domenica 30 dicembre 2012

Chavez, l'autunno del Comandante (Rep. 4/10/2012)

L' autunno del Comandante / Dove nasce (e muore) il mito di Chavez

DAL NOSTRO INVIATO OMERO CIAI

CARACAS - NEL 1998, la prima volta, Chávez vinse le elezioni con il 16 per cento di vantaggio sul suo avversario. Nel 2000 con il 22 per cento. Nel 2006 con il 26. Una marcia trionfale.
In quattordici anni non ha mai perso se si esclude il referendum costituzionale del 2007 nel quale chiedeva pieni poteri e venne sconfitto per un soffio. Perché mai oggi di fronte al suo quarto mandato molti osservatori si sono convinti che potrebbe anche perdere? Di certo c'è il logorio del potere. Capriles ha quarant'anni (diciotto di meno del presidente), un'immagine giovanile, onesta, sportiva con il berretto da baseball (sport nazionale) e le scarpe da ginnastica. E aspira a rappresentare il "cambiamento". Chávez è la continuità, concetto di per sé perdente in una società giovanissima come quella venezuelana. Poi è anche malato. Ha sempre la faccia gonfia. Dicono per gli steroidi che prende per superare i dolori e l'handicap fisico di un sarcoma incurabile che è da due anni un assoluto "segreto di Stato". Poi Capriles è riuscito ad unificare intorno a sé tutti i mille rivoli dell'opposizione, da destra a sinistra. Damas ha poco meno di cinquanta anni e fa il contabile per lo Stato. È cresciuto nel "23 de enero", il quartiere più chavista della capitale nel profondo sud di Caracas. Il "bastione ribelle", dicono qui, perché questa fila di casermoni paralleli da dieci e più piani è stata sempre piena di comunisti, anarchici e socialisti. Il sobborgo venne costruito alla fine degli anni Cinquanta quando un dittatore visionario e "di sinistra", Perez Jimenez, intraprese un ampio programma di edificazione popolare per cancellare dalla città i "ranchos", le favelas che ancora oggi s' arrampicano sulle colline. In realtà doveva servire per alloggiare militari di basso rango ma venne occupato da migliaia di famiglie di poveri e poverissimi. Da allora, e per più di quarant' anni, fino all' arrivo di Chávez - racconta Damas - due settimane prima del voto il "23 de enero" veniva occupato dall' esercito che imponeva il coprifuoco. Le urne con i voti di solito riemergevano da qualche burrone dov' erano state gettate qualche giorno dopo le elezioni. «Quarant' anni d' imbrogli elettorali contro di noi», dice Damas.
Non è più così da quando il "caudillo rosso" ha trovato il suo popolo di elettori fedelissimi in queste vallate e la «rivoluzione bolivariana avanza». Damas s' è operato a Cuba. Alla colonna vertebrale. Un intervento che non avrebbe potuto pagare e che ha fatto gratis grazie all' accordo di scambio con l' Avana: petrolio a costo zero per Raùl, medici e operazioni per il Venezuela. Poi ci fa vedere i suoi occhiali da vista, anche quelli gratis grazie a Chávez e la mazzetta dei "cesta ticket", i buoni alimentari mensili da 200 euro cui hanno diritto tutti per comprare, sempre gratis, in tutti i supermercati. Attirati dal dialogo di fronte ad un baretto scalcinato che distribuisce birra e rum, a Damas si sono aggiunti altri residenti del "bastione ribelle": Armando, Jaime, Roberto e Merwin, il più giovane, che snocciolano tutto il bene che «il socialismo del XXI secolo» ha fatto per il loro quartiere. Hanno la radio comunitaria pagata dal governo e stanno installando pure una televisione tutta per loro; poi c' è "Info centro", il palazzetto informatico dove possono collegarsi a internet; e il centro sanitario, con medici cubani naturalmente, con l' ambulatorio che riceve a qualsiasi ora. E poi i libri gratuiti per i bambini che vanno a scuola e per i grandi. Chávez ha fatto distribuire milioni di copie della nuova Costituzione («qui la conosciamo tutti a memoria», chiosa Damas) e, per le ore di tedio, altri milioni di libri del "Don Chisciotte". Mentre il canale tv nazionale (vtv), superoccupato dai chavisti, ha iniziato a produrre anche telenovelas come "Barrio Sur" (quartiere sud) dove tutta l' azione si svolge nei quartieri popolari. A casa di Damas la rivoluzione ha anche portato il gas diretto e qualche imbarazzo si nota solo quando si parla di politica e delle ambigue alleanze internazionali di Caracas. Iran, Russia, Bielorussia... Finché uno di loro sbottae dice: «Meglio l' Iran degli ayatollah che il demonio Usa». È lo sguardo strabico della vecchia sinistra latinoamericana con "Satana" che sono le multinazionali americane perché hanno depredato fin quando hanno potuto il "cortile di casa" e la terra promessa fa rima con L' Avana, il ' 59, Castro e Che Guevara. Al "23 de enero", Henrique Capriles, il giovane avversario di Chávez, viene percepito come l' ennesima reincarnazione dell' aristocrazia venezuelana, "los escualidos" (gli squallidi), che vogliono tornare al potere per riprendere il controllo sull' unica cassaforte del paese, Pdvsa, l' holding statale del petrolio, che oggi fornisce a Chávez tutti i fondi che, nel bene e nel male, redistribuisce. «Per farlo meglio e a favore di tutti», dice Capriles che ha puntato tutte le sue carte sulla riconciliazione del paese dopo anni nei quali Chávez ha giocato ad aizzare una metà contro l' altra. Nel 1998, la prima volta, Chávez vinse le elezioni con il 16 percento di vantaggio sul suo avversario. Nel 2000 con il 22 percento. Nel 2006 con il 26 percento. E domenica prossima si torna al voto. Per Chavez è stata fin qui una marcia trionfale. In quattordici anni non ha mai perso se si esclude il referendum costituzionale del 2007 nel quale chiedeva pieni poteri e venne sconfitto per un soffio. Perché mai oggi di fronte al suo quarto mandato molti osservatori si sono convinti che potrebbe anche perdere? Di certo c' è il logorio del potere. Capriles ha quarant' anni (diciotto di meno del presidente), un' immagine giovanile, onesta, sportiva con il berretto da baseball (sport nazionale) e le scarpe da ginnastica.E aspiraa rappresentare il "cambiamento". Chávez è la continuità, concetto di per sé perdente in una società giovanissima come quella venezuelana. Poi è anche malato. Ha sempre la faccia gonfia. Dicono per gli steroidi che prende per superare i dolori e l' handicap fisico di un sarcoma incurabile che è da due anni un assoluto "segreto di Stato". Poi Capriles è riuscito ad unificare intorno a sé tutti i mille rivoli dell' opposizione, da destra a sinistra, e promette di combattere una piega che duole molto: assalti, omicidi, sequestri. In questi anni Caracas è diventata la seconda città più pericolosa dell' America Latina con una media di 80 assassinii ogni 100mila abitanti. Trecento morti ammazzati ogni weekend. Ma il vero scontro in questo voto che sembra essere diventato "la madre di tutte le elezioni", per le conseguenze anche geostrategiche che potrebbe avere una sconfitta della rivoluzione bolivariana, è sul modello economico. È vero che Chávez è riuscito a migliorare le condizioni di vita delle fasce più povere. Ma restano poveri e dipendono completamente dallo Stato. Qualche dato: in dieci anni l' industria privata s' è contratta di un terzo, sono morte 4mila imprese su 11mila. È scesa brutalmente la produzione tessile, quella meccanica (auto e altro) e quella agricola. Oggi l' 80 percento dei prodotti che vengono consumati nel paese sono importati. Perfino la benzina raffinata. E sono cresciuti a dismisura burocrazia e impiego statale. I ministeri sono diventati ventinovee gli impiegati nel petrolio, Pdvsa, sono cresciuti da 32mila, nel 1998, a 105mila oggi mentre la produzione di greggio è la stessa o è diminuita. Molte fabbriche sono state nazionalizzate e dipendono anch' esse dallo Stato. L' inflazione è la più alta del sub continente, il 28 percento nel 2011, più o meno lo stesso quest' anno.È il ritorno miracoloso - grazie al prezzo del greggio - del "Venezuela Saudita" degli anni Settanta con grande sperpero di denaro pubblico e profonda corruzione. Il controllo sul cambio spiega una parte del malessere anche se non contagia la qualità della vita della classe medio-bassa. Ai venezuelani è proibito cambiare più di 400 dollari all' anno e, se viaggiano in vacanza all' estero, possono usufruire di una carta di credito statale con 2.500 dollari. Lo stesso vale per le imprese che importano prodotti che devono essere autorizzate dal governo. Questo ha fatto esplodere il mercato illegale del cambio del dollaro dove la moneta Usa vale tre volte rispetto al cambio ufficiale e, in sostanza, creato anche la "boliborghesia" (borghesia bolivariana) rappresentata da chi, grazie alla prossimità con il potere, può importare merci comprando i dollari calmierati (che indebitano le casse statali) mentre tutti gli altri devono finanziarsi al mercato nero. Infine, gioielli del Patriarca, ci sono i fondi di investimento stranieri che Chávez gestisce in assoluta solitudine senza alcun controllo reale. Sono accordi sottoscritti con la Cina, la Libia, la Siria, la Bielorussiae l' Iran nei quali questi paesi versano milioni di dollari in cambio delle forniture di idrocarburi (greggio e gas). Negli ultimi giorni, dopo che Capriles ha conquistato Caracas e ha riempito la storica avenida Bolivar con decine di migliaia di oppositori, la campagna è diventata all' improvviso molto incerta. Oggi, sul palcoscenico della Bolivar, tocca ai chavisti ma è probabile che nessuno dei due candidati sappia per certo come andrà davvero a finire. Lo stratega di Chávez è un brasiliano. Joao Santana, quello che ha riportato al potere Lula nel 2006 e trascinato una sconosciuta Dilma Rousseff al successo nel 2010. Santana ha ammorbito le parole d' ordine. Meno rivoluzione, più cuore, patria e amore. Per riassorbire tutti quegli indecisi infastiditi dalle derive estremiste e intolleranti del chavismo o delusi dalle promesse mancate. Anche lo spin doctor di Capriles è brasiliano. Marcelo Simöes, più giovane, vivace e aggressivo di Santana. Se non ci fosse di mezzo l' ideologia, Capriles che promette di conservare e migliorare tutti i programmi sociali (le misiones) realizzati da Chávez avrebbe già vinto la partita. Per Damas e i suoi amici del "23 de enero" è troppo difficile dimenticare quando si svegliavano con i soldati sulla porta di casa e i loro voti finivano nel burrone. Ma comunque sia, l' autunno del comandante invincibile è cominciato e lo sanno anche loro.

domenica 4 novembre 2012

"Così feci nascere Gabo", rep cultura 5 marzo 2007



L' anno magico di Gabriel Garcia Marquez si apre domani con il suo ottantesimo compleanno, prosegue con il quarantesimo anniversario della pubblicazione, a Buenos Aires nel maggio 1967, dei Cent' anni di solitudine, e si chiude a ottobre con i venticinque anni dall' assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1982. Un "anno breve" - soltanto sette mesi - che con sincronismo fatale contiene e riassume l' avventura di un mito vivente della letteratura. «Un genio verbale», come lo ricorda Francisco Porrua, il papà dei Cent' anni, direttore della casa editrice "Sudamericana" che lo mandò in stampa dopo aver letto le prime cinque righe del nuovo romanzo.


