domenica 25 maggio 2014

Cuba, la fuga dei figli di papà (Repubblica 25 maggio 014)


OMERO CIAI

MIAMI. L'ultimo a passeggiare sullo scintillante lungomare di South Beach, in Florida, è stato Josué, il  figlio più piccolo del generale Abelardo Colomé Ibarra. Guerrigliero sulla Sierra, oggi Ministro degli interni, membro del ristretto Burò politico del partito comunista, e uomo di Raúl,  Abelardo Colomé Ibarra, detto "Furry", 75 anni, è uno dei tanti grandi dinosauri del socialismo tropicale con prole all'estero, lontana dalle indigenze dell'isola dei fratelli Castro.  Qualche tempo fa, suo figlio Josué Colomé Vázquez ha preso un aereo dall'Avana a Cancun, in Messico, ha attraversato la frontiera con gli Stati Uniti, chiesto asilo, e raggiunto sua madre, Suri Vázquez Ruz, ex moglie di "Furry", che vive in esilio a Miami da alcuni anni. Poi Josué ha postato sulla sua pagina Facebook una sua foto sull'Ocean drive di Miami Beach accanto a una Ferrari e in un bar davanti a un  frullato, sorridente e felice. "Josué è stato sempre molto legato a sua madre" - confidano nella abbondante, e ormai anche molto variegata, comunità cubana di Miami: oltre un milione di anime che vivono nel lembo capitalista dello Stretto della Florida - "e alla fine ha scelto di raggiungerla". Ma lo stesso hanno fatto Glenda Murillo, figlia di Marino Murillo, lo zar a Cuba delle riforme economiche, fuggita a Tampa, Florida, dopo uno stage di studi in Messico. E Pablo Ernesto Remirez de Estenoz, 24 anni, figlio di un ex ministro degli Esteri ed ex capo della delegazione cubana a Washington. E ancora Ernesto Andollo, figlio del generale Leonardo Andollo Valdés. O Antonio Luzon, figlio di un vicepresidente del Consiglio dei ministri. E se qualcuno lascia l'isola per amore, come Glenda che ha raggiunto il suo compagno nonostante la resistenza del padre; altri lo fanno per insofferenza  e avversione. Ernesto Andollo ha postato sul web una foto mentre in un museo delle cere stringe il collo a una statua di Fidel Castro, e Pablo Remirez una sua immagine davanti al "Versailles", il famoso ristorante tempio dell'anticastrismo negli Stati Uniti.

La diaspora cubana non è una novità ma la lista di familiari della nomenclatura che, nonostante i privilegi di cui godono sull'isola, scelgono di andarsene, è così nutrita da lasciar credere che ai nipotini della rivoluzione del futuro socialista importi davvero poco. "Bisogna distinguere - dice lo scrittore cubano in esilio Norberto Fuentes - perché alcuni vanno all'estero a studiare, o a fare affari, e nei progetti del regime saranno la nuova classe dirigente, quelli che dovranno perpetuare il castrismo dopo Fidel e Raúl. Altri invece rompono". Fra quelli che tagliano i ponti, un esempio è Juan Juan Almeida, figlio del comandante Juan Almeida Bosque, morto nel 2009, che oggi lavora nell'odiata America per un network anticastrista, "Martinoticias". Mentre sull'altro fronte si può citare la nipote di Castro,  figlia del primogenito Fidelito, Mirta Castro Smirnova, laureata in fisica nucleare in Spagna, dove risiede, quando ancora per la maggior parte dei cubani era vietato uscire dall'isola.  Altri ancora si muovono con discrezione, come pesci sott'acqua. Senza dare troppa pubblicità a quella che nelle fila del castrismo può essere ancora oggi bollata come "diserzione". E' il caso di Lourdes Argivaes, nipote di Celia Sanchez - la potentissima segretaria di Castro nei primi anni della rivoluzione - , e ex moglie di uno dei figli di Che Guevara, che vive a Marbella in Spagna. E di Deborah Andollo, anche lei come il già citato Ernesto, figlia del generale Andollo Valdés, che lavora in un acquario con i delfini sull'isola di Cozumel, in Messico.

