domenica 1 aprile 2018

Le due anime della Catalogna. (La Repubblica, 8 settembre 2017)



A Madrid il governo centrale all’attacco dopo la sfida lanciata dal Parlamento catalano.
 Rajoy: «Farò tutto il necessario per impedire il referendum sull’autodeterminazione»
 Ma a Barcellona vanno avanti e votano la legge che regolerà la separazione



DAL NOSTRO INVIATO
Omero Ciai

BARCELLONA - L'ultimo leader politico che dichiarò l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna, venne fucilato nella fortezza di Montjuic a Barcellona. Si chiamava Lluís Companys ed era il presidente della Generalitat, il governo autonomo catalano. L’indipendenza in realtà durò poche ore ma alla fine della Guerra civile spagnola vinta dal generale Francisco Franco, Companys si rifugiò in Francia. Nel 1940 venne catturato dalla Gestapo hitleriana e consegnato a Franco che lo fece condannare a morte, dichiarò la Catalogna “una regione nemica”, abolì l’autonomia, e cancellò l’uso del catalano. Durante il franchismo (1939-1975), si poteva finire in galera per parlarlo. Come dicono a Madrid, la società catalana è malata di passato, e in effetti il leit-motiv dell’oppressione, quella del nazionalismo, cattolico e monarchico, della Castiglia centralista di Franco, è ancora una pietra miliare nei ragionamenti dei secessionisti. L’oppressione è finita quarant’anni fa con il ritorno della democrazia e la riconquista dell’ampia autonomia, culturale, politica e linguistica, di questa regione che è, per il suo Pil (200 miliardi di euro all’anno), tra le più ricche della Spagna, ma non l’ha dimenticata nessuno. Così per provare a capire cosa si muove in quella parte della società catalana che trascinata dal governo nazionalista di Carles Puigdemont vuole il referendum sull’indipen- denza e sogna la “Catalexit”, il distacco dal resto del Paese, siamo venuti a Vic, cittadina medievale dall’aria molto toscana a metà strada fra Barcellona e la frontiera con la Francia. Quarantamila abitanti, il Comune di Vic si è già autoproclamato nel 2012 “territorio catalano libero e sovrano”. E basta guardarsi in torno per osservare come qui lo spagnolo - sarebbe più corretto dire il castigliano - è una lingua straniera che tutti usano, quando necessario, malvolentieri, e la Spagna nient’altro che un Paese confinante. Sulla bellissima Plaça Major, ricorda Siena anche per il pavimento di sabbia rossiccia, c’è un grande orologio digitale con il countdown dell’indipendenza - giorni, ore e minuti che mancano al referendum del primo ottobre -, e dai balconi dondolano le esteladas, le bandiere nazionaliste, quelle gialle e rosse ma con il triangolo blu o rosso e la stella. Il cuore del separatismo palpita qui, nella Catalogna centrale, tra Manresa e Brega, dove la “disconnessione” da Madrid è già un dato di fatto da qualche anno, con le insegne dei negozi rigoro- samente in lingua locale e dove persino i cellulari sono tutti resettati in catalano.

“Gli spagnoli ci trattano come una colonia”

Del risorgimento della lingua, vera chiave di volta delle aspirazioni separatiste, parliamo con Marc Sardà, 42 anni, piccolo imprenditore e programmatore web, ma soprattutto responsabile locale di “Òmnium Cultural”, una ong nata nel 1962, sotto la dittatura, per difendere e promuovere lingua e cultura catalane. «Certo - racconta Marc - fino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, il catalano si imparava soltanto a casa, erano i genitori che lo trasmettevano ai figli. Ma poi quando finalmente la Generalitat recuperò le competenze sull’istruzione mise in pratica la cosiddetta “immersione” e questo cambiò tutto. Oggi in Catalogna in tutte le scuole pubbliche si studiano tutte le materie in catalano, lo spagnolo c’è solo come lingua, due-tre ore a settimana, come l’inglese. L’immersione scolastica - grande idea di Jordi Pujol (il leader che governò la Generalitat dal 1980 al 2003) - ci ha trasformati perché oggi, nel giro di un paio di generazioni, anche i figli dei migranti - sia interni dall’Andalusia e Estremadura; sia esterni, soprattutto Marocco - hanno come lingua madre il catalano, sono integrati, si sentono catalani». Su Madrid, Marc ha idee abbastanza radicali. «Perché non ci fanno fare il referendum? Una consultazione che trova d’accordo qui il 75% degli elettori, convinti che la questione della secessione deve essere decisa dalle urne? Semplice. Perché la transizione spagnola ha lasciato al potere gli eredi del franchismo. Chi è Mariano Rajoy? Politicamente è cresciuto all’ombra di Manuel Fraga. Durante la dittatura Fraga era un ministro, con la democrazia fondò il partito della destra e poi divenne governatore della Galizia. Rajoy è l’erede politico di un ministro franchista. Come possiamo intenderci con loro?». «Lo Stato spagnolo - insiste Marc - è antidemocratico e corrotto e l’indipendenza della Catalogna potrà solo fargli del bene perché saranno costretti a ripensare il modello quando non potranno più sopravvivere grazie alle colonie, ossia noi, la Comunità valenziana e le Baleari. Faccio un esempio concreto: da anni il governo spagnolo si oppone a una linea del treno veloce, l’Ave, lungo il corridoio mediterraneo, da Almeria a Barcellona, che è anche la via più semplice per l’export. Perché? Perché hanno una mentalità cen- tralista, tutto deve passare per Madrid, così un pomodoro prodotto in Andalusia per arrivare a Barcellona deve andare prima a Madrid. Tutto il sistema ferroviario super veloce è radiale, centralista. Ma il 50 per cento della popolazione spagnola vive lungo il corridoio mediterraneo e l’80 percento delle esportazioni vengono da qui. Perché non lo fanno? Per umiliarci e per impoverirci». «Ma tutto il problema di questa storia - aggiunge - sta soltanto nel fatto che loro, Madrid, hanno più bisogno di noi di quanto noi abbiamo bisogno di loro». Anche sul futuro del Barça, “Il club che è più di un club”, Marc ha le idee chiare. «Continuerà a giocare nella Liga - il campionato di calcio spagnolo - come il Monaco di Montecarlo in Francia. Se poi non ci vogliono andremo a gio- care da un’altra parte. I francesi secondo me si prendono il Barça nel lo-ro campionato». E l’Europa? «Resteremo europei, non posso immagina- re una Catalogna libera fuori dall’Europa. Ma se Madrid ci costringe a restare fuori faremo come la Svizzera, neanche loro stanno nell’Unio- ne e vivono benissimo». E se al referendum vincesse il “no”? «Ecco - conclude Marc - qui sta la differenza. Noi siamo democratici e se vincesse il “no” ne prenderemmo atto. Certo poi, come il Québec o la Scozia, chiederemmo di tornare a votare tra cinque o dieci anni».