Nel 1967 lei conosceva Garcia Marquez? 

«Assolutamente no. In quell' epoca eravamo a caccia di romanzi latino americani originali. Che non fossero repliche o opere simili né ai classici, né all' avanguardia europea. Cercavamo una letteratura con caratteri propri, indigeni. E incontrammo Garcia Marquez. All' inizio del 1967 un amico mi diede da leggere una novella breve, Nessuno scrive al colonnello, e siccome mi piacque mandai una lettera all' autore per chiedere se potevo pubblicarla in Argentina. Qualche settimana dopo egli mi scrisse che aveva già venduto i diritti ma che, se volevo, avrei potuto pubblicare una cosa nuova che stava finendo di scrivere. Così arrivarono i Cent' anni a Buenos Aires». 

S' immaginò il successo che avrebbero avuto? 

«Mentirei se rispondessi di sì. Quello che ricordo è che decisi che l' avremmo pubblicato dopo aver letto soltanto le prime righe, la prima pagina. Però ricordo anche che Marquez aveva accettato di stamparne anche solo tremila copie mentre noi ne stampammo subito ottomila. Andarono esaurite in meno di quindici giorni». 

Quanto fu importante per il successo del libro pubblicare a Buenos Aires piuttosto che in un' altra capitale di lingua spagnola?

 «Sul finire degli anni Sessanta Buenos Aires era già una metropoli piuttosto vivace con un grande numero di lettori, di appassionati molto attenti alle novità editoriali. C' era molto teatro, molto cinema e c' erano anche delle riviste letterarie importanti che apprezzarono e promossero subito il libro di Garcia Marquez. Fra i Cent' anni e il pubblico di Buenos Aires si produsse un cortocircuito straordinario e raro come un' eclissi. Dopo qualche settimana tutta la città lo stava leggendo. Non ho idea di cosa sarebbe potuto succedere se fosse stato pubblicato da un' altra parte ma senza alcun dubbio fu Buenos Aires a decretarne il successo e a lanciare il romanzo in tutto il mondo. Furono, quelli, anni molto speciali e durarono anche molto poco. Già all' inizio del decennio successivo il clima culturale cambiò in fretta: terrorismo, lotta politica, golpe militare. Un' altra epoca geologica. Ma alla fine dei Sessanta Buenos Aires era la città che meglio poteva accogliere un libro come quello».

 A un certo punto finì la carta per stamparne nuove copie... 

«Sì, finimmo le riserve di carta e non sapevamo dove trovarne altra. Ci toccò chiederla in prestito ad altre case editrici e acquistarne fuori dall' Argentina per continuare a stampare nuove edizioni del libro con quei ritmi. Durante tutto l' inverno australe e poi fino a metà dell' anno successivo dei Cent' anni se ne vendevano mille copie ogni giorno». 

Garcia Marquez è un uomo molto riservato. Molto raramente concede interviste, non si mostra in pubblico neanche quando escono i suoi libri e sembra piuttosto infastidito dalle attenzioni che la fama gli riserva. Era così anche allora? 

«È timido e sospettoso. Ricordo che quando venne a Buenos Aires quell' anno e ci conoscemmo si sentiva sinceramente oppresso dalle attenzioni del pubblico. La gente lo fermava per la strada e lui non sapeva cosa fare. Una sera andammo in un teatro e durante l' intervallo qualcuno che l' aveva riconosciuto salì sul palco e disse che in sala c' era l' autore dei Cent' anni di solitudine. Venne letteralmente giù il teatro: tutti si alzarono in piedi per applaudirlo. Erano tutti suoi lettori e lui era la cosa più alla moda che c' era in città. Se poi vuol sapere quanto il successo lo abbia cambiato, non saprei. La mia impressione è sempre stata che il Garcia Marquez uomo comune e il Garcia Marquez scrittore siano identici. Coincidono. Anche l' uomo comune è un genio verbale che comunica attraverso metafore».

 Da quella volta in cui lei lo invitò nel 1967 egli non è mai più tornato a Buenos Aires. Come neppure è mai tornato - almeno pubblicamente - nei luoghi dell' infanzia, quelli che ispirarono le atmosfere dei Cent' anni come Aracataca e la Sierra di Santa Marta. Ne conosce la ragione?

 «Una volta gliel' ho domandato. C' è sicuramente un po' di superstizione ma soprattutto c' è il timore di rivedere un luogo nel quale sono accadute cose straordinarie e scoprirlo diverso da come si ricorda. È un modo per proteggersi. Per lui vedere Buenos Aires diversa dalla città che lo trasformò in un mito letterario non avrebbe senso».

 Borges disse che il libro non gli piaceva perché c' erano almeno cinquanta pagine di troppo. Era invidioso? 

«Non credo. Io ero anche il suo editore e non ne parlammo mai. Però è vero che Borges odiava i romanzi e che, in molti casi, i suoi giudizi sui contemporanei erano conseguenza dei suoi capricci. Borges non era capace di scrivere romanzi e probabilmente neppure di leggerli. Lui amava Kafka perché aveva scritto racconti brevi».

 Lei ha pubblicato, per primo in spagnolo, almeno tre dei libri più venduti nel ventesimo secolo. Le Cronache marziane di Bradbury, i Cent' anni e Il Signore degli anelli. Solo fortuna? 

«Non lo so, erano altri tempi. Non ho mai scelto un libro pensando al suo valore commerciale. Pubblicavo soltanto se mi piaceva e ho sempre pensato che il valore commerciale di un libro si può valutare solo nel tempo. È meglio un romanzo che vende centomila copie subito o un altro che vende per cinquant' anni? Ovviamente il secondo. E allora bisogna guardare al suo valore letterario. Se c' è quello, qualsiasi investimento vale la pena. Oggi l' industria editoriale ha altri principi e altri obiettivi che io non condivido più. Ma ho sempre lavorato pensando che l' editore è un "signor Nessuno" rispetto all' autore e tale deve rimanere. Ancora oggi, quando mi invitano da qualche parte scrivono: "Francisco Porrua, l' editore dei Cent' anni di solitudine". Per me è diventato come un secondo nome. Quando pubblicai Gabo ero un impiegato e prendevo uno stipendio come direttore editoriale. Quindi non ci guadagni una lira ed è stato giusto così». 

Si dice che i Cent' anni siano il Don Chisciotte del ventesimo secolo. È d' accordo? 

«Non amo i paragoni. Penso che il capolavoro esista quando l' autore costruisce un universo proprio, tale che non possa essere paragonato con quello di nessun altro. Poi bisogna aggiungere che l' opera di Marquez ebbe una importanza straordinaria perché fece nascere il famoso boom dei latino-americani e quindi fece conoscere in tutto il mondo una letteratura nuova e assolutamente originale».

