L’uomo che guida la sfida secessionista di Barcellona è un
economista di 56 anni cresciuto all’ombra del padre-padrone del nazionalismo
catalano, Jordi Pujol, governatore della regione per 23 anni consecutivi
(1980-2003), dalla rinascita della Generalitat – il governo autonomo – con il
ritorno della democrazia in Spagna. Tenace, equilibrato, bello, onesto,
lavoratore, austero: sono alcuni degli aggettivi utilizzati per definirlo dai
suoi colleghi di partito, quelli di Convergéncia i Uniò, la coalizione del
centro destra catalano che Artur Mas presiede dal 2004. Mentre i suoi
avversari, soprattutto quelli del Psc, il partito socialista regionale,
preferiscono connotarlo come “presuntuoso, superbo e prepotente”, “un candidato
robot”, “rigido, insicuro e anche un po’ anonimo”. Artur Mas ha impiegato sette
anni per riportare CiU ai livelli di popolarità degli anni di Pujol, e dopo due
solenni sconfitte, nel 2010 ha vinto le elezioni. Tre figli, educato nei
migliori collegi di Barcellona, una laurea in economia, gran tifoso del Barça
di Iniesta e Messi, amante della letteratura francese (il suo libro preferito è
“il piccolo principe” di Saint Exupéry), sportivo appassionato (tennis, vela e
sci), è soprattutto un tecnocrata che deve la sua fortuna politica a Marta Ferrusola,
la moglie di Jordi Pujol, che lo accolse nel circolo intimo della famiglia più
potente del nazionalismo catalano e lo indicò come “hereu”, il lingua catalana
“l’erede”. Il delfino scelto per la sua fedeltà al capo e per un aspetto – si
disse – kennedyano, più che per le sue idee.
Ma dalla vittoria elettorale del 2010, Artur Mas ha messo il
piede sull’acceleratore avviando con il resto della Spagna un duello dall’esito
piuttosto incerto. Messa da parte la famosa moderazione di Pujol – che anche
quando ebbe il 60% dei suffragi in Catalogna, era solito rispondere ai più
radicali nel suo partito: “Abbiate pazienza, prima o poi saremo indipendenti” –
Mas ha innalzato la bandiera dell’autosufficienza e dello Stato sovrano, fuori
dalla Spagna. Un salto in avanti che preoccupa (moltissimo) gli industriali
catalani ma che piace (moltissimo) a tutti gli altri.
Fino all’avvento di Mas le rivendicazioni nazionaliste erano
sempre state usate dai governi di Barcellona come una forma di ricatto per
ottenere a Madrid condizioni migliori: più fondi, più autonomia, più
autogoverno. Oggi lo scenario è
cambiato almeno per un paio di motivi. Il primo colpo al precario matrimonio
d’interessi fra Barcellona e Madrid arrivò con il boicottaggio dei prodotti
catalani – il famosa Cava, lo spumante, su tutti – promosso dalla destra
iberica mentre si negoziava il nuovo Statuto d’autonomia. Il secondo fu, due
anni fa, la sentenza del Tribunale costituzionale spagnolo contro il nuovo
Statuto e, soprattutto, contro quella norma che voleva il riconoscimento
dell’uso del catalano come prima lingua nelle scuole e nell’amministrazione
pubblica. Uno schiaffo che ha deluso e indignato Barcellona. L’ultima botta è
la crisi, il deficit regionale, i tagli al bilancio. Tutti guai che i politici
locali attribuiscono al nemico, lo Stato spagnolo che non restituisce alla
Catalogna tutto quello che i catalani versano in tasse.
Così è nata la rivendicazione del patto fiscale, uno strappo
che Madrid non può accettare e che, nell’idea di Artur Mas, sarebbe il
completamento dell’autonomia regionale con la nascita di un ministero delle
Finanze catalano per riscuotere direttamente le tasse. E’ per questo che lo
scorso 11 settembre oltre un milione di persone hanno sfilato per le vie di
Barcellona sotto le bandiere rosso e oro del nazionalismo e, proprio durante la
manifestazione, l’ex tecnico del Barça, Pep Guardiola, amatissimo dal popolo
catalano, è apparso in collegamento video da New York con in mano il libretto
verde della Catalogna libera. Un anno fa, nello stesso giorno, quello della
Diada, la festa nazionale, erano meno di diecimila. “Se Rajoy – il presidente
del governo spagnolo – non dovesse accogliere le nostre richieste,
intraprendere il nostro cammino verso la libertà – leggi indipendenza – sarebbe
inevitabile”, ha detto Mas. E se, per caso, acconsentisse? Chissà. A nessuno è
chiaro se la sfida di Mas è solo l’ennesima prova di forza o se invece prelude
scelte irrimediabili come l’avvio di una secessione. La tensione a Madrid è
forte. Perfino re Juan Carlos ha lanciato un forte appello all’unità del paese.
Nel suo primo messaggio politico sul nuovo sito web della Casa Reale, il re ha
esortato gli spagnoli “a lavorare insieme per affrontare la crisi economica”
invece di perseguire delle “illusioni”.
“Questo è un momento decisivo in cui possiamo salvare o rovinare il
nostro benessere – ha detto il re -. La cosa peggiore che possiamo fare è
dividere le forze, perseguire illusioni, riaprire ferite”.
L’eventuale marcia verso un divorzio – “pacifico e
consensuale”, dice Mas – è irta di spine. Anni fa il Tribunale Costituzionale
bocciò la convocazione di un referendum sull’indipendenza nei Paesi Baschi che
non si tenne perché avrebbe violato la Costituzione (articolo 149). Oggi il
panorama potrebbe essere diverso: secondo un sondaggio la maggioranza degli
spagnoli non sarebbe contraria all’indipendenza della Catalogna anche se essi
sono – sempre a maggioranza – convinti che sarebbe un errore e una disgrazia
per la Spagna e per la Catalogna. I più contrari sono gli imprenditori che
vendono i loro prodotti nel resto del paese e temono boicottaggi e sanzioni.
“Esportate di più nel resto del mondo, non in Spagna”, li
incita il governatore. Artur Mas ama definirsi “austero e risparmiatore”, un
calvinista. Avrà bisogno di queste qualità. Lui e i suoi elettori. Con i debiti
da pagare e i titoli catalani ridotti a junk bond, i prossimi mesi non saranno
facili per chi sogna di diventare finalmente nazione.