“Se proclamano l’indipendenza me ne andrò”

L’altra faccia della Catalogna si può andare a cercarla a Rubí, città dor- mitorio nell’hinterland di Barcellona a 20 chilometri dalla metropoli capitale. Negli anni Settanta del Novecento Rubí era un villaggio di tremila abitanti, oggi ne ha quasi 80mila. È stato soprattutto l’effetto di
una migrazione interna, avviata mezzo secolo fa, dalle regioni povere
del sud del Paese - Andalusia, Estremadura - verso il nord ricco e economicamente prospero. Oggi l’economia di Rubí è legata a un grande stabilimento di una multinazionale farmaceutica tedesca, a
una rete di piccole aziende e alla ristorazione. Molti dei suoi abitanti lavorano nei bar, ristoranti e alberghi di Barcellona, in grande crescita - almeno fino all’attentato jihadista sulla Rambla - per il boom del turismo. Rubí è diventata famosa anche per essere l’unico municipio catalano che ha celebrato l’anniversario della Costituzione spagnola. L’anno scorso all’inizio di dicembre. Sugli scalini del palazzo comunale un 
gruppetto di nazionalisti hanno bruciato una copia della Costituzione mentre la sindaca socialista, Ana Maria Martínez, ne declamava alcuni articoli. Da quel giorno Martinez è diventata una piccola eroina a Madrid, come l’unico sindaco che ha avuto il coraggio di affrontare a viso aperto l’onda indipendentista montante.Montse Triviño è figlia di immigrati. Nacque qui ma suo padre era andaluso e sua madre galiziana. 44 anni, due figli, marito commerciante, Montse ha sempre lavorato come colf, cameriera o barista anche se adesso è disoccupata. E dice che con suo marito hanno parlato di andare via se vince l’indipendenza. A Montse, l’immersione scolastica nel catalano di Pujol non è mai piaciuta. «Noi a casa parliamo spagnolo. È la lingua nella quale mi hanno educato i miei genitori e io ho educato i miei figli. Certo che mi sento catalana ma soprattutto mi sento spagnola e mi terrorizza l’idea di vivere in un nuovo Stato nel quale mi sentirei un paria. Da piccola, a scuola, prima che imparassi a esprimermi anche in catalano mi chiamavano “charnega” (vocabolo che corrisponde al nostro “terrona”) e ho già sofferto abbastanza. In realtà mi sento straniera nella mia terra. Per esempio quando a calcio gioca la Spagna, i catalani gli tifano contro, sperano che perda. E non puoi mica mettere la bandiera sul balcone perché te ne dicono di tutti i colori. Adesso c’è il boom dell’indipendenza, non si parla d’altro, e tanti sono convinti che le cose andranno meglio se la Catalogna diventerà una nazione separata. Io non ne sono per niente convinta. Saremo fuori dall’Europa e tante aziende se ne andranno. Non sarà facile attirare nuovi investimenti e di sicuro aumenteranno le tasse. Ma questi non ci sentono, si immaginano l’arrivo di una arcadia ricca e felice perché oggi, secondo loro, la Spagna opprime, rapina e offende la Catalogna».

“Anni di indottrinamento culturale”

Maria Domingo ha 22 anni, frequenta il quarto anno di Scienze politiche all’Università autonoma di Barcellona e fa parte di una associazione anti-indipendentista che si chiama “Sociedad civil catalana”. Maria è la rappresentazione perfetta della profondità della frattura, politica, sociale, familiare, che vivono i catalani. La famiglia della mamma di Maria è di destra nazionalista, il PdeCat di Artur Mas, e sono tutti indipendentisti. La famiglia del padre è andalusa e sono comunisti. Ora i comunisti, ossia Izquierda Unida sono alleati con Podemos di Pablo Iglesias,
appoggiano lo svolgimento del referendum ma sulla secessione si astengono. Lei, come abbiamo detto, milita con gli unionisti. Maria vive a Sant Cugat, un fortino nazionalista nella periferia industriale di Barcellona. E sostiene che da qualche tempo l’atmosfera, soprattutto all’Università, si è andata sempre più radicalizzando. Lei ha subito minacce verbali e tentativi di aggressione fisica. La sua associazione all’Autonoma viene presa di mira dai gruppi secessionisti dell’estrema sinistra catalana. «Non vado alle feste di paese - racconta Maria -, evito i locali, bar o discoteche, per timore che succeda qualcosa, che qualcuno possa aggredirmi per il mio impegno politico unionista. Purtroppo c’è molta intolleranza». Maria denuncia anche anni di “indottrinamento” nella scuole pubbliche a favore della catalanità, libri di testo che danno per scontato la Catalogna come nazione, imposizione della lingua, persecuzione di chi chiede più ore di spagnolo nelle classi, il divieto in alcuni collegi scolastici di usare lo spagnolo, le cosiddette multe linguistiche ai negozi che non sostituivano le insegne in lingua spagnola. Come le difficoltà per la libera circolazione dei professionisti. È successo - aggiunge - con medici di altre regioni di Spagna che non possono trasferirsi a lavorare in Catalogna se non hanno un buon livello di conoscenza della lingua locale. E conclude: «Penso che la Catalogna vende all’esterno una dimensione internazionale ma in realtà guarda solo il suo ombelico. L’indipendenza per un giovane è pericolosa perché in Europa nessuno la appoggia e potremmo essere costretti a resta- re fuori dall’Unione mentre io vorrei poter studiare in altri Paesi, fare un master lontano da qui. La separazione dalla Spagna non mi mette le ali, me le taglia».