giovedì 27 settembre 2012

"Re" Artur sfida Madrid, repubblica sera 18 settembre 2012




L’uomo che guida la sfida secessionista di Barcellona è un economista di 56 anni cresciuto all’ombra del padre-padrone del nazionalismo catalano, Jordi Pujol, governatore della regione per 23 anni consecutivi (1980-2003), dalla rinascita della Generalitat – il governo autonomo – con il ritorno della democrazia in Spagna. Tenace, equilibrato, bello, onesto, lavoratore, austero: sono alcuni degli aggettivi utilizzati per definirlo dai suoi colleghi di partito, quelli di Convergéncia i Uniò, la coalizione del centro destra catalano che Artur Mas presiede dal 2004. Mentre i suoi avversari, soprattutto quelli del Psc, il partito socialista regionale, preferiscono connotarlo come “presuntuoso, superbo e prepotente”, “un candidato robot”, “rigido, insicuro e anche un po’ anonimo”. Artur Mas ha impiegato sette anni per riportare CiU ai livelli di popolarità degli anni di Pujol, e dopo due solenni sconfitte, nel 2010 ha vinto le elezioni. Tre figli, educato nei migliori collegi di Barcellona, una laurea in economia, gran tifoso del Barça di Iniesta e Messi, amante della letteratura francese (il suo libro preferito è “il piccolo principe” di Saint Exupéry), sportivo appassionato (tennis, vela e sci), è soprattutto un tecnocrata che deve la sua fortuna politica a Marta Ferrusola, la moglie di Jordi Pujol, che lo accolse nel circolo intimo della famiglia più potente del nazionalismo catalano e lo indicò come “hereu”, il lingua catalana “l’erede”. Il delfino scelto per la sua fedeltà al capo e per un aspetto – si disse – kennedyano, più che per le sue idee.
Ma dalla vittoria elettorale del 2010, Artur Mas ha messo il piede sull’acceleratore avviando con il resto della Spagna un duello dall’esito piuttosto incerto. Messa da parte la famosa moderazione di Pujol – che anche quando ebbe il 60% dei suffragi in Catalogna, era solito rispondere ai più radicali nel suo partito: “Abbiate pazienza, prima o poi saremo indipendenti” – Mas ha innalzato la bandiera dell’autosufficienza e dello Stato sovrano, fuori dalla Spagna. Un salto in avanti che preoccupa (moltissimo) gli industriali catalani ma che piace (moltissimo) a tutti gli altri.
Fino all’avvento di Mas le rivendicazioni nazionaliste erano sempre state usate dai governi di Barcellona come una forma di ricatto per ottenere a Madrid condizioni migliori: più fondi, più autonomia, più autogoverno.  Oggi lo scenario è cambiato almeno per un paio di motivi. Il primo colpo al precario matrimonio d’interessi fra Barcellona e Madrid arrivò con il boicottaggio dei prodotti catalani – il famosa Cava, lo spumante, su tutti – promosso dalla destra iberica mentre si negoziava il nuovo Statuto d’autonomia. Il secondo fu, due anni fa, la sentenza del Tribunale costituzionale spagnolo contro il nuovo Statuto e, soprattutto, contro quella norma che voleva il riconoscimento dell’uso del catalano come prima lingua nelle scuole e nell’amministrazione pubblica. Uno schiaffo che ha deluso e indignato Barcellona. L’ultima botta è la crisi, il deficit regionale, i tagli al bilancio. Tutti guai che i politici locali attribuiscono al nemico, lo Stato spagnolo che non restituisce alla Catalogna tutto quello che i catalani versano in tasse.
Così è nata la rivendicazione del patto fiscale, uno strappo che Madrid non può accettare e che, nell’idea di Artur Mas, sarebbe il completamento dell’autonomia regionale con la nascita di un ministero delle Finanze catalano per riscuotere direttamente le tasse. E’ per questo che lo scorso 11 settembre oltre un milione di persone hanno sfilato per le vie di Barcellona sotto le bandiere rosso e oro del nazionalismo e, proprio durante la manifestazione, l’ex tecnico del Barça, Pep Guardiola, amatissimo dal popolo catalano, è apparso in collegamento video da New York con in mano il libretto verde della Catalogna libera. Un anno fa, nello stesso giorno, quello della Diada, la festa nazionale, erano meno di diecimila. “Se Rajoy – il presidente del governo spagnolo – non dovesse accogliere le nostre richieste, intraprendere il nostro cammino verso la libertà – leggi indipendenza – sarebbe inevitabile”, ha detto Mas. E se, per caso, acconsentisse? Chissà. A nessuno è chiaro se la sfida di Mas è solo l’ennesima prova di forza o se invece prelude scelte irrimediabili come l’avvio di una secessione. La tensione a Madrid è forte. Perfino re Juan Carlos ha lanciato un forte appello all’unità del paese. Nel suo primo messaggio politico sul nuovo sito web della Casa Reale, il re ha esortato gli spagnoli “a lavorare insieme per affrontare la crisi economica” invece di perseguire delle “illusioni”.  “Questo è un momento decisivo in cui possiamo salvare o rovinare il nostro benessere – ha detto il re -. La cosa peggiore che possiamo fare è dividere le forze, perseguire illusioni, riaprire ferite”.
L’eventuale marcia verso un divorzio – “pacifico e consensuale”, dice Mas – è irta di spine. Anni fa il Tribunale Costituzionale bocciò la convocazione di un referendum sull’indipendenza nei Paesi Baschi che non si tenne perché avrebbe violato la Costituzione (articolo 149). Oggi il panorama potrebbe essere diverso: secondo un sondaggio la maggioranza degli spagnoli non sarebbe contraria all’indipendenza della Catalogna anche se essi sono – sempre a maggioranza – convinti che sarebbe un errore e una disgrazia per la Spagna e per la Catalogna. I più contrari sono gli imprenditori che vendono i loro prodotti nel resto del paese e temono boicottaggi e sanzioni.
“Esportate di più nel resto del mondo, non in Spagna”, li incita il governatore. Artur Mas ama definirsi “austero e risparmiatore”, un calvinista. Avrà bisogno di queste qualità. Lui e i suoi elettori. Con i debiti da pagare e i titoli catalani ridotti a junk bond, i prossimi mesi non saranno facili per chi sogna di diventare finalmente nazione. 

sabato 11 agosto 2012

Mariano Rajoy, la tragedia di un uomo in pericolo


Dopo due sconfitte consecutive contro Zapatero, era riuscito a prendere il potere: un plebiscito. Poi la doccia fredda: in pochi mesi la sua popolarità è crollata per la crisi. E già si parla di governo tecnico o di solidarietà

DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI



MADRID. Quattordici punti in percentuale in otto mesi. Gli ultimi sette, in un colpo solo, a luglio. Tanto - secondo i sondaggi - ha perso nel favore degli spagnoli Mariano Rajoy, dalla trionfale vittoria elettorale del 20 novembre 2011 ad oggi, nella tempesta di una crisi che fra banche (un buco da 100 miliardi di euro), aumento della disoccupazione (25 per cento), e spread (oltre i 550 punti), non accenna a placarsi.



Un crollo - dal 44,7 per cento della notte elettorale a poco più del 30 di queste settimane - che rischia non solo di polverizzare il ritorno al potere della destra spagnola otto anni dopo l'era di Aznar (1996-2004), ma ha già messo in crisi la leadership di Rajoy fra voci di governo tecnico o di patto nazionale se, alla fine, come tutti temono, la Spagna sarà costretta a consegnarsi alla Troika di Bruxelles e a chiedere el rescate, ossia il salvataggio, per evitare il default del suo debito e l'uscita dalla moneta unica con un prestito dal Fondo salva-Stati della Bce di oltre 300 miliardi di euro.



Otto mesi fa Rajoy, il Sopravvissuto (perché era riuscito a rimanere in sella alla testa del Partito popolare nonostante due sconfitte consecutive contro Zapatero, nel 2004 e nel 2008), non avrebbe potuto immaginare un'estate peggiore di quella che sta vivendo. Un agosto di fuoco nel quale dovrà rinunciare per la prima volta in trent'anni alle sue vacanze al mare - le fa sempre a Sanxenxo in Galizia - e ha ordinato ai ministri di "non allontanarsi troppo da Madrid" vietando loro di recarsi per turismo all'estero.



Un agosto in cui avrà tutto il tempo di rammaricarsi per aver vinto la Moncloa (la sede del governo) nella stagione più sventurata, adesso che tutte le sue caratteristiche, quelle che un anno fa sembravano qualità adatte all'epoca, si stanno trasformando in limiti, carenze, difetti.



L'attendismo, la moderazione, il pragmatismo e la resistenza del ciclista (il suo sport preferito) che lo hanno premiato quando doveva solo aver fiducia che l'avversario Zapatero prima o poi crollasse sotto il peso degli errori, oggi che il rivale non c'è più sono diventate lacune, perfino handicap.



L'immagine di Rajoy vacilla anche tra i suoi elettori perché, di fronte alla tormenta, ha preferito rifugiarsi nella strategia dello struzzo piuttosto che rivolgersi direttamente e con chiarezza al Paese. "Non aumenterò le tasse", ma poi ha dovuto aumentarle; "Non toccheremo l'Iva", ma poi ha dovuto farlo; "Non c'è alcuna necessità di salvare le nostre banche", ma invece c'era.



E così via in un crescendo secondo il quale oggi ogni spagnolo pensa che il governo farà il contrario di quel che dice pubblicamente. Tanto che quando qualche giorno fa la vicepresidente del governo, Soraya Sáenz de Santamaría, sfoggiando un luccicante paio di scarpe leopardate tacco dodici, ha detto in Parlamento che non c'era bisogno di alcun salvataggio anti spread, tutto il Paese ha tremato convinto che invece il default delle casse nazionali fosse ormai imminente.



Mariano Rajoy, galiziano di Santiago de Compostela, laureato in Giurisprudenza, 57 anni, due figli, in politica da quando aveva 24 anni, è un cattolico moderato con un progetto che gli ha permesso, nonostante i rovesci e gli avversari interni - nel Pp il suo grande antagonista è Esperanza Aguirre, la molto radicale governatrice della Comunidad (la regione) di Madrid - , di restare alla guida del partito: trascinarlo il più possibile verso il centro dello spettro politico.



Lui sta a destra, ma ricorda sempre che suo nonno, docente universitario, fu antifranchista e perse la cattedra per criticare la dittatura, e che quand'era il braccio destro di José María Aznar negli anni Novanta s'impegnò per allontanare dalle file dei Popolari i notabili più compromessi con il passato franchista.



L'asse del suo fare politico - che irrita tanto la Aguirre e non solo - è il basso profilo. Come spiega un marianista (da Mariano, sono i membri della sua corrente nel Pp), "Rajoy è convinto che in condizioni di eguaglianza, la sinistra vince in Spagna perché è sociologicamente maggioritaria". "Noi" aggiunge "possiamo vincere solo se l'altra parte smobilita e riusciamo ad attirarne un po' verso il centro.



Se l'elettorato di sinistra va alle urne compatto e in massa, come nel 2004 e nel 2008, perdiamo. Per questo Mariano non alza mai il tono, neppure quando vince. Non bisogna spaventare la sinistra". È la strategia che ha permesso a Rajoy di conquistare, vincendo le amministrative, 14 Comunidad su 17 (tranne la Catalogna, l'Andalusia e i Paesi Baschi) e poi una storica maggioranza assoluta (186 seggi) alle politiche generali dell'anno scorso.



Ma la crisi che dal Portogallo all'Italia, alla Grecia, alla Francia, ha cambiato i volti del potere in mezza Europa, in Spagna rischia di fare il bis: dopo i socialisti di Zapatero e Rubalcaba, anche i Popolari di Rajoy. Mariano è un uomo tranquillo, dai gusti classici, che tutta la settimana sogna la sua domenica pomeriggio in famiglia con il caffè, un bicchiere di liquore, un sigaro cubano (l'unico vizio conosciuto) e la partita del Real Madrid o della squadra della sua adolescenza, il Pontevedra.



