuali europei alla corte del nuovo messia. Quando nel '96, di ritorno a Parigi, chiesero a Danielle cosa c'era sotto il passamontagna rispose: "Il mistero deve restare intatto, e essere rispettato. L'identità dell'uomo sotto la maschera chiamato Marcos non ha importanza: qualunque cosa accada resterà sempre vivo". E la moda scoppiò, tutti s'interessavano del Chiapas. Ci andò persino Fausto Bertinotti, ribattezzato "subcomandante Fausto", quand'era presidente della Camera. Ci andarono Gabriel García Márquez, Eduardo Galeano e Noam Chomsky.

Il governo messicano, invece, s'impegnò fin dall'inizio a svelare l'enigma, nella convinzione che se fosse riuscito a dare una faccia al cavaliere errante che dava voce agli esclusi, avrebbe ridotto l'impatto mediatico delle sue idee fino a renderlo prosaico. Si mosse l'intelligence e si pagarono spie e traditori, finché, nella primavera del 2001, il segreto sulla sua identità cadde. Marcos, che si faceva chiamare "sub", cioé "sotto", perché il vero potere risiede nel popolo e non nel comandante, era un ex studente, e poi professore associato di filosofia, dell'Università più famosa della capitale messicana, la Unam, quella pubblica. Si chiamava Rafael Sebastian Guillén, era nato, quarto di otto figli, a Tampico, nello Stato di Tamaulipas, il 10 luglio del 1957. Proveniva da una famiglia di media borghesia, i suoi genitori possedevano alcuni negozi di mobili, e aveva anche due sorelle molto impegnate in politica. Ma dalla parte sbagliata, nel Pri, il partito del governo. Poi si scoprì che aveva vissuto in Europa e che aveva lavorato al Corte Inglés, la catena di grandi magazzini spagnoli, dai quali era stato licenziato perché vendeva i prodotti ad un prezzo inferiore a quello riportato dall'etichetta. Robin Hood fin da giovanissimo prima di incontrare il suo destino nella difesa degli ultimi indigeni messicani.
Lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, che viaggiò diverse volte in Messico per incontrarlo, raccontava che Marcos era ghiotto di salame catalano e gli chiedeva sempre di portargliene un po'.


A quei tempi Marcos interveniva su tutto e aveva relazioni epistolari con gli intellettuali di sinistra d'America e d'Europa, iniziando sempre le sue lettere con una data molto evocativa che faceva sognare: "dalle montagne del sud est messicano". Pubblicava libri di favole per bambini e un romanzo poliziesco, scritto a quattro mani con Paco Taibo II, Morti scomodi. Poi cominciò a svanire tra l'ombra e l'oscurità della selva. Le sue dichiarazioni si diradarono e nel 2007 annunciò che avrebbe smesso di parlare per un po'. I rumors dicevano che era gravemente malato, che aveva un cancro ai polmoni, che forse era anche già morto. In realtà, ma questo si seppe dopo, aveva contratto una malattia dell'apparato respiratorio tipica di chi vive a lungo nella selva ed era peggiorata la sua asma. Per molti anni non si seppe più nulla del subcomandante, fino al 2014, quando riapparve in pubblico per annunciare che Marcos non esisteva più, che lui non era più il portavoce degli zapatisti e che aveva cambiato nickname in onore di un compagno morto e adesso si chiamava Galeano. Del personaggio di Marcos disse che era una "marionetta grottesca" e che non era più necessario. Confessò che la conquista di San Cristobal de las Casas nel 1994 fu frutto di una improvvisazione, così come l'idea del passamontagna, e che non aveva mai pensato di diventare quel che diventò. Poi scomparve di nuovo. La sua ultima apparizione pubblica risale al maggio dell'anno scorso quando partecipò ad una cerimonia in ricordo di Luis Villoro, filosofo messicano suo amico morto qualche mese prima. Le uniche cose certe che si sanno di lui è che ha una figlia, Mariana, che vive a Parigi, e una compagna, Silvia Fernandez, militante zapatista. In fondo, come voleva Danielle Mitterrand, il segreto è ancora intatto. Lo possiedono gli indios del Chiapas che in questi vent'anni hanno conquistato molta autonomia anche se qualcuno dubita che fosse la strada giusta contro l'emarginazione.