Le conseguenze sull’economia

Uno degli aspetti più discussi e concreti della separazione sono gli effet- ti sull’economia di Spagna e Catalogna. Per Madrid il prezzo è secco: perderebbe il 20% del suo Pil nazionale e 16 miliardi di euro di contributi che incassa con le tasse. Catalogna, Baleari e Madrid, sono le tre comunità regionali più ricche e quelle che versano allo Stato più di quan- to ricevono. Ma le conseguenze per la Catalogna di un distacco non negoziato con la Spagna quali sarebbero? Qui i conti sono più complicati soprattutto perché secessionisti e unionisti si affidano a previsioni molto diverse, a seconda delle convenienze. Se restiamo alla pragmatica tutti gli economisti sono d’accordo che economicamente indipenden- te il nuovo Stato potrebbe sopravvivere senza problemi. La Catalogna ha più o meno gli abitanti della Svizzera, circa 7,5 milioni, una dimen- sione territoriale simile a quella del Belgio, e un Pil procapite come quello della Norvegia. Il guaio però potrebbe essere la transizione di una rottura violenta con Madrid. La prima conseguenza infatti sarebbe l’uscita dall’Europa e dall’euro, e la perdita della rete di sicurezza che rappresenta per i sistemi bancari la Banca centrale europea (Bce). Bruxelles ha anche chiarito, a suo tempo alla Scozia e adesso alla Catalogna, che una scissione non concordata da uno Stato membro dell’Unio- ne significa automaticamente l’uscita dalla Ue e la perdita dei fondi strutturali e di investimento europei. Altro problema per la Catalogna potrebbe essere il cosiddetto “effetto frontiera”. Oggi la Catalogna esporta prodotti in Spagna per 44 miliardi di euro all’anno, il 65% di tut- to l’export. In Europa per 37 miliardi e nel resto del mondo per 22 miliardi. Non facendo più parte della Ue il suo export nei Paesi europei soffrirebbe come minimo nuovi dazi mentre con la Spagna si teme addi- rittura un boicottaggio. Per questi motivi, alcuni istituti di analisi eco- nomica, come quello del Credit Suisse, dipingono scenari a tinte fosche. Con rischi di isolamento economico e impoverimento. Tutti paesaggi che i responsabili del governo catalano, anche prima di aver lanciato il treno dello strappo da Madrid a tutta velocità sul binario dell’indipendenza, respingono come fallaci perché sono convinti, o forse illusi, che alla fine tutto il mondo prenderà atto dell’irreversibilità di questo ethos catalano verso la libertà e non cambierà nulla. «Resteremo in Europa e nell’Euro», dicono. Di economia parliamo a Vic con Joaquim Comilla. Imprenditore, 77 anni, e proprietario, insieme alla moglie e al figlio, di una delle più antiche aziende alimentari della zona. «Esistiamo da 169 anni», dice orgoglioso mostrando i quadri di tutti quelli che lo hanno preceduto alla guida della rinomata “Casa Riera Ordeix”, fabbrica di insaccati dove si produce la Llonganissa, il salame doc di Vic. «Le grandi industrie - dice Comilla -, le multinazionali che risiedono in Catalogna osteggiano l’indipendenza per le conseguenze che temono. Mentre noi piccoli o medi siamo a favore. La mia famiglia è favorevole. D’altra parte sono anni che soffriamo il boicottaggio da parte della Spagna dei nostri prodotti, abbiamo perso clienti da quando è iniziato con più forza il procès, l’idea della disconnessione. Persone che dicono “Questo è catalano? Allora non lo compro”. Un amico una volta mi raccontò che una signora a Madrid si confuse leggendo una etichetta e chiese: “È scritta in catala- no? Non la compro”. E lui: “Ma no signora è un prodotto portoghese”. Abbiamo già perso molte vendite in Spagna - assicura Comilla - ma le abbiamo sostituite con le vendite in Europa. Tranne l’Italia, per ovvie ragioni, andiamo benissimo in Francia, Germania, Inghilterra. Quindi come catalano da generazioni come potrei essere contro l’indipenden- za? Sarei stupito visto che ne soffro già i problemi con la riduzione del- le vendite in Spagna». «Vede - aggiunge - bisogna anche considerare che adesso le questioni economiche sono secondarie. La Catalogna in- dipendente oggi è soprattutto un sentimento, una passione, un’idea di comunità da ricostruire. Il centralismo di Madrid ci offende continua- mente e in tanti siamo stufi. Ci vogliono in Spagna solo per pagare le tas- se, in realtà ci disprezzano e quando possono farci del male sono con- tenti di farlo. Per farmi capire faccio un esempio con l’atteggiamento degli spagnoli verso un’altra comunità autonoma storica, i baschi. Se lei apre due ristoranti a Siviglia sulla stessa strada. E in uno c’è scritto “cucina basca” e nell’altro “cucina catalana”, il primo si riempie, il se- condo resta vuoto. Lontano da Barcellona non ci amano». Poi anche con Comilla ritorna il tema del sentirsi colonia in Spagna. «Il nostro con Madrid è come un matrimonio tra due persone che non si sopportano più. È meglio per tutti che ognuno vada per la sua strada. Tutto questo naturalmente è successo per mancanza di dialogo. Quando il presidente della Generalitat era Artur Mas andò a Madrid a incontrare Rajoy e proporgli un nuovo patto fiscale. Se Rajoy invece di chiudergli la porta sul naso avesse accettato di discuterne probabilmente oggi non staremo parlando di referendum. La gente qui si è arrabbiata. Abbiamo sopportato fin troppo. Lo stesso nel 2010 quando si negoziò il nuovo Statuto di autonomia che venne approvato dal Parlamento e poi stracciato dal Tribunale costituzionale. Col nuovo Statuto saremmo rimasti in Spagna altri cinquant’anni. Ma dopo che lo bocciarono qui è risorto sempre più forte il desiderio del distacco». Altri due temi preoccupano Joaquim Comilla. Il primo è quello del quale si vergogna la sua genera- zione di catalani ed è la morte politica di Jordi Pujol, il grande creatore del nazionalismo catalano moderno, eletto e rieletto presidente della Generalitat per 23 anni di seguito, dal 1980 al 2003, ma finito poi insie- me alla moglie e ai figli in una grande inchiesta di corruzione per nume- rosi milioni di euro sottratti al fisco e conservati nei paradisi fiscali. L’altro è l’Europa. «Mi delude molto - dice - l’atteggiamento dell’Europa in questa nostra vicenda. Rischiamo di restarne fuori e non capisco come i legislatori di Bruxelles non abbiamo previsto soluzioni diverse, un modello, per questo tipo di crisi secessioniste. Noi o gli scozzesi potremmo essere come Portorico con gli Stati Uniti, uno Stato associato, senza dover ottenere da Madrid il permesso per restare nell’Unione».