Ascolta con piacere la radio, mangia la paella e la frittata di patate (la tortilla spagnola) ma rigorosamente senza cipolla. Un tipo che avrebbe voluto arrivare al potere senza che nessuno se ne accorgesse. Occultandosi. Soprattutto alla stampa con la quale ormai ha rotto ogni rapporto e sono mesi che non concede un'intervista o una conferenza stampa.



Quando è arrivato alla guida del governo, nei giorni di Natale dell'anno scorso, ha formato un esecutivo pieno di donne del suo staff e di ministri amici perché - dicono - è molto diffidente. Poi ha sperato nei vecchi rapporti del Pp con la Democrazia Cristiana tedesca per avere un trattamento privilegiato dalla Merkel, e soprattutto dalla Bundesbank. Tutto inutile.



Con Angela pare che ormai si scambi i saluti con difficoltà. Così ha regalato alla Spagna la manovra economica più dura che un governo abbia dovuto mai affrontare dal ritorno della democrazia, ed ha scelto l'unica agenda che conosce: "Resistere!". Come ha scritto Carlos Cué, uno dei migliori giornalisti politici spagnoli, "resistenza è la parola chiave di tutti quelli che gli stanno intorno.



Non azione, né vittoria, né ambizione, né decisione, né attacco. Resistenza. Quando uno chiede come sta il leader, la risposta è quasi sempre la stessa: tranquillo. E quando la pressione esplode nulla cambia: "Mariano è tranquillo, sopportando l'acquazzone, è esperto di queste circostanze, le conosce, sa bene che ogni cosa passa, lui sempre risorge dopo una tempesta".



© Riproduzione riservata (10 agosto 2012)

martedì 17 luglio 2012

La memoria perduta di Gabo (Repubblica 09/07/2012)




OMERO CIAI

Non se la merita «Gabito» questa inconsueta pantomima sul suo stato di salute. Sulla memoria che se ne va. Sull' Alzheimer che avanza implacabile come accadde per sua madre Luisa, la straordinaria Ursula dei "Cent' anni di solitudine", e come accadde - dice suo fratello Jaime - per tutta la famiglia Márquez, avvezza al calvario della demenza senile. Ieri, due frasi su twitter, hanno trasformato in un piccolo giallo le condizioni di salute del maestro Gabriel García Márquez, 85 anni il 6 marzo scorso, uno degli scrittori più letti ed amati nel mondo. Il direttore della Fondazione Nuevo Periodismo, la scuola di giornalismo creata da Márquez a Cartagena, in Colombia, nel 1994, ha smentito le parole di Jaime García Márquez, l' ottavo degli undici figli di Gabriel Eligio, il telegrafista, e Luisa, sua moglie, tredici anni più piccolo di Gabo. Parole che avevano già fatto il giro del mondo perché, per la prima volta, un membro della famiglia aveva rivelato un triste «segreto» già noto fra gli amici più intimi dello scrittore. Jaime Abello, il direttore della scuola, ha scritto: «Non voglio polemizzare, né commentare interpretazioni sull' intimitàe la salute di Gabo, ma ribadisco che non esiste nessuna diagnosi medica di "demenza senile". È soltanto anziano e si dimentica alcune cose ma tuttavia posso godere della sua amicizia». Un missile sparato contro Jaime che qualche ora prima, davanti ad una platea di duecento ragazzi a Cartagena, aveva detto che suo fratello «non può più scrivere», che «non finirà mai la seconda parte della sua autobiografia» (Vivere per raccontarla) e che «a volte quando parliamo per telefono m i v i e n e d a piangere perché sento che se ne sta andando». I due Jaime, Abello e García Márq u e z , h a n n o l' ufficio sullo stesso pianerottolo, uno di fronte all' altro, nella calle San Juan de Dios, nel quadrilatero del vecchio e maestoso centro coloniale di Cartagena de Indias. Ma evidentemente non si sono mai amati. Anzi, Abello è il fiduciario di Mercedes Barcha, l' inflessibile moglie di Gabo, custode assoluta della sua privacy; mentre Jaime fratello, che con Mercedes non ha mai avuto «affinità elettive», (lui e Gabo scappavano di nascosto per andarsi ad ubriacare di pregiati whisky di malto in qualche bettola di Cartagena), rivendica il suo ruolo privilegiato di familiare (e di studioso dell' opera di Márquez) con diritto ad esprimersi liberamente. «A volte vorrei non essere suo fratello e poter parlare con un po' più di libertà»- ha detto Jaime - «Ho una informazione che mi intristisce ma adesso devo raccontarla perché non posso più controllarmi». Jaime e «Gabito» non si vedono da oltre due anni perché Márquez non va più a Cartagena quando arriva la primavera come faceva tutti gli anni, a marzo, per trascorrere in Colombia la settimana del suo compleanno. Rimane a Città del Messico ed esce pochissimo. Ma si sentono quasi tutti i pomeriggi, racconta Jaime. «Chiama perché vuole che gli rinfreschi la memoria». «A meè toccata questa missione - aggiunge -, fortunata ma allo stesso tempo molto dolorosa. Ma penso che se ho il privilegio di poter parlare con lui debbo anche pagarlo in qualche modo.E lo pago con il dolore che provo, un dolore che alla fine mi lascia comunque una soddisfazione molto grande». A questo punto molti dei ragazzi si sono commossi ed anche sul volto di Jaime è scesa qualche lacrima. Dopo aver rivelato che l' Alzheimer di Márquez è rapidamente peggiorato anche per le sessioni di chemioterapia alle quali siè dovuto sottoporre dieci anni fa per un tumore linfatico, Jaime ha concluso la sua conferenza-confessione parlando di due racconti inediti che, alla fine, lo scrittore ha deciso di non pubblicare: «La tigra» e «Ci vediamo ad agosto». «Li ha riscritti molte volte in questi anni ma non è più riuscito a raggiungere la perfezione che ha sempre cercato nelle sue opere». Così mentre Mercedes e Abello smentiscono, Jaime conferma. D' altra parte il primoa parlare dell' Alzheimer era stato all' inizio di giugno un altro grande amico di Márquez, un po' reietto per ragioni ideologiche dalla moglie Mercedes: Plinio Apuleyo Mendoza. Plinio ha raccontato di aver telefonato a Gabo nel giorno del suo compleanno per fargli, come sempre, gli auguri. «Ma Mercedes non me lo ha passato, perché spesso non riconosce più neppure gli amici più cari. In seguito suo figlio Rodrigo mi ha detto che dalla voce non riconosce più nessuno. Se invece vede il volto qualcosa rammenta». Un altro testimone è lo scrittore peruviano Alfredo Bryce Echenique: «Che tristezza e che angoscia vederlo così - ha confessato - . Ci sono giorni in cui sta benissimo ma altri nei quali perde completamente la memoria. È capitato che non mi riconoscesse neppure e mi chiamasse "Carlos", chissà perché».