domenica 21 febbraio 2016

Un Referendum è per sempre (Il Venerdì di Repubblica, 19 febbraio 2016)


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI


COCHABAMBA. "Molte luci ma altrettante ombre", dice Mabel Azcui quando le chiediamo un giudizio sui dieci anni al potere di Evo Morales, il primo presidente indio della Bolivia. Mabel è una veterana del giornalismo boliviano, per oltre trent'anni corrispondente del quotidiano spagnolo El País, è in rotta di collisione con il governo di Evo, "Evito" per i numerosissimi fan, da quando, tempo fa, pubblicò un articolo sarcastico nel quale prendeva in giro il presidente per le numerose Lauree honoris causa che gli sono state concesse nel decennio da ben ventitré Università, 17 straniere, compresi atenei russi, cinesi e italiani, e 6 locali. "Il giorno dopo la pubblicazione del pezzo - ricorda - chiamai un portavoce per verificare una informazione e  mi appesero il telefono. Nessuna fonte nel governo accettava più di parlare con me. Come giornalista ero fritta". Tra le delusioni di Mabel, che ricorda l'arrivo a Palazzo Quemado, la residenza presidenziale a La Paz, di Morales nel 2006, come una rivoluzione democratica che mise a soqquadro il Paese, travolgendo l'oligarchia bianca e filo americana a favore della maggioranza di indios e meticci, ci sono il culto della personalità promosso dalla propaganda e una concezione piuttosto muscolosa dei rapporti politici, "un autoritarismo arrogante", sottolinea, che non ammette critica o dissenso.

In queste settimane Morales è di nuovo in campagna elettorale. Dopo aver vinto le presidenziali per la terza volta consecutiva nell'ottobre del 2014 con il 61 percento dei suffragi l'ex sindacalista cocalero ha deciso di cambiare di nuovo la Costituzione - lo fece già nel 2009 - per potersi ricandidare all'infinito, nel 2019, e poi nel 2024. Per questo, domenica prossima, i boliviani saranno chiamati a rispondere a un plebiscito, "sì" o "no" alla perpetuità di Evo, che ha 57 anni, finché vita glielo consenta. 

Questa tentazione del presidente a vita, incapace di smettere di esserlo lasciando spazio a un successore, magari un allievo o un socio politico, è una prerogativa avvelenata del populismo latinoamericano dalla quale, aveva notato lo scrittore argentino Martin Caparrós, Morales sembrava immune. Tutto meno che un altro caudillo. Un dirigente di poveri cocaleros, i piantatori della coca, la foglia sacra che gli indios masticano da secoli per vincere fame e fatica, trascinato al potere da una rivolta nazionale in difesa delle risorse naturali - soprattutto il gas - e della Pachamama, la Madre Terra degli aymara, che le multinazionali volevano sventrare e saccheggiare ancora come durante la colonizzazione spagnola. E invece anche Evo adesso vuole diventare un imperatore delle Ande perché la nuova Bolivia non può fare a meno di lui. I sondaggi sbandano. Non si mettono d'accordo. Alcuni sostengono il 55 percento dei boliviani sono contrari a una nuova rielezione, altri il contrario. Lo storico Fernando Molina dice che dipende dalle zone rurali, gli altipiani andini, dove Evo, al contrario dei centri urbani delle pianure, è più forte ma che le ricerche dei sondaggisti raggiungono con difficoltà. "Secondo me alla fine vince", sentenzia Molina.