Gli errori di Rajoy e la politica della disobbedienza

Molti sono convinti che il governo centrale a Madrid abbia commesso soprattutto errori dopo che una coalizione secessionista aveva vinto le elezioni regionali del 2015 in Catalogna. Il sistema elettorale spagnolo premia i partiti forti nelle aeree rurali, piuttosto che nelle grandi città. Ottenere un seggio a Barcellona costa più voti che a Vic. Anche per que- sto nel Parlamento regionale, una coalizione trasversale indipendenti- sta formata dalla vecchia Convergència di Pujol e Artur Mas - la destra - e da Esquerra Republicana - la sinistra - appoggiata dall’esterno dalla Cup, ha il 47,8 dei voti ma la maggioranza assoluta dei seggi. Una maggioranza politica ma non una maggioranza sociale che però ha permesso a Puigdemont, e al suo vice e uomo forte del governo, Oriol Junqueras, di portare la sfida separatista fino alle ultime conseguenze. Secondo i sondaggi oggi la scelta indipendentista contro quella unionista al referendum avrebbe la possibilità di prevalere per una manciata di vo-ti, 52 a 48 più o meno. Se Rajoy, invece di opporsi frontalmente alla richiesta del “diritto a decidere” il loro futuro attraverso una consultazio- ne popolare del governo catalano, avesse scelto, come il Parlamento britannico con la Scozia, di accettare la sfida sul terreno elettorale, avrebbe probabilmente vinto. Una campagna della paura, come quella inglese in Scozia, avrebbe potuto facilmente rovesciare il risultato attraendo alle ragioni spagnole gli incerti, invece di allontanarli. La Costitu- zione spagnola non prevede referendum di autodeterminazione ma una strada si poteva trovare. Visto che proprio il fatto che non lo preveda è ciò che rammenta ai catalani il nazionalismo insolente, castigliano e borbone, della Spagna “Una, grande e libera”, indivisibile e imperiale, com’era nell’ideologia del dittatore Franco. Carme Vilarò è una maestra ma soprattutto a Vic è la presidente dell’Assemblea nazionale catalana (Anc), il movimento della società ci- vile nato nel 2012 che ha come primo e unico obiettivo il referendum per l’indipendenza, l’ultimo atto del diritto all’autodeterminazione. «La lingua è il nostro gioiello. È ciò che ci tiene uniti e ci fa sentire una nazione. Ricordo ancora quando ero bambina, durante la dittatura, l’insegnante che ci obbligava in classe a parlare castigliano. Io non capivo niente. Confondevo il suo suolo con il sole. Perché a casa parlavamo catalano. Lo spagnolo serviva solo quando incontravi gli agenti della Guardia civil o dovevi andare alla Posta. Il mio primo anno da maestra di catalano nel 1980 fu eroico. Non avevamo nulla per insegnare. Non c’erano libri di testo, grammatica, favole per i bambini. Un metodo. Oggi - aggiunge orgogliosa - ai ragazzini che vengono dalla Siria insegna- mo a parlare catalano in tre mesi. La Catalogna ce l’abbiamo nel cuore, è una fiamma che arde. Sono andata a fischiare Rajoy e il re alla manifestazione per le vittime dell’attentato. Li ho fischiati perché non dovevano venire. Che vogliono con le loro bandiere spagnole? Quella non è la
nostra bandiera e lui non è il nostro re. Siamo repubblicani. Loro vogliono ancora spagnolizzarci, come diceva Wert, l’ex ministro dell’Istruzione, che ha cercato di imporci di nuovo lo spagnolo. Ma non ci riusciranno». La convinzione di Carme, mentre rovescia una schweppes sul tavolino di un bar sotto il countdown del referendum, è che il momento è adesso. «Hanno i cannoni e anche un esercito ma non possono usarli». «E se dovesse vincere il “no”, noi continueremo. Voglia- mo soltanto votare, è la democrazia». I due figli di Carme sono musicisti. Un ragazzo e una ragazza entrambi violinisti. Adesso vivono a Basilea e a Berlino. E non potranno votare. «La posta è spagnola e non ce la prestano». Sono indipendentisti anche loro? «Per forza, altrimenti sarebbero diseredati». Ride. Un altro modello a cui si guarda da Vic sono le Repubbliche baltiche. «Nascerà una nuova piccola nazione nello spazio europeo». Ma la Spagna vi boicotterà, e oggi la maggioranza dell’import e dell’export è con la Spagna. «Anni fa accadde con il Cava, lo champagne catalano. Mi ricordo che noi per prenderli in giro facemmo le magliette con scritto “boicottami”. Viviamo in un mondo globa- le, se gli spagnoli ci boicottano, commerceremo con qualcun altro». Più tardi, davanti a un piatto di pasta, la collega di Carme, Isabel, segretaria dell’Anc, svelerà la fermezza con la quale si avviano a compiere il salto. «A Madrid non hanno capito niente - dice Isabel - qui è tutto pronto. Sono anni che ci prepariamo. Con l’autonomia abbiamo già costruito un altro Stato. Istruzione, sicurezza, trasporti, sanità, ci manca sol- tanto il ministero delle Finanze. Si sono sbagliati, noi siamo pronti a staccarci. Ci basta disobbedire. E un proverbio catalano dice che quando il tuo nemico si sbaglia, non lo devi distrarre».