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martedì 26 giugno 2012

Messico, repubblica 25 giugno 2012


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI

CULIACÀN (Sinaloa)
LA MORTE di centinaia di narcotrafficanti negli ultimi sei anni per la guerra ai cartelli dichiarata dal presidente messicano Calderón ha un primo risultato: le loro mogli, sorelle o figlie, assumono sempre maggiori responsabilità all’interno dei gruppi narcos. «Prima erano le miss», dice Javier Valdez, giornalista di Riodoce che nel libro Miss Narco ha raccontato l’attrazione fatale tra i narcos e i concorsi di bellezza, «ma adesso le donne stanno prendendo sempre di più posizioni di comando ». Lo conferma Arturo Santamaría, sociologo dell’Università di Sinaloa, e pensa che questo fatto «rafforzerà il narcotraffico e lo renderà più difficile da combattere perché le donne sono più intelligenti e furbe nel dirigere le operazioni». Santamaría ha appena pubblicato un libro,
Las Jefas del narco,
nel quale raccoglie testimonianze di questa rivoluzione. Così se l’ultima vicenda nel gossip di Culiacán è la storia d’amore fra Emma Coronel,
una “miss Sinaloa” e il capo supremo del cartello, Joaquin Guzman, che prima le ha fatto vincere il concorso e poi l’ha sposata; è in corso un fenomeno molto più profondo che può cambiare la storia dei cartelli «perché — ha scritto Santamaría — non c’è nessun altro paese dove le donne giocano un ruolo così importante nel narcotraffico come in Messico».
L’inizio di questo viaggio è una croce piantata nell’asfalto vicino ad un centro commerciale. Ricorda l’ultima grande guerra dei narcos nello Stato di Sinaloa e la morte di Arturo Beltrán Leyva, il 19 dicembre 2009. «I sicari entravano nella case e ammazzavano i
chavos
(i giovani peones) nelle camere da letto. Chiedevano solo “da che parte stai?” e siccome le vittime non sapevano chi fossero, rispondere era come partecipare a una roulette russa: c’era il cinquanta per cento di possibilità di evitare la morte», racconta Javier Valdez. Quella guerra fra i cinque fratelli Beltrán Leyva e Joaquin Guzman “el Chapo”, il narcos più ricco e potente del Messico, non è mai finita.
E ancora oggi nello Stato di Sinaloa — poco meno di tre milioni di abitanti — ci sono, per vendette e scontri legati al narcotraffico, più di duemila morti l’anno. Sono già settecento nei primi cinque mesi del 2012. Molti sono la conseguenza delle scorribande degli “Zetas”, il cartello con il quale si sono alleati i Beltrán Leyva, che entrano a Sinaloa per ammazzare la gente del “Chapo”. Ma altri hanno a che fare con le regole interne del cartello (“una azienda” che fattura oltre tre miliardi di dollari l’anno e ha interessi ovunque, n’drangheta compresa): uccidono i ladri, i violentatori, o semplicemente chi parla troppo. «Abbiamo trovato — racconta Valdez — macchinette di plastica accanto
cadaveri». Voleva dire che il giustiziato rubava auto. «Oggi a Culiacán puoi morire per aver guardato male qualcuno. Qui tutto è narcos. Il mio vicino di casa è narcos. I compagni di scuola di mio figlio sono figli di narcos». Lo Stato di Sinaloa, una striscia di terra fra la Sierra Madre e il Pacifico, è da oltre trent’anni la patria del narcotraffico messicano. I grandi capi sono cresciuti tutti qui. Da Amado Carrillo Fuentes, nato nel ‘56 e morto nel ‘97, socio di Pablo Escobar, fondatore del cartello di Juarez, e famoso come
il signore dei cieli
per la quantità di cocaina che riusciva ad esportare grazie a piccoli Fokker negli Stati Uniti; ai fratelli Arellano Felix, fondatori del cartello di Tijuana. Fino al “Chapo” Guzman. E anche Jesús Malverde, il brigante dell’inizio del secolo scorso diventato “santo dei narcos”, era di Sinaloa. Ancora oggi nelle gole delle montagne della Sierra Madre si coltivano la marijuana e l’oppio che poi si vendono in Ca-
lifornia. E, come spiega Javier Valdez, Guzman è un mafioso vecchio stile. Fa beneficenza, costruisce scuole e chiese, e mantiene un esercito di piccoli trafficanti che dominano il territorio, strada per strada. «A Culiacán il narcos seduce, soggioga», dice
Valdez, «è onnipresente e promette la vita facile e dolce dei soldi e del potere. Gli adolescenti del cartello — prosegue — sono quelli che hanno le auto e le ragazze più belle. Imparano a sparare e a portare le armi ed è come se ti dicessero ‘scemo, non vedi che sei circondato? Arrenditi, tanto nessuno ti può salvare’».
Riodoce
è un piccolo settimanale,
diecimila copie. Che l’anno scorso ha vinto il premio “Maria Cabot” della Columbia University per il giornalismo investigativo. Lo hanno fondato nel 2003 quattro giornalisti stufi della censura e dell’autocensura dei quotidiani locali. «Loro contano i decapitati, noi facciamo inchieste», dice fiero Valdez. Che aggiunge: «All’inizio non volevamo fare un giornale sul narcotraffico. Poi questo è il compito che ci è toccato, se non scrivessi di narcos mi sentirei un vigliacco». Nella redazione di
Riodoce
hanno messo una bomba, tempo fa. E da allora i quattro amici, dopo aver cambiato sede (fuori non c’è scritto nulla, solo il nome del giornale piccolo piccolo sul citofono), con collaboratori e amministrativi, s’incontrano solo una volta alla settimana, quando chiudono il numero. «L’unica cosa di cui siamo assolutamente sicuri — dice Valdez — è di non essere infiltrati. Né dai boss della politica locale, né dai narcos. Sul resto è difficile parlare. Sulla bomba non abbiamo detto nulla. Qui se accusi qualcuno di volerti uccidere offri l’alibi a qualcun altro per farlo».
I giornalisti uccisi negli ultimi anni sono oltre settanta, più che nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale. Javier Sicilia, il poeta che ha perduto il giovane figlio e ha commosso il paese annunciando che non avrebbe più scritto un verso, sostiene che il Messico è uno Stato in default, fallito. O quasi. Perché il connubio fra narcos e potere politico è «ormai tale che il cittadino è completamente indifeso di fronte alla violenza». «La polizia — dice Sicilia — è corrotta. L’esercito è corrotto. È di fronte alla criminalità organizzata il potere politico preferisce negare l’evidenza, nascondere, occultare, dissimulare. Per loro non c’è alcun attacco alla società civile, al massimo i morti sono narcos che si ammazzano tra di loro». «Ci sono città in Messico — aggiunge Sicilia — dove le amministrazioni locali negano la pubblicità isti-
tuzionale ai giornali che parlano troppo della violenza. Non si deve sapere dei morti ammazzati. È dannoso per il turismo».
Il panorama è completamente cambiato con la nascita degli “Zetas”. Tutti ex militari addestrati nelle scuole antiguerriglia
dell’esercito degli Stati Uniti. All’inizio erano il braccio armato del cartello del Golfo, quello che controlla i porti sul Mar dei Caraibi. Finché non si sono messi in proprio e siccome non gestivano alcun traffico di droga si sono trasformati in una mafia tout court. Hanno cominciato a chiedere il pizzo, a sequestrare persone, a fare affari con la prostituzione.
«Gli Zetas — dice Valdez — non hanno principi. Rapiscono gli emigranti illegali del Sudamerica che attraversano il Messico. Lo fanno per chiedere un riscatto ai parenti che li aspettano dall’altra parte, negli Stati Uniti. Se non hanno parenti li ammazzano».
Un parente negli Stati Uniti lo ha da qualche mese anche “El Chapo”. Sua moglie Emma Coronel che ha la nazionalità americana ha beffato gli agenti dell’antidroga Usa ed è riuscita a partorire un bambino a Los Angeles. Così l’ultimo figlio del più grande capo narcos messicano è statunitense. Invece Sandra Avila Beltran, la “narca” più famosa del Messico e la prima della generazione delle nuove “jefas” (cape), rischia di passarci il resto della sua vita dall’altra parte della frontiera. Ma in un carcere. La “regina del Pacifico” verrà presto estradata e processata negli Usa per essere riuscita a vendere cento chili di cocaina a Chicago.
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domenica 10 giugno 2012

Chàvez si ricandida. Repubblica 10-06-12





DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI

CARACAS — Dal palazzo presidenziale di Miraflores alla sede del Consiglio nazionale elettorale in avenida Bolivar c’è poco più di un chilometro. È la prova suprema, la distanza che Hugo Chávez, gravemente malato, dovrà percorrere domani per iscriversi come candidato alle elezioni del 7 ottobre (per la sua quarta rielezione dopo il 1998-2000-2006). E lo farà a modo suo, sicuramente in auto, attraversando due ali di sostenitori festanti, per dimostrare a tutti che è ancora lui il candidato imbattibile, astuto e istrione come sempre. Da mesi le sue condizioni di salute sono un segreto di Stato e l’incertezza sul futuro dilania un paese spaccato in due — e palesemente irriconciliabile — con filo chavisti da una parte, impegnati a rendere irrevocabile la «rivoluzione bolivariana »; e anti chavisti dall’altra, determinati ad evitarlo.
Hugo Chávez, presidente-padrone del Venezuela da tredici anni, è malato per un tumore nella zona pelvica dal giugno dell’anno scorso. Si è operato due volte all’Avana e si è sottoposto a vari cicli di chemio e di radioterapia che lo hanno tenuto lontano dal paese — governava via twitter — per diversi mesi. Le ipotesi sulle
sue possibilità di recupero sono tutte negative e le diagnosi, comunque «al buio» e sui sintomi, visto che dall’ospedale di Cuba non è mai filtrato nulla, gli concedono da un minimo di sei ad un massimo di dodici mesi di vita. Lo riconosce anche Juan, un operaio chavista, che milita nella «Mission Milagro» (missione miracolo), il programma in joint venture con Cuba grazie al quale ogni mese un centinaio di venezuelani, poveri e senza mutua, vanno ad operarsi all’Avana a spese del governo dell’isola castrista che, in cambio di questo e altri piani di solidarietà, riceve 130mila barili di greggio al giorno, circa il 5% della produzione venezuelana. Oggi è giorno di partenza e mentre gli ammalati sottoscrivono l’impegno a garantire ognuno almeno dieci voti per Chávez alle elezioni, Juan scuote la testa. «Che fine faremo senza il presidente?». Ha quattro by-pass al cuore («Senza Chávez e Fidel sarei morto perché non avrei potuto pagare l’intervento », dice) e descrive scenari scoraggianti convinto che il malato, nelle stanze di Miraflores, sia più grave di quello che vogliono fargli credere. «Questa rivoluzione finirà con lui», conclude.
Per la coalizione antichavista, la Mud, il presidente è «un irresponsabile », che dovrebbe curarsi e candidare un successore, evitando di gettare il paese nei rischi di un vuoto di potere presentandosi per un nuovo mandato
che nessuno sa se riuscirà neppure ad iniziare. Ma Chávez è fatto così. Prendere o lasciare.
D’altra parte non ha costretto i funzionari del ministero degli Esteri a sloggiare diversi piani del palazzo quando si è trattato di trovare rifugio agli sfollati di un alluvione? E non ha versato attraverso l’holding statale dell’oro nero, Pdvsa, 51 milioni di euro alla scuderia di Formula 1 della Williams per far correre Pastor Maldonado, il suo pilota preferito? Gestire senza intermediari il bilancio dello Stato è il sigillo del suo modo di governare. Anzi, di più, il suo obiettivo principale è sempre stato quello, usando il petrolio, unica ma fenomenale
fonte d’ingresso del paese, di costruirsi portafogli praticamente personali. Iniziò nel 2002 con l’assalto alla cassaforte di Pdvsa, ma l’operazione più riuscita è il «Fondo Chino». Due tranche da 4 miliardi di dollari di prestiti da Pechino — la prima nel 2007, la seconda in queste settimane — a cambio di 400mila barili di petrolio al giorno a prezzo scontato per la Cina. Il Fondo è amministrato personalmente da Chávez che in questo modo inizia la costruzione di case popolari mai terminate e lancia nuovi programmi di assistenza per il suo popolo: quasi la metà, povera e indigente, dei venezuelani. E la «rivoluzione» avanza anche se nelle farmacie
manca l’acqua ossigenata mentre il controllo sui cambi e l’incertezza giuridica allontana qualsiasi investimento internazionale.
L’inflazione al 30 percento, il doppio regime cambiario (quello ufficiale e quello «in nero»), l’esplosione della criminalità e la diffusa corruzione nelle pieghe del regime, avevano restituito spazio all’opposizione che, due anni fa, era riuscita per la prima volta a vincere le elezioni parlamentari.
Più voti (52 a 48 percento) ma non più seggi. Quanto bastava però per prefigurare la possibilità di una svolta anche alle presidenziali. Dalle primarie — tre milioni di votanti — è uscito un quarantenne
moderato, Henrique Capriles, che sembrava in grado di strappare all’altro fronte gli elettori meno radicali, quei pezzi di classe media bassa infastiditi dall’indottrinamento martellante della propaganda ideologica e spaventati dalla criminalità. Ma la malattia sembra aver giocato a favore di Chávez che a quattro mesi dal voto è in netto vantaggio nei sondaggi. Alternative nello schieramento bolivariano d’altra parte non ce ne sono. Nessuno dei tre possibili delfini del caudillo ha speranze di raccogliere tutta la sua eredità nelle urne. Né il ministro degli Esteri, Nicolas Maduro, il più vicino ai cubani; né il presidente del Parlamento,
Diosdado Cabello, preferito dai militari; né, infine, il fratello governatore di Chávez, Adan. Così l’unica soluzione è rimasta quella del leader ammalato. «Vogliono conservare il potere salendo sul carro funebre del presidente», denunciano i giornali dell’opposizione convinti che Chávez non riuscirà neppure a farla la campagna elettorale.
Anche Caracas, come il resto del paese, è divisa in due fazioni: a nord aristocrazia e classe media; a sud e sulle colline, le favelas. I primi temono che alle elezioni neppure ci si arrivi, i secondi — come l’operaio Juan — scrutano le apparizioni del presidente e soffrono per la sua malattia. «Qui succederà quel che decideranno le Forze Armate», dice preoccupata Milagros Socorro, editorialista de
El Nacional.
È la «soluzione egiziana» che molti analisti dipingono come probabile. L’esercito è quello che ha più da perdere sia nel caso di sconfitta che di scomparsa di Chávez. Generali accusati per narcotraffico dalla Dea americana, ufficiali corrotti, forte ridimensionamento dell’influenza dei militari nella politica e nella società se dovesse cambiare scenario. Dunque, si specula, in caso di inabilità di Chávez è l’esercito che potrebbe assumere il potere con un «governo provvisorio» con la scusa di mantenere la pace e l’ordine fra due fazioni politiche inconciliabili.
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venerdì 25 maggio 2012