"La rivoluzione - ha scritto la giornalista americana Ann Louise Bardach - ha frantumato le famiglie cubane provocando scontri fra cugini, zii e zie, fratelli, sorelle e padri".  Una tragedia greca alla quale neppure la famiglia del líder maxímo è stata estranea. Suo cognato, il fratello della sua prima moglie, Mirta, la madre di Fidelito, e suo amico alla facoltà di Giurisprudenza negli anni dell'Università, Rafael Diaz-Balart, si esiliò in Florida e divenne un acerrimo nemico dei "barbudos". Sua sorella, Juanita, lasciò Cuba per gli Stati Uniti e lavorò addirittura per la Cia. Come la sua famosa figlia illegittima, Alina Fernandez Revuelta. Lontano da Cuba vivono anche i figli e i nipoti di Ramon Castro Ruz, il fratello maggiore di Fidel e Raúl. Ma erano altre epoche, oggi quelli che se ne vanno sono gli eredi più giovani di coloro che conservano da oltre mezzo secolo il potere sull'isola. Come la giovane caporedattrice del "Granma", il quotidiano del partito, Mairelys Cuevas Gomez, o il figlio dell'ex direttore Lazaro Barredo. A spingerli lontano, loro che in un regime quasi monarchico potrebbero facilmente succedere ai padri, sarà forse la noia, la monotonia, il grigiore socialcomunista, come giustificò la sua defezione la scrittrice Zoé Váldes dopo l'opera prima, "Il nulla quotidiano", appunto. Oppure l'irrequietezza giovanile, quella che anima uno degli ultimi scandali di Cuba dal punto di vista del sistema, con il figlio, "Silvito el libre", di un mostro sacro della retorica rivoluzionaria, come il cantautore Silvio Rodriguez, che se ne va in giro per il mondo a suonare rap contro il socialismo. "Amo mio figlio qualsiasi cosa pensi", ha detto Silvio Rodriguez per proteggerlo dalle ire dei censori.

Ma vivono all'estero anche i figli di uno dei generali della linea dura, Ramiro Váldes, plenipotenziario della strategica missione nel Venezuela di Chávez e Maduro, e oggi numero tre del regime. Ramirito, che ha rotto con il padre e vive a Palencia, in Spagna, e Agustin. E quello di uno degli intellettuali più vicini a Fidel, lo storico e urbanista Eusebio Leal, che risiede a Barcellona e dipinge. In America vivono i figli di Isabel Rodriguez Lopez-Callejas, sorella di Luis Alberto, il marito della figlia maggiore di Raúl, Deborah, generale dell'esercito e uno dei manager più influenti nelle industrie di Stato gestite dalle Forze armate. Ma anche Margarita, la figlia di Ricardo Alarcon, per vent'anni presidente del parlamento cubano, e a lungo indicato come delfino e successore di Fidel. E Camila, la figlia di Manuel Piñero, al secolo "Barbaroja", l'uomo che gestì dall'Avana tutte le guerriglie sudamericane filo castriste, che ha sposato un americano. E' un'onda, questa dei "figli di papà", che non si ferma e che in Florida, tra gli esponenti del vecchio esilio, quello degli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, quando dall'isola fuggivano solo gli oppositori, sta creando qualche malumore verso il governo americano. "Stanno offrendo asilo ai figli dei repressori", sussurra più d'uno.


Vasta è anche la comunità dei figli degli eroi caduti in disgrazia. Risiedono all'estero, fra Miami e Madrid, Ivan, Lily e Juan Carlos, figli di José Abrantes, ministro degli interni morto in carcere nel '92. Diana Ochoa, figlia del generale Arnaldo Ochoa fucilato nell'89. Ileana e Antonio de la Guardia, figli di Tony, un capo dell'intelligence giustiziato insieme ad Ochoa. Jorge Masetti, figlio di Ricardo Masetti, il giornalista amico del Che, che fondò l'agenzia di stampa cubana, Prensa Latina. E Liset Ulloa, ex moglie di Antonio Castro, detto "il principe", figlio favorito di Fidel. Ma tra i fuggitivi in cerca di un diverso futuro, più o meno tollerati dall'Avana, ci sono figli di militari, ex ambasciatori, funzionari, noti e ignoti nelle gerarchie della burocrazia cubana. Tutti in attesa di un epilogo. Se mai ci sarà.

sabato 3 maggio 2014

Il presidente Correa e i figli del giaguaro (repubblica 1 maggio 014)