“I catalani sono totalitari”

Nessuno dei due grandi giornali di Barcellona, La Vanguardia e El Periódico, vede con simpatia la ribellione guidata da Puigdemont e Junqueras. Tutti gli altri giornali spagnoli sono fortemente contrari. I commenti di solito sono molti duri. L’accusa principale al governo catalano è di essere antidemocratico, di sfidare la Costituzione, e di aver scelto un cammino che li porterà al disastro, per aver imposto un referen-dum che non si sa neppure se riusciranno a far svolgere con un minimo di garanzie elettorali. Ana Moreno è diventata famosa perché ha denunciato al Parlamento europeo l’immersione in catalano nelle scuole materne e elementari. Andalusa, 37 anni, due figli di 5 e 7 anni, racconta che rimase sconvolta la prima volta che portò suo figlio a scuola. «Io e mio marito ci sia- mo trasferiti da Granada in Catalogna per ragioni di lavoro. Abbiamo cresciuto i nostri figli parlando spagnolo ma portandoli a scuola dovevo lasciarli nelle mani di un insegnante che parlava una lingua che loro non capivano. Ma il peggio arrivò dopo, con l’inizio delle elementari. Alle elementari in tutte le scuole pubbliche ci sono solo due ore di spagnolo alla settimana, come l’inglese. Così cercai altre soluzioni. Ma era- no solo scuole private che non potevo pagare. Decisi di presentare una denuncia contro il collegio di mio figlio per ottenere più ore. Vinsi. Il tribunale riconobbe un 25% del totale, ossia cinque ore alla settimana. E iniziò il disastro. La scuola si oppose perché così avrebbe dovuto da- re una materia in spagnolo a tutti i bambini e il direttore andò in tv a di- re che c’era una famiglia nel paese che pretendeva il bilinguismo e che non bisognava permetterlo. Poi scoprii che il mio nome era stato reso pubblico. E iniziò il boicottaggio. Il negozio che avevo nel paese fallì. Dovetti chiuderlo. Al collegio comprarono tutte magliette uguali e le distribuirono ai bambini tranne al mio per fare in modo che il primo giorno di scuola venisse identificato il figlio della famiglia che aveva chiesto più ore di spagnolo. Dovemmo lasciare il collegio. Adesso mio figlio e mia figlia vanno a scuola a 30 km da casa, dove non li conosce nessuno. Ma io non ho nulla contro il catalano, il mio problema era sol- tanto far avere ai miei figli la conoscenza sufficiente in spagnolo per quando saranno grandi. Con due ore a settimana non sanno scrivere, fanno errori di ortografia, non hanno un vocabolario adeguato, studia- no letteratura catalana e non letteratura spagnola, che è molto più im- portante». L’accusa di trattare nelle scuole lo spagnolo come una lingua straniera la condivide anche Rafael Avila, un professore di Liceo. «È un peccato, perché quando diventano grandi i nostri studenti hanno difficoltà con la lingua che si parla nel Paese in cui vivono: la Spagna».


La forza della legge

La strategia di Rajoy contro il governo catalano prevede, attraverso l’azione del Tribunale Supremo, sanzioni legali ed economiche. I promotori del referendum potrebbero essere condannati a pagarne personalmente tutte le spese, oltre a perdere per inabilitazione gli incarichi amministrativi ai quali sono stati eletti. L’ultimo passo di Madrid per fermare l’indipendenza potrebbe essere anche la sospensione dell’autonomia catalana, c’è un articolo di legge che lo prevede. Teresa Freixes, 67 anni, docente di diritto costituzionale, catalana di Lerida, «catalana - ci tiene a precisarlo - da numerose generazioni», è una fustigatrice della soluzione promossa da Puigdemont. «È un atto senza alcun sostegno legale. Va contro la Costituzione spagnola, contro il diritto dell’Unione europea e anche contro il diritto vigente in Catalogna. Qui abbiamo un Parlamento con una maggioranza secessionista alla quale però non corrisponde una maggioranza sociale per effetto della legge elettorale. Questo è un problema molto serio dal punto di vista della legittimità del procès. D’altra parte si pretende di fare il referen- dum illegalmente mentre ci sarebbe un modo per farlo legale, bisognerebbe modificare la Costituzione, ma vogliono imporre la loro maniera di poterlo fare. Penso che dobbiamo costruire l’Europa, non disgregar- la in piccole comunità nazionaliste. E non sono per niente convinta che sia facile per una Catalogna indipendente restare in Europa. Perché questa possibile scissione territoriale spaventa altri Stati europei, per esempio l’Italia che può temere per il Veneto. E se gli altri paesi eu- ropei accettassero che questo può accadere in Spagna dovrebbero ac- cettare anche che potrebbe accadere nei loro. Innescando una spirale pericolossima. In ogni caso, dal punto di vista politico, è una storia senza senso. Perché non è possibile costruire un nuovo Stato democratico contro lo stato di diritto e la democrazia, che è quello che sta per succedere qui. Non ci dicono neppure che tipo di paese vogliono costruire dopo. Ma quello che è più importante secondo me è che andiamo verso un referendum senza le minime garanzie democratiche. Non c’è neppure una commissione di controllo sui risultati e non essendo una consultazione legale non ha neppure alcuna legittimità. È una farsa. Altro esempio: non è stato stabilito neppure un quorum minimo di votanti per la sua validità. Un referendum per formare un nuovo Stato è una de- cisione molto importante, dovrebbe avere un consenso più ampio di una maggioranza relativa. Sono certa che non ci sarà nessun referen- dum. L’Alta corte lo sospenderà dopo il ricorso del governo centrale. Dopo la sospensione ogni atto a favore sarà illegale e punibile per legge per la via penale e per quella amministrativa. Ma quello che mi preoc- cupa di più è il futuro perche l’impossibilità di fare il referendum cree- rà una grande frustrazione in tutti quelli che ci hanno creduto in buo- na fede. Puigdemont e Junqueras hanno la responsabilità di aver illuso i loro elettori. Come ricostruiremo il tessuto sociale che hanno rotto de- liberatamente e che sta causando tanti problemi nelle famiglie, nei luo- ghi di lavoro, nelle scuole? Hanno scelto una strada che porta al precipi- zio”. Però tra i promotori della scissione, come Marc Sardà, c’è chi so- stiene che legalità e giustizia non necessariamente coincidono e che se la legalità non è giusta bisogna disobbedirla.