La solitudine di Rajoy (Repubblica 22/05/12)


 
Pagina 26 - Economia
 
Mentre il premier Rajoy continua il tentativo di risanamento dei conti, c´è chi adombra un esito "argentino" per la recessione della Spagna
 
Prestiti facili delle banche e deficit delle autonomie le due mine vaganti che possono affondare Madrid
 
 
 
Nei bilanci degli istituti finanziari ci sono 200 miliardi di prestiti che sono carta straccia
 
OMERO CIAI

DAL NOSTRO INVIATO
BARCELLONA - In questi giorni, con lo spread oscillante fra i 480 e i 500 punti, il capo del governo spagnolo si domanda perché i mercati mostrino pochissima fiducia sulla tenuta della Spagna quando, dice Rajoy, «abbiamo fatto bene i compiti che ci ha chiesto Bruxelles». Dal suo arrivo alla Moncloa, con la trionfale vittoria del partito popolare nelle elezioni del 20 novembre 2011, il leader del centrodestra ha mantenuto una linea diretta con Angela Merkel e ha sposato in pieno le direttive sul rigore e il risanamento dei conti pubblici. Ha varato una riforma del mercato del lavoro che rende facilissimo e molto economico per le imprese i licenziamenti; tagliato i bilanci di Sanità e Istruzione; e promesso una riduzione del rapporto deficit/Pil: dall´8,9% del 2011, al 6,4% nel 2012, al 3% entro la fine del 2013. Mariano Rajoy immagina uno Stato leggerissimo e prevede di tagliare le spese per l´Amministrazione pubblica dal 43,6% del Pil (2011) al 37,7% entro il 2015 con un risparmio di 32 miliardi. Un´operazione massiccia che riporterebbe la spesa dello Stato ai livelli precedenti all´ingresso della Spagna in Europa. Il suo problema però sembra essere proprio quello della credibilità del progetto. Intanto perché la Spagna è ancora in recessione (-0,3% ad aprile) e i disoccupati aumentano (5,4 milioni, 25% della forza lavoro) e aumenteranno ancora. Poi per altre due questioni centrali che sono alla base della crisi: i prestiti allegri diventati crediti non esigibili (o "attivi tossici") delle banche e la difficoltà del governo centrale di tenere a freno i bilanci delle autonomie regionali che in Spagna hanno competenze molto ampie. Su quest´ultimo fronte potrebbe apparire paradossale il fatto che tre regioni abbiano nel 2011 camuffato i loro deficit comunicando al governo centrale dati aggiustati in positivo. E´ successo nella Comunità autonoma di Madrid dove comanda Esperanza Aguirre, grande "baronessa" della destra spagnola; in Castilla-Leon, altra regione in mano ai Popolari; e a Valenzia. Venerdì sera, a mercati chiusi, Madrid ha rivelato che il suo deficit 2011 era il doppio (non 1,3% ma 2,2%). E il ricalcolo delle tre regioni ha elevato quello della Spagna dall´8,5 all´8,9% sul Pil nel 2011.
Difficoltà di affidamento oltre che di bilancio hanno anche le banche. Qual è infatti il vero volume dei cosiddetti "attivi tossici"? Quando Hollande, dopo il picco dello spread spagnolo a 507 punti mercoledì scorso e prima del G8 di Camp David, s´è detto favorevole ad un piano di salvataggio europeo per le banche iberiche è stato aggredito da Rajoy: «Non abbiamo bisogno di nulla, ce la facciamo da soli». Peccato che il reale stato delle finanze bancarie non si conosca tanto che il governo ha affidato a due istituti di controllo indipendenti, uno americano e l´altro tedesco, una verifica. I calcoli noti sono questi: nei bilanci degli istituti spagnoli ci sono almeno 188 miliardi di prestiti a società di costruzione o promozione immobiliare che sono carta straccia. Non torneranno mai indietro semplicemente perché i costruttori non sono riusciti a vendere le case che oggi in meno di due anni hanno perso almeno due terzi del loro valore. Poi ci sono altri 128 miliardi di prestiti al mattone considerati "sani". Con molti dubbi. Ma quello che veramente spaventa e viene segnalato come «un formidabile fattore di rischio» sono i 656 miliardi di euro in ipoteche sui mutui concessi ai privati. Possibile, ci si chiede, che con recessione e disoccupazione, tutti paghino il mutuo per la casa? Per ora le banche ammettono un coefficiente di morosità irrisorio, il 2,8%. Sono tutti questi "fattori di rischio" che convincono un osservatore della crisi come il premio Nobel dell´Economia Paul Krugman a vaticinare il rischio "Argentina", il blocco dei conti correnti. «Impossibile», risponde il ministro delle Finanze Cristobàl Montoro. Infine il debito. Negli ultimi cinque mesi gli investitori stranieri hanno venduto 60 miliardi di bonos del debito spagnolo, il 10% del totale, finito alle banche spagnole grazie ai fondi Bce. Anche questo è un elemento di rischio. Le banche aiutano lo Stato sperando che poi lo Stato aiuterà le banche: ma è come se due persone che stanno affogando sperassero di galleggiare legandosi insieme.

I guai della Catalogna (Repubblica 20/05/12)


DOMENICA, 20 MAGGIO 2012
 
Pagina 14 - Economia
 
Tagli e disoccupazione al 23% anche la locomotiva catalana è arrivata sull´orlo del crac
 
A rischio l´autonomia dal governo di Madrid
 
 
 
Il presidente Artur Mas ha varato tre piani di austerità, l´ultimo da 4,7 miliardi: c´è anche la "tassa iPhone"
 
OMERO CIAI

DAL NOSTRO INVIATO
BARCELLONA - L´hanno chiamata "tassa iPhone" e sono i 360 euro che dovranno versare tutti gli studenti degli istituti professionali per contribuire a ripianare il deficit della Generalitat della Catalogna. Irene Rigau, assessore all´Istruzione del governo autonomo, l´ha varata basandosi sulla cifra media che spende un ragazzo di sedici anni per usare uno smartphone. Ed è uno dei tanti balzelli a cui si dovranno abituare i catalani per difendere la loro storica autonomia dal governo centrale di Madrid. In un anno, il presidente catalano, Artur Mas ha varato tre piani di austerità: l´ultimo in questi giorni prevede tagli al bilancio per 4,7 miliardi, circa il 20% del totale, e colpirà ospedali, scuole, impiegati pubblici, tv locale, treni. Così dopo aver perso il campionato di calcio, la Champions, e Pep Guardiola, Barcellona è costretta a mettere in discussione una volta per tutte anche i simboli più cari della sua orgogliosa diversità dal resto della Spagna. «Altrimenti rischiamo di finire come la Grecia», ha detto un preoccupato Artur Mas mentre Moody´s tagliava al livello di "titoli spazzatura" i bonus sul debito emessi dalla regione.
Come la Grecia o anche peggio perché ciò che hanno veramente temuto i leader politici locali nelle ultime settimane era di essere messi sotto tutela da Mariano Rajoy, il presidente del governo nazionale, e di dover rinunciare alle numerose competenze che il sistema dello Stato Federale concede alle autonomie. E, in particolare, a quella del governo catalano che, a differenze di altre regioni, ha sviluppato tutte quelle che la legge consente. Le forme sono un po´ cambiate ma tutti ricordano quando Jordi Pujol, storico leader dell´autonomismo e presidente della Generalitat per 23 anni dal 1980 al 2003, se ne andava in giro per il mondo come se fosse un capo di Stato, con la sua bandiera e una politica estera a sua misura. Oggi però la casa barcolla e Barcellona è costretta ad accettare il peso dei tagli, i più sostanziosi fra tutti quelli delle regioni di Spagna. Cinquemila insegnanti in meno, il ticket sulle ricette mediche e sui ricoveri in ospedale, meno 5% nelle buste paga degli impiegati pubblici (già colpiti da altri tagli), la sforbiciata dei contributi agli asili nido e al bilancio di radio e tv regionali in lingua catalana, riduzione dei trasporti e privatizzazioni di imprese pubbliche. Una sferzata inevitabile – secondo Artur Mas – che avrà l´effetto di ridimensionare alcune velleità autonomistiche ma farà senz´altro crescere il rancore locale verso l´odiata Madrid.
D´altra parte la crisi si assomiglia in tutto il paese e neppure la ricca Catalogna, terra di banchieri, industria e turismo, che da sola vale quasi il 20% di tutto il Pil spagnolo, ne è esente. Basta un dato: sei anni fa i disoccupati in Catalogna erano il 6,6%, oggi sono quasi il 23%, poco meno che nel resto del paese. Lo scontro con Madrid gira intorno alle tasse. A differenza di altre autonomie storiche, come Navarra o i Paesi Baschi, la Catalogna non ha una sovranità fiscale. Le tasse vanno allo Stato centrale e poi ritornano sotto forma di contributi del governo nazionale alla comunità autonoma. Contributi che variano di anno in anno a seconda della capacità "di ricatto" delle forze politiche locali. E oggi sono al minimo anche perché Barcellona per finanziare nei prossimi mesi il suo debito ha bisogno degli "Hispabond", buoni avallati dalla copertura dello Stato centrale. Un meccanismo che aumenta le tensioni e rafforza il sentimento indipendentista. "Catalonia is not Spain" è uno slogan che si può leggere facilmente sui muri da queste parti: ormai il 45% dei catalani è favorevole all´indipendenza. Erano solo il 25% vent´anni fa.