HA un bel problema Rafael Correa, presidente dell’Ecuador, sempre un po’ muscoloso con gli avversari politici. “I figli del giaguaro” si sono messi contro di lui e, visti i precedenti, rischiano anche di vincere la nuova contesa. Tre condannati per oltraggio al Capo dello Stato si sono rifugiati nella zona protetta amazzonica dei Sarayaku, comunità di indios nativi, noti appunto come i “figli del giaguaro” per la loro audacia e determinazione. E soprattutto famosi per aver vinto due anni fa una interminabile causa giuridica contro le multinazionali del petrolio, pronte a perforare la “Pachamama”, l’intoccabile “Madre Terra” dei loro avi, in cerca di nuovi giacimenti di greggio. L’assemblea Sarayaku s’è riunita e ha deliberato che “per rispetto dei diritti umani” i tre ricercati avranno tutta la protezione necessaria all’interno della riserva nonostante il presidente Correa abbia ordinato a polizia e esercito di arrestarli al più presto.

Ora la situazione è di stallo: gli indios denunciano via radio che il loro territorio, 3mila km quadrati nel sud-est del Paese, viene sorvolato da aerei militari e che le Forze armate stanno circondando i limiti della loro area, ma si rifiutano tenacemente di consegnare i tre fuggiaschi. Politicamente è un gran guaio perché i tre non sono delinquenti comuni. Uno è un deputato, Clever Jimenez; un altro è un giornalista, Fernando Villavicencio; l’ultimo è un medico, Carlos Figueroa. La vicenda risale a tre anni quando fa Jimenez, deputato di un partito oppositore, chiese alla magistratura di indagare sul comportamento del presidente nel corso di una rivolta di agenti di polizia che chiedevano aumenti salariali. Correa ci rimase male, denunciò a sua volta Jimenez e, qualche mese fa, ha vinto la causa. 

Jimenez e Villavicencio sono stati condannati a diciotto mesi, Figueroa a sei, e tutti e tre a risarcire 140mila dollari per danni morali.
Il territorio dei Sarayaku è facile da raggiungere solo per via aerea. Dall’ultima città prima della foresta amazzonica, El Puyo, ci vogliono due o tre giorni di navigazione lungo i fiumi; oppure otto giorni di viaggio via terra. Ma c’è di più: è un’area in- violabile, dove Forze armate e polizia non possono entrare neppure per insediare i seggi elettorali, grazie anche alla nuova Costituzione voluta da Correa. Loro sono un popolo guerriero — immortalato in un film di Amnesty, Children of the jaguar — celebre per le sue battaglie: prima delle compagnie petrolifere cacciarono dai loro villaggi i missionari cattolici e i soldati dell’Ecuador. E ne vanno fieri: «Siamo il popolo del mezzogiorno, il popolo del Sole più alto. Altri sono stati sottomessi ma Sarayaku non cadrà. Sarayaku resisterà», recita la loro canzone ancestrale.

Jimenez e i suoi due collaboratori hanno presentato ricorso per la condanna presso la Corte interamericana dei diritti uma- ni ma nei Sarayaku hanno tro- vato un alleato che può compli- care i progetti di Correa. Presi- dente dal 2007, molto vicino al movimento bolivariano di Hu- go Chávez, Correa è considera- tounodeileaderdel“socialismo del XXI secolo”. E accusato in patria, come lo fu Chávez, di vo- ler imporre nel suo paese un nuovo regime. Non è peraltro nuovo nel ricorrere ai tribunali — che l’opposizione critica co- me sottomessi alle volontà del presidente — per dirimere le dispute politiche. Oltre ai tre rifugiati nella foresta, querelando per diffamazione ha portato alla sbarra un giornale, El Universo, e compare come vittima in un’altra ottantina di procedi- menti giudiziari. Tanto che, sia la Commissione interamericana per i diritti umani, sia l’organizzazione Human Rights Watch, hanno pubblicato dossier segnalando inquietudine per la libertà d’espressione in Ecuador.

Adesso i “figli del giaguaro” hanno scompaginato la scena offrendo “asilo” ai tre condannati. Mandare l’esercito ad arrestarli non è praticabile, soprattutto dal punto di vista dell’immagine. Correa spiega che si tratta di tre fuggiaschi e che i Sarayaku, proteggendoli, sfidano le leggi dello Stato. «Cosa può accadere — riflette il presidente — se qualsiasi comunità si considerasse depositaria di un’autorità tale da disobbedire alla Giustizia?». Un precedente inaccettabile. E anche un guaio bello grosso.