L’eredità del passato

Altro tema che duole agli unionisti è quello di essere stati fino ad oggi abbandonati dal governo centrale di Madrid. Da tutti i governi. Spesso per formare esecutivi nazionali i partiti di Madrid, dai socialisti ai popo- lari, hanno avuto bisogno dell’appoggio dei deputati eletti dai partiti nazionalisti catalani. E ogni volta, per ottenerne l’appoggio, hanno ce- duto competenze a Barcellona. La polizia autonoma, l’istruzione, la tv. Allargando ogni volta di più il fossato fra gli interessi del governo centrale e quelli del governo regionale che in realtà non ha mai nascosto come il vero obiettivo finale del processo democratico iniziato quarant’anni fa fosse il “distacco”, la separazione da Madrid per le ragioni storiche che risalgono a trecento anni fa. «Mio padre era giudice di pace qui a Vic - racconta Josep Llonch, 76 anni -. Giudice della repubblica, quella che nacque nel 1931 quando il re Alfonso XIII si esiliò dalla Spagna. Quando Franco vinse la Guerra civile, prima che le truppe franchiste, che poi erano sanguinari soldati marocchini, conquistassero tutta la regione, i repubblicani partirono per rifugiarsi in Francia che non era ancora stata invasa dai nazisti. Lo misero in un campo di concentramento ma poi tornò in Spagna, dove venne processato. Non aveva delitti di sangue e venne rilasciato. Mio padre aveva una impresa di pittura di appartamenti. I primi tempi furono durissimi perché era compromesso con la Repubblica sconfitta e nessuno gli dava lavoro. Io nacqui un anno dopo, nel 1941. Ho vissuto metà della mia vita sotto la dittatura spagnola. Sono repubblicano da sempre e anche nel ricordo della mia famiglia, dei nostri martiri, spero che questa volta riusciamo diventare davvero una nazione e costruire la nostra Repubblica”.

Qualcuno guarda a Montserrat

L’abbazia benedettina di Montserrat, dove si conserva la Madonna nera patrona della Catalogna, è un luogo di incontro e dialogo. Divenne importante durante la dittatura per l’azione di difesa e protezione degli oppositori politici. Oggi l’abate Soler e i cinquanta monaci che vivono nel monastero sulla montagna hanno manifestato il loro appoggio al “diritto a decidere”, alla possibilità che i catalani possano dirimere le loro differenze attraverso un voto referendario. In un paesaggio così po- vero di sostegni esterni al governo locale quello di Montserrat, anche se tiepido, non è da sottovalutare. C’è chi giura che ci sono due Paesi che riconoscerebbero subito una Catalogna indipendente. Uno è Israele, per ragioni strategiche mediterranee, e perché la Spagna è stata sempre un Paese considerato filo-arabo. L’altro è il Vaticano di Papa Francesco. Uno dei politici catalani che sale spesso sul monte a incontrare l’abate è Oriol Junqueras, il leader di Esquerra Republicana. Junqueras è colui che, appena eletto il governo secessionista due anni fa lanciò la sfida: «Non voglio che la mia gente divida il suo futuro con gente che non la rispetta, che non la vuole, che non la ascolta». Se le cose dovessero mettersi davvero male oggi c’è anche chi ipotizza - ma a Montserrat negano - l’idea di un governo catalano in esilio nell’abbazia.

“Siamo capaci a fare da soli”

L’attacco dei terroristi dell’Isis a Barcellona e Cambrils ha avuto l’effetto postumo di rafforzare l’autostima catalana. Durante la manifestazio- ne in omaggio alle sedici vittime degli attentati lungo il Paseo de Gracia mentre fischiavano il re e Rajoy applaudivano i Mossos d’Esquadra, la polizia della Generalitat. E si è chiuso di nuovo il cerchio della comunità in cerca di nazione. Dalla Spagna hanno criticato i Mossos che volevano fare tutto da soli contro il terrorismo, mentre loro li hanno osannati come nuovi eroi della libertà catalana. Ora, lo scontro finale è iniziato. Jofre Bandolet compirà diciotto anni il giorno del referendum e voterà per l’indipendenza a Vic. Meno di cento chilometri più a sud, a Rubí, un suo quasi coetaneo, Eric Laserna, 20 anni, studente universitario di Storia, invece voterà contro. «Vivo la prospettiva dello Stato catalano come un passo indietro - dice Eric -, una forma di chiudersi guardando al passato in un mondo sempre più globale». All’opposto il poeta catalano Lluis Solà è invece certo che la separazione dalla Spagna avrà un effetto molto produttivo liberando nuove forze, energie, passioni positive. Il conto alla rovescia è cominciato, Mariano Rajoy farà di tutto per impedire il voto, mezza Catalogna farà di tutto per vincere questa resa dei conti con i suoi fantasmi. «Finalmente saremo liberi», dice Carme davanti al countdown della piazza di Vic, «ormai non possono più fermarci».





Oro, parcheggi, Patria y Familia. Il clan Franco divide Madrid (Il Venerdì di Repubblica, 23/02/2018)








Omero Ciai


Dai Panama papers ai numerosi parcheggi sotterranei nel centro di Madrid, non è poi così difficile seguire la pista della fortuna molto sostanziosa - fino a oltre 600 milioni di euro - posseduta dagli eredi di Francisco Franco, il generale che vinse la Guerra civile (1936-39) e che impose una dittatura che durò quasi quarant'anni. Ma la morte della sua unica figlia, Carmen Franco, scomparsa a 91 anni il 29 dicembre scorso, ha riacceso in Spagna le polemiche sul "bottino di guerra" a spese dello Stato, e non solo, da cui quel patrimonio nacque. L'oggetto oggi più conteso è il Pazo de Meirás, un castelletto in stile romanico con due grandi torri, un edificio centrale, e tremila ettari di parco, che si trova presso Sada, un comune di 15 mila abitanti in Galizia. Il comune di Sada ha dichiarato gli eredi di Franco "personae non gratae" e ha lanciato, con petizioni popolari e l'appoggio dei partiti locali, una campagna per la restituzione al patrimonio pubblico del Pazo de Meirás. Il "Pazo" è frutto di un saccheggio. Il proprietario venne fucilato all'inizio della Guerra civile dai falangisti e in seguito le autorità franchiste offrirono il castello al Caudillo come residenza estiva. Ma il colpo grosso di Carmen Polo, la moglie del dittatore, fu farsi regalare dal Comune di Santiago de Compostela due statue del XII secolo che facevano parte del Portico della Gloria della Cattedrale. Le statue rappresentano Abramo e Isacco e, ancora oggi, nonostante le numerose richieste di restituzione, sono conservate nel Pazo.  