Ecco perché la Spagna affonda (Rep 18 maggio 12)


VENERDÌ, 18 MAGGIO 2012
Pagina 6 - Esteri
I punti
Nella città deserta dei palazzinari "Banche piegate dalla bolla edilizia"
Crolla in Borsa Bankia, è corsa al ritiro dei conti correnti
La Spagna
Ieri l´agenzia Moody´s ha tagliato il rating di 16 istituti di credito iberici
OMERO CIAI

DAL NOSTRO INVIATO
SESEÑA (TOLEDO) - Il crollo in Borsa della quarta banca spagnola, Bankia (meno 29%), la corsa al ritiro dei conti correnti nelle sue agenzie (pubblicata da El Mundo, ma smentita dal governo), e il declassamento da parte di Moody´s del rating di 16 banche spagnole, praticamente di tutto il sistema finanziario iberico, cominciano in queste assolate e polverose vie deserte a metà strada fra Toledo e Madrid. Cinque o sei anni fa, quando l´edilizia tirava, Francisco Hernando, detto Paco "el pocero" (nella foto), il più famoso, furbo e avventuroso, "palazzinaro" del paese, riuscì a raccogliere milioni di euro in prestito per il suo progetto. Una urbanizzazione da 60mila abitanti non troppo lontano dalla capitale per risultare appetibile ad una giovane classe media in fuga dai costi esorbitanti degli appartamenti in città. Angelica, la benzinaia, ride ancora. Se li ricorda quando arrivarono Paco e i suoi operai, quei poveracci a cui il "palazzinaro" non ha mai pagato neppure i contributi pensione e malattia, per trasformare i campi della Sierra dietro al suo distributore in una nuova città.
Era terreno agricolo ma bastò ungere un po´ il sindaco dell´epoca per costruirci giardini, piscine condominiali, qualche campetto da tennis, il rettangolo della pallacanestro e un piccolo stadio. Il tutto in mezzo a numerosi casermoni stile edilizia popolare, ma appena un po´ più chic, lungo i quali oggi non passeggia proprio nessuno. Le finestre, con le persiane di plastica rosse, sono tutte chiuse dal primo al settimo piano. La guardiola del portiere abbandonata, perfino l´ufficio vendite all´angolo del primo edificio è chiuso. Così per tutte le strade, a destra e a sinistra, un edificio dietro l´altro. Alcuni lavori sono stati lasciati a metà, quando s´è chiuso il rubinetto dei prestiti. Dopo gli ultimi due edifici e prima del laghetto ci sono le fondamenta già pronte per altri palazzi mai costruiti e molte strade non portano da nessuna parte, finiscono all´improvviso nei campi. Ai prezzi del 2007 un appartamento di 65mq da queste parti costava più di 200mila euro, oggi le banche che hanno messo i soldi e poi hanno espropriato "el pocero", finito nel frattempo in bancarotta, cercano di venderli a 60mila euro, o di affittarli per 400 al mese. Ma non c´è niente da fare. "El residencial Francisco Hernano", come recita la scritta all´ingresso dell´urbanizzazione, è spaventosamente vuoto. «In cinque anni avranno venduto forse un migliaio di appartamenti», dice Angelica, «e gli unici residenti che vedo io sono quelli che vengono qui a lamentarsi perché gli hanno rubato qualcosa».
In tutta la cintura intorno a Madrid ci sono villaggi nuovi e abbandonati come a Seseña. Adesso li chiamano "low cost" perché pur di vendere qualcosa le agenzie immobiliari delle banche fanno prezzi stracciati. Dopo la sbornia dei soldi facili per la speculazione edilizia, la crisi ha trascinato tutti nel baratro e in rosso per i prestiti ormai a fondo perduto ci sono i maggiori istituti di credito del paese. Nessuno escluso. In tutta la Spagna ci sono più di un milione di nuovi appartamenti invenduti e, sui bilanci delle banche, pesa ogni giorno di più la perdita di valore degli immobili senza proprietario. È il prossimo crac che genera gli incubi nei sonni del presidente del governo conservatore, Mariano Rajoy, e nel quale sono coinvolti tutti: Comuni, Regioni, politici di destra e di sinistra, a cominciare da Aznar, l´ex leader dei Popolari, che negli anni Novanta liberalizzò l´uso del suolo per lanciare l´ultima cementificazione delle coste spagnole. Anche nelle zone di villeggiatura il valore degli immobili crolla. È un segno dei tempi. Anche il turismo si contrae e d´altra parte da mesi la Spagna registra un calo nel totale della sua popolazione: le giovani coppie di diplomati e laureati senza lavoro lasciano il paese per cercare fortuna dall´altra parte dell´Atlantico.
La catastrofe del "ladrillo", il mattone, è la vera spina nel fianco dell´economia che rischia di rendere quasi automatico il contagio delle peste mediterranea, quella malattia che già soffia violenta fra Atene e Lisbona. La Spagna è in recessione da mesi e Rajoy non ha i soldi per salvare le banche. Finora il primo e unico intervento del governo, la nazionalizzazione di Bankia, è stato un disastro. Nell´incertezza generale ieri le azioni di Bankia hanno perso in Borsa il 29 per cento. Il governo nega che sia una conseguenza di un ritiro massiccio dei depositi ma il panico è in agguato e sorvola come un nugolo di corvi i segreti palazzi dei banchieri. L´altro fronte dell´emergenza sono i debiti contratti dalle Comunità autonome. Ieri l´agenzia americana Moody´s ha declassato anche i bonos sul debito emessi dalla Catalogna e da Murcia al livello dei titoli spazzatura, Junk bond. E tagliato il rating anche dell´Andalusia e dell´Estremadura. L´agenzia ritiene che nessuna di queste quattro grandi regioni spagnole riuscirà a raggiungere gli obiettivi di riduzione del deficit nel 2013 e che tutte, senza un intervento del governo centrale, rischiano di non poter onorare i loro debiti.

Goodbye Spain (Repsera 24/05/12)


“Goodbye Spain”, ce ne saranno tanti di cartelli con questo slogan (in inglese per le tv internazionali) venerdì sera a Madrid per la finale della Copa del Rey di calcio. Quest’anno infatti se la contendono il Barça di Pep Guardiola (è la sua ultima partita con la squadra catalana) e l’Athletic Bilbao. Insomma le rappresentative calcistiche di due delle tre autonomie storiche – l’altra è la Galizia – di Spagna. Alla fine degli anni Trenta quando il generale Franco condusse l’esercito golpista alla riconquista dell’unità nazionale, abbatté la Repubblica, e impose la dittatura sostenuto da Hitler e Mussolini, i Paesi Baschi e la Catalogna erano le “regioni maledette”, le patrie del tradimento verso la monarchia deposta e il cattolicesimo calpestato, e come tali vennero punite per decenni. Due lingue, due culture, e anche due potenti borghesie (bancarie e industriali)  che hanno sempre fatto molta fatica a sentirsi “spagnole”, centraliste, monarchiche e castigliane.


Già tre anni fa, nel 2009, la finale della Coppa del Re (torneo che equivale alla nostra Coppa Italia) si giocò fra il Barcellona e l’Athletic. E fu un caos. Le due tifoserie andarono alla stadio con le bandiere nazionali, basca e catalana, fischiarono sonoramente l’inno spagnolo e re Juan Carlos, che restò impassibile. L’incidente costò la poltrona al direttore dei servizi sportivi della tv pubblica perché censurò i fischi, e un processo ai promotori dell’iniziativa archiviato in tribunale perché la protesta era libertà d’espressione. Ma questa volta è diverso. Intanto perché ad incendiare gli animi alla vigilia dell’incontro ci ha pensato la governatrice di Madrid Esperanza Aguirre. Esponente della destra dura all’interno del Partito Popolare di Mariano Rajoy che ha vinto le elezioni nel novembre scorso, Esperanza detta “Espe”, descritta dai giornali come la “piromane”, ha chiesto a polizia e Federazione calcio di annullare l’incontro e rinviarlo “a porte chiuse” senza la presenza del pubblico, se prima della partita verrà fischiato l’inno nazionale. “Sarebbe un oltraggio ai nostri simboli”, ha detto la Aguirre, “e l’oltraggio è punito dal codice penale”. Poi c’è una ragione più seria che fa crescere la tensione e si riverbera anche sulla partita di calcio. La crisi che attraversa il paese rende molto più complicati i rapporti fra il governo nazionale e le autonomie regionali, baschi e catalani in testa. L’austerity di Rajoy, che ha promesso alla Merkel di ridurre il rapporto deficit/pil dall’8,9% del 2011 al 3% entro la fine del 2013, ha costretto la Catalogna ad affrontare una stangata storica, con tagli – a Sanità e Istruzione – pari a quasi il 20% del suo attuale bilancio. Una situazione che rende incontrollabili i rancori separatisti.  