Morales ha già governato la Bolivia per più tempo di chiunque altro dall'indipendenza (1825). A gennaio ha battuto il maresciallo Andrés de Santa Cruz, uno dei fondatori della repubblica, che nell'800 governò per nove anni, otto mesi e ventiquattro giorni. In dote, per convincerli a votare "sì", Evo porta questo lungo periodo di stabilità e un decennio economico straordinario, nel quale, grazie all'alto prezzo delle materie prime - la Bolivia esporta gas, petrolio e minerali - il Pil è cresciuto a una media superiore al 5 percento annuo. Mabel riconosce che il governo ha fatto molto per redistribuire la ricchezza, programmi sociali per le comunità più povere, un salario ai più giovani, ma - dice - "hanno costruito più campetti di calcio (Evo è un tifoso sfegatato) che centri sanitari". E tante opere d'infrastruttura gigantesche e inutili che il presidente nel fervore della campagna elettorale continua a inaugurare in lungo e in largo. A Chimoré, tra i suoi cocaleros del Chapare, Morales ha fatto costruire un aeroporto internazionale con una pista d'atterraggio di 4 chilometri per i grandi Boeing al lato di un paesino di 21 mila abitanti. A Orinaca, altro paesotto non lontano da Cochabamba nella sua terra natale, è pronto un Museo di tre edifici che dovrà celebrare la rivoluzione democratica, l'opera del presidente, e la Bolivia dei sogni, quella pre-ispanica dove c'erano solo gli indios. "Gigantismo sfacciato dell'intervento statale per l'abbondanza delle esportazioni ma nessuna idea, né investimento per il futuro", dice Oscar Ortiz, 47 anni, uno dei leader dell'opposizione, che aggiunge: "Quando tra meno di dieci anni non avremo più gas da estrarre e esportare, di quale economia vivremo?".  Analisi che in parte condivide anche Molina quando sottolinea la "sindrome olandese" dell'economia boliviana di questi anni con l'accelerazione nello sfruttamento delle risorse naturali unito al declino degli altri settori dell'economia. Come il Venezuela chavista ubriaco di petrolio, la Bolivia di Evo oggi importa troppo grazie all'opulenza del suo bilancio statale ma produce troppo poco. E siccome la festa delle commodities è finita lo spettro della crisi del modello è dietro l'angolo. L'ennesimo decennio perduto dell'America Latina incapace di riconvertire le sue economie finché ne ha la possibilità e le sue risorse naturali hanno un valore nei mercati di Londra e New York.

Martin Sivak, il biografo ufficiale di Morales, dice che la relazione del presidente con il potere è quella del sacrificio. Evo non va mai in vacanza, non ha giorni liberi né vita familiare e lavora sempre al limite delle sue possibilità fisiche, dorme pochissimo e si nutre soltanto di zuppe di pesce. Divorziato e scapolo dice: "Sono sposato con la Bolivia". Alcuni critici lo attaccano perché, dicono, non delega nulla, concentra su di sé qualsiasi scelta. Altri per le sue contraddizioni segnalando che l'aspirazione al ritorno alla Bolivia pre-ispanica, il socialismo, l'impronta ecologista, è solo romanticismo per i creduloni. Nel Pantheon di Evo ci sono Che Guevara, Fidel Castro, Chávez e tutta la parafernalia bolivariana ma per governare ha stretto un patto di non belligeranza con gli industriali di Santa Cruz che con i loro soldi minacciavano la sua egemonia politica. Poi ci sono gli scandali che iniziano a emergere. Su tutti quello del "Fondo indigeno", un ente creato e finanziato per promuovere iniziative tra le comunità indios più disastrate, le cui risorse si sono disperse in mille rivoli nei conti correnti personali di funzionari vicini al governo. E l'ultimo, quello di una ex amante del presidente finita nel consiglio direttivo di un'impresa cinese che ha vinto miliardi in commesse pubbliche. Alla lunga la disillusione della base indigena e quella delle classi medie urbane può diventare fatale per il progetto di Evo, che per ricostruire la sua Bolivia pre-ispanica, dove tutti i funzionari dello Stato dovranno parlare almeno una lingua nativa, quechua o aymara soprattutto, e gli orologi girare al contrario,  vuole restare a Palazzo Quemado almeno fino al 2025, l'anno del bicentenario dell'indipendenza nazionale. Ma oggi, con i conti macroeconomici sostanzialmente in ordine, Morales sembra avere solo una spina nel fianco, l'agognato sbocco sovrano sul mare, quello perso nella Guerra del Pacifico del 1879, che i cileni si rifiutano di restituire. La rivendicazione marittima è diventata materia obbligatoria nelle scuole boliviane con un apposito libro di testo. Ma la riconquista, per la quale La Paz s'è rivolta ai tribunali internazionali, sembra ancora lontana.