Le proprietà immobiliari della famiglia - i sette figli e i quattordici nipoti di Carmen Franco - si estendono per tutto il Paese. Da La Coruña, capitale della regione autonoma della Galizia, dove possiedono un antico palazzo del XIX secolo, Casa Cornide, valutato 5,5 milioni di euro, anch'esso donato al dittatore dalle autorità comunali, fino a Madrid, a Marbella, a Cordova o nelle Asturie, e poi nelle Filippine - per l'amicizia con il dittatore Marcos - e a Miami. Nel suo saggio sul clan familiare ("Los Francos, S.A."), lo storico Mariano Sánchez Soler, ha censito, tra immobili e terreni in Spagna, 22 grandi proprietà, esclusi i numerosi parcheggi sotterranei della capitale. Il quartier generale dei Franco è il palazzo di calle Hermanos Bécquer numero 8, nel prestigioso quartiere di Salamanca a Madrid. Ma la proprietà che ha dato più soddisfazioni agli eredi è stata la tenuta di Valdefuentes, a Arroyomolinos, a sud di Madrid. Dieci milioni di metri quadrati di verde dove il dittatore andava a caccia che, trasformati in edificabili, sono diventati una delle grandi speculazioni immobiliari del nuovo secolo con tremila abitazioni, un grande centro commerciale e tre poligoni industriali. 

Il personaggio più importante del clan è Francis Franco. Quando nacque, primo maschio del matrimonio fra Carmen Franco e Cristobal Martinez Bordiù, nel dicembre del '54, suo nonno impose che i suoi cognomi fossero invertiti affinché il suo potesse sopravvivergli dopo la morte. Oggi Francis, 64 anni, amministratore o consigliere in mezzo centinaio di società della famiglia, contende il titolo di duca alla sorella Carmen Martinez-Bordiú, la primogenita, starlette dei programmi di gossip in tv e pecora nera del clan. Il titolo aristocratico venne concesso da re Juan Carlos alla moglie di Franco, Carmen Polo, dopo la morte del dittatore, alla fine del 1975. Considerando che all'inizio della Guerra civile spagnola il patrimonio di Franco era il suo stipendio di capitano generale dell'Esercito, ossia 30mila pesetas all'anno (180 euro), il salto del tesoro di famiglia è davvero notevole e, nella maggioranza dei casi, ottenuto a spese del bene pubblico. 

Ma secondo Mariano Sánchez Soler una parte del tesoro è anche ignota. E c'è un episodio che ne rivela dettagli. Nel 1978 Carmen, l'unica figlia di Franco, venne fermata alla frontiera mentre si recava in Svizzera con 31 medaglie d'oro e alcuni colliers di diamanti. La cosa fece scandalo e lei si giustificò sostenendo che non voleva nasconderli in un caveau blindato svizzero ma usarli per farci un orologio. Ma era anche la prima volta che la fermavano perché prima di quella data, lei e suo marito, viaggiavano con passaporto diplomatico che persero con la transizione alla democrazia nel '77. Nel suo libro Sánchez Soler ricorda due circostanze che sicuramente contribuirono alla formazione di una ricchezza segreta frutto di una razzia ben articolata. La prima era il terrore con il quale i gioiellieri di Spagna ricevevano notizia di una visita del dittatore nella loro città. La signora Franco, meglio nota al popolo come "doña collares" (signora dei collari), per le ricche collane che amava indossare, era solita entrare nelle gioiellerie e dimenticarsi di pagare gli acquisti. Tanto che era consuetudine tra gli orefici di Spagna partecipare a una colletta per rimborsare il collega malcapitato. La seconda era invece una regola stabilita dal regime. Come un sovrano medievale, Franco pretese che ogni martedì, tutte le settimane, quando riceveva in udienza al palazzo del Pardo, chi andava a trovarlo portasse dei regali. Oro, argento, tappezzerie, insegne, medaglie. Erano autorità comunali, associazioni, club sportivi, società industriali, congregazioni cittadine. Tutti vogliosi di manifestare con preziosi regali la loro inviolabile adesione alla dittatura. Ogni martedì per quarant'anni. Grazie a Zapatero e alla legge sulla "memoria storica" le statue di Franco e le vie dedicate alla dittatura sono state infine cancellate ma il tesoro saccheggiato e posseduto dagli eredi resta intoccabile. 


Cuba senza Castro, la fine dell'era dei Barbudos. (La Repubblica 5 gennaio 2018)




Quest'anno Cuba si prepara al primo, profondo, cambio generazionale al potere dopo sessant'anni di rivoluzione. Con l'uscita di Raúl, che dieci anni fa prese il posto di suo fratello Fidel alla guida del governo dell'isola, garantendo una successione leggera nella continuità dinastica, non ci sarà più un Castro presidente. Ma soprattutto è ormai inevitabile, per ragioni biologiche, il ricambio di tutta la leadership degli ultimi barbudos della Sierra Maestra, quelli che fecero la guerriglia, che ancora oggi si chiamano "generales con la mochila" (generali con il sacco in spalla), e che sono il nucleo duro delle Forze armate intorno a Raúl. Dopo il fratello di Fidel, gli uomini più potenti di Cuba oggi sono due vicepresidenti ultra ottantenni, i generali José Ramón Machado Ventura (87 anni) e Ramiro Valdés (85). Insieme agli altri ultimi due generali "con mochila": il ministro delle Forze armate Leopoldo Cintra Frias (76 anni), e il suo vice Álvaro López Miera (74). 
L'addio alla presidenza di Raúl era previsto per la fine di febbraio ma è slittato fino alla metà di aprile. A sostituire Raúl, che rimarrà comunque ancora per un po' primo segretario del partito comunista cubano, sarà Miguel Diaz-Canel (57 anni), oggi primo vice presidente. Un burocrate socialista che ha fatto tutta la sua carriera nel partito e garantisce, in un proclamato immobilismo, la continuità del regime. Il prossimo cambiamento al vertice si svolgerà in uno scenario pieno di incognite. Fallita la breve stagione della luna di miele con l'America di Obama, il regime, in difficoltà anche per il tracollo del Venezuela di Maduro che riforniva Cuba di petrolio a basso costo, è tornato sulla scena internazionale a cercare il sostegno di Mosca e Pechino frenando le riforme. Il primo segnale, a metà 2017, è stato il blocco delle licenze per le nuove attività private e la campagna contro l'arricchimento dei "cuentapropistas", lavoratori e manager non statali. Ma l'economia stagna, il turismo scende e la maggiore risorsa dell'isola continua a essere il flusso di rimesse ai famigliari dei cubani espatriati. Chi arriverà dopo Raúl dovrà affrontare la recessione economica di un Paese dal quale continuano a scappare sempre più giovani, mentre con Trump l'America sta tornando alla vecchia politica dell'isolamento sperando che prima o poi l'isola, ormai post castrista, imploda.




DAL NOSTRO INVIATO
Omero Ciai

L'AVANA. Quando il sole tramonta, e d'inverno lo fa molto presto anche qui, i viali di questa capitale sono quasi tutti in prenombra. Anche lungo l'avenida che scivola accanto alla piazza della Rivoluzione la sera è spettrale. Buie le strade del Vedado, il vecchio ed elegante quartiere borghese dell'Avana, e poi giù fino alla fine del Malecón, il lungomare, accanto alle vie sconnesse dell'antico centro coloniale dove invece brillano di luce solo il Capitolio e il Teatro Nazionale appena restaurati. Le ombre scure delle strade sono il segno inequivocabile delle difficoltà venezuelane, il regime fratello, ricco di petrolio, che rifornisce di greggio Cuba sempre meno e costringe l'isola a risparmiare energia. Non è un bel momento. I segnali dell'involuzione politica che si erano visti dopo la morte di Fidel Castro, e la fine delle speranze di apertura che aveva suscitato la storica pace con Obama, sono ormai più che tangibili. Con l'avvento di Trump alla Casa Bianca anche i turisti americani che appena un anno fa sciamavano, come predatori insaziabili, alla conquista di ogni angolo della città, avidi di passeggiate in almendrones - le mitiche Chevrolet anni cinquanta - di sigari e di rum, sembrano essersi volatilizzati. Forse il Luna park jurassico dello Stato comunista a 90 miglia dalla Florida li ha già stancati. Ma l'effetto combinato del breve boom turistico statunitense sta lasciando macerie. I prezzi degli alberghi sono andati alle stelle e la middle class canadese e britannica, ossia quelli che sostenevano, insieme a italiani, francesi e spagnoli, una delle poche risorse dell'isola, stanno cambiando aria perché "Cuba costa troppo". E così, finito l'effetto emotivo, negli ultimi mesi del 2017, anche il turismo ormai stenta. Basta guardare la folla di taxisti alle porte degli alberghi. Sei mesi fa rifiutavano le corse perché ne avevano troppe, oggi inseguono i potenziali clienti fin dentro le loro stanze. L'American express, che due anni fa annunciò il suo sbarco sull'isola, non è mai arrivata. Come non sono arrivati i sospirati capitali americani.  E neppure la fine della doppia moneta. Lo Stato paga in pesos, ma ormai l'economia funziona in Cuc, moneta pregiata che equivale all'euro. I problemi sono sempre gli stessi: la farraginosità e confusione della burocrazia statale e le regole che, consentendo investimenti solo in joint venture con i cubani, dissuadono anche chi vorrebbe farli. D'altra parte è evidente che nelle alte sfere del potere si sono spaventati. L'avvio delle imprese private, con le centinaia di bed and breakfast amatoriali che fanno concorrenza agli alberghi di Stato, i ristorantini, gli elettricisti, i meccanici e, perfino i barbieri, in proprio, rischiano di creare una piccola classe media sempre più difficile da tenere a freno nelle rigide maglie del sistema socialista-solidale. Chi si è arricchito veramente in questi anni di riformismo raulista sono i più vicini alla nomenclatura castrista, come quelli che possono affittare tre o quattro stanze a 100 euro a notte nei villoni donatigli dal Partito al Vedado o a Miramar. Ma anche tanti altri qualcosina hanno iniziato ad accumulare.



Indietro tutta.

Così i deputati dell'Asemblea del Poder Popular, il parlamento di Cuba che si riunisce due volte l'anno, hanno trascorso diverse sedute a discutere di accumulazione capitalistica. Quante stanze può possedere un albergatore privato con licenza per essere considerato ancora socialista? Due, tre, quattro? E quanti tavoli in un ristorante? E quanti ristoranti? E le gelaterie? E che metratura dei negozi? E cosa si può vendere? Il primo risultato sono nuove leggi più restrittive per impedire l'espansione dell'attività commerciale. Il secondo la caccia ai ricchi. All'Avana, trascinando via il proprietario ammanettato in mezzo ai clienti che mangiavano, hanno chiuso uno dei migliori e più frequentati ristoranti della città. Si chiamava "Star bien" (Stare bene). La polizia ha anche sequestrato al proprietario il palazzetto a due piani che è stato subito riassegnato: diventerà un piccolo albergo per bambini orfani. Accuse precise nessuna. I vicini vociferano sul fatto che il ristorante comprasse carne di manzo di contrabbando - che è anche uno dei pochi modi di ottenerne a Cuba -, oppure che i gestori trasferissero illegalmente i guadagni all'estero, in banche del Messico, per aggirare le tasse. Il fatto sorprendente è che tra i proprietari di "Star bien" ci fosse il figlio di un eroe della rivoluzione. L'ex ministro degli Interni, generale Abelardo Colomé Ibarra, detto "Furry". Fino a due anni fa, quando chiese la pensione ufficialmente per ragioni di salute, Colomé Ibarra era uno dei tre o quattro uomini più potenti di Cuba. La tecnica sembra quella, molto selettiva, del "colpirne uno per educarne cento". Ma anche altri paladar (ristoranti privati) e qualche discoteca hanno fatto la stessa fine. José Raúl, il figlio del generale, insieme ad alcuni soci, dopo aver aperto "Star bien", aveva messo in piedi un gruppo imprenditoriale privato, comprato partecipazioni in altri ristoranti (come il Chachachá, anch'esso chiuso di recente), e finanziato progetti di altri "cuentapropistas". Una strategia commerciale espansiva. Esattamente quello che il regime vuole impedire per evitare la concentrazione di ricchezza nelle mani di privati cittadini. Dieci anni dopo l'inizio delle riforme economiche di Raúl Castro, circa il 20% della forza-lavoro a Cuba è impegnata anche