Due dati: i cittadini favorevoli all’indipendenza della Catalogna crescono. Oggi superano il 45% dei 7,5 milioni di abitanti della regione che fa capo a Barcellona ed ha anche nel Barça di Xavi, Pujol e Fabregas (tutti catalani mentre Messi è argentino) una sorta di punto di riferimento nazional simbolico. E il progetto di Artur Mas, presidente della Generalitat di Catalogna dalla fine del 2010, è quello di ottenere “il patto fiscale” con Madrid. Ossia di dare l’ultimo passo verso l’autonomia totale creando un proprio ministero delle Finanze e incassando direttamente le tasse. Se si considera che il governo della Catalogna ha già competenze molto ampie, dalla Sanità all’Istruzione fino alla polizia, le Finanze proprie sarebbero l’anticamera della secessione e dell’indipendenza dalla monarchia spagnola.
E visto che siamo alla vigilia dei Campionati europei di calcio è tornata d’attualità la rivendicazione di tutti i partiti nazionalisti di Galizia, Paesi Baschi e Catalogna, di avere una propria nazionale di calcio, come il Galles e la Scozia che stanno in Gran Bretagna ma vanno agli europei con la propria squadra di pallone. L’altra mattina erano tutti sulla scalinata delle Cortes, il Parlamento, con uno striscione in tre lingue (catalano, basco e gallego) che recitava: “Ogni nazione la sua selezione”.

Da questo punto di vista all’Athletic sono intransigenti e fanatici. L’unico “straniero” è l’allenatore, quel Marcelo Bielsa, argentino, detto “el loco” (il pazzo), che Moratti vorrebbe all’Inter. I calciatori sono tutti baschi di nascita o di formazione calcistica nella “cantera” (le giovanili) del club. Dunque nella finale si fischierà l’inno per ragioni sportive, politiche ed economiche. E a prendere i fischi dei tifosi baschi e catalani non ci sarà Juan Carlos, ancora zoppicante per la caduta durante il polemico Safari in Botswana. Ma suo figlio Felipe, l’erede al trono.

giovedì 26 aprile 2012

Axel Kicillof, il cervello dell'esproprio Repsol in Argentina (Rsera 25 aprile 2012)


Affascinante, loquace e secchione, con la camicia sempre aperta, senza cravatta, e le basette alla Elvis Presley, Axel Kiciloff è il nuovo viceministro del governo argentino preferito dalla  “presidenta” Cristina Kirchner. E’ lui il vero cervello dell’operazione di esproprio e nazionalizzazione della filiale argentina della compagnia petrolifera spagnola Repsol che ha aperto una guerra commerciale con Madrid e fatto rimbalzare l’Argentina, come ai tempi del default del 2001, tra gli osservati speciali delle istituzioni economiche e finanziarie internazionali. Quarant’anni, economista, laureato con una tesi sull’opera di John Maynard Keynes, sposato, due figli, Axel Kiciloff – ma per gli amici è solo “Ax” – è diventato viceministro dell’economia a dicembre dopo il rimpasto di governo seguito alla storica vittoria di Cristina Fernandez de Kirchner nelle presidenziali di ottobre dell’anno scorso. 54 percento dei voti e maggioranza assoluta in Parlamento. Ax si vanta di aver “ipnotizzato” Cristina qualche anno fa. Il giorno in cui Maximo, il figlio di Cristina e Néstor Kirchner (l’ex presidente morto d’infarto nel 2010), lo presentò alla madre prima di raccomandarlo come gerente della compagnia aerea, le Aerolines Argentinas, rinazionalizzata. Dalle Aerolineas Ax è saltato nel governo ed oggi è uno dei pochi collaboratori di Cristina che ha accesso diretto al suo ufficio nella Casa Rosada a Buenos Aires e si muove a suo agio nel cosiddetto “circolo di ferro” della “presidenta”. Nell’esproprio di YPF, la filiale di Repsol, ha tolto la scena agli altri ministri presentandosi davanti al Parlamento per difendere il decreto e alle riunioni con i presidenti delle Banche argentine coinvolte nell’affare.
Figlio di due psicanalisti (uno sport nazionale in Argentina, paese che vanta il maggior numero procapite di seguaci di Freud e Jung), Alex Kicillof è cresciuto nella tipica famiglia intellettuale e benestante di origine ebrea di Buenos Aires. Ha frequentato ottimi collegi privati e si è formato in un ambiente politicamente di centrosinistra, per niente religioso, e neppure peronista. Nonno paterno industriale e tutti gli anni vacanze al mare in Uruguay come qualsiasi rampollo delle classi medio-alte. Due fratelli; un maschio più grande, Nicolàs, che lavora come manager della Microsoft di Bill Gates negli Stati Uniti, e una sorella più piccola, Irene, psicologa come la mamma. Negli anni dell’Università fondò un’associazione di giovani economisti di estrema sinistra, la Tnt (Tonti ma non troppo). Poi carriera universitaria e qualche libro, finché quello che oggi qualche giornale vicino alla Kirchner definisce addirittura “il Kennedy d’Argentina” non andò nel 2008 a scuola a Caracas da Hugo Chàvez mentre il presidente bolivariano era impegnato nella nazionalizzazione di una succursale della Techint, la multinazionale italo-argentina dell’acciaio.
Fulminante poi fu l’incontro con Maximo Kirchner e con “La Campora”, il gruppo politico dell’èlite peronista fondato dal figlio di Néstor e Cristina nel 2003. Il nome s’ispira ad Hector Campora, l’uomo che nel 1973 guidò il movimento peronista, appena legalizzato, mentre Peròn era in esilio a Madrid e divenne presidente per 43 giorni prima che il generale tornasse in patria acclamato dal popolo.  Campora, al contrario di Peròn, era il leader dell’ala sinistra del peronismo, quella vicina ai Montoneros.  Così oggi i giovani della Campora sono affascinati dall’idea della “patria grande” latinoamericana, predicano la cosiddetta “sovranità industriale” (niente multinazionali in Argentina), difendono i diritti umani, i sindacati e la giustizia sociale. Dopo la morte di Néstor Kirchner è ai giovani intellettuali guidati dal figlio Maximo che s’è appoggiata Cristina per costruire il nucleo duro dei “talebani” del suo governo. Ed è in questo crogiuolo politico, dove Ax “l’economista che sfugge le cravatte come la peste” si è costruito la sua leadership, che è nata l’idea dell’esproprio di Repsol come soluzione per i guai energetici dell’Argentina. Isolata dai mercati del credito internazionale per il default del 2001 Cristina (e l’Argentina) non  può permettersi di importare petrolio come è stata costretta a fare nel 2011 per sostenere la domanda interna di energia. Da qui l’accusa a Repsol di non investire abbastanza nella produzione di greggio nazionale di YPF e il colpaccio di Kiriloff che adesso dovrà affrontare la sfida: rendere l’Argentina non solo “padrona delle sue risorse energetiche” ma anche autosufficiente.

lunedì 16 aprile 2012

Miti Infranti (da repubblica 15 aprile 2012)






Juan Carlos va a caccia di elefanti fratture e polemiche per il re di Spagna


OMERO CIAI

UNA caduta accidentale, tre fratture all'anca destra, rientro d'urgenza dal Botswana, intervento chirurgico, protesi e tante polemiche. L'ultima battuta di caccia all'elefante in Africa è costata cara, anche in termini d'immagine, al sovrano spagnolo da sempre grande appassionato del genere.

Non fosse stato per l'incidente, con ogni probabilità la visita privata nel paese africano sarebbe anche rimasta segreta perché la Casa reale spagnola ha l'abitudine di non rendere noti, soprattutto per ragioni di sicurezza, gli spostamenti dei membri della famiglia reale quando non sono impegni ufficiali.

Per il sovrano, che ha compiuto 74 anni lo scorso 5 gennaio, si tratta della quarta operazione negli ultimi due anni. Nel maggio del 2010 venne operato di un tumore benigno ai polmoni, un mese dopo gli è stato applicato un ginocchio artificiale e, a settembre dell'anno scorso, è stato curato per una lesione al tendine d'Achille. La caduta non è avvenuta durante la caccia ma all'accampamento. Juan Carlos è stato rimpatriato d'urgenza con un volo di dieci ore in un aereo privato e operato all'alba di ieri nell'ospedale San José a Madrid. La degenza in ospedale dovrebbe durare al massimo una settimana. La regina Sofia non si trova in Spagna ma in Grecia, in vacanza con i suoi fratelli.

Il Botswana, un paese dove Juan Carlos si è recato altre volte per partecipare ai safari, non gli porta fortuna. Nell'agosto del 2005 fu sorpreso lì quando in Afghanistan venne abbattuto un elicottero spagnolo e 17 militari rimasero uccisi in uno dei più gravi incidenti delle missioni all'estero dell'esercito di Madrid.

Questa volta il viaggio è coinciso con l'incidente al nipote tredicenne Froilan, il figlio dell'infanta Elena, che si è sparato accidentalmente ad un piede con un fucile a pallettoni.

L'incidente al re e il contesto nel quale è avvenuto hanno provocato in Spagna molte polemiche. Per una ragione contingente: il paese sta attraversando la più grave crisi economica della sua storia recente. E per una etica: oltre ad essere animali amati dai bambini, dolci e mansueti, gli elefanti sono considerati una specie che presto potrebbe essere in via d'estinzione per l'avidità di coloro che commerciano con le loro pregiatissime zanne. Il Botswana è uno dei pochissimi paesi africani che ancora permette la caccia a questi mammiferi in cambio di versamento allo Stato che va da un minino di 10mila ad un massimo di 30 mila euro. L'imbarazzo è grande. La pagina web di "Rann Safari", azienda che organizza battute di caccia all'elefante in Botswana (45mila euro per due settimane) e che usava come pubblicità vecchie foto del re, è scomparsa da Internet. Mentre sulla rete si sono scatenati gli ambientalisti. Secondo il Wwf gli elefanti potrebbero estinguersi in molte zone dell'Africa nel corso dei prossimi 50 anni. Il caso più recente di caccia illegale è stato documentato a febbraio in Camerun: in una settimana guerriglieri sudanesi hanno sterminato 450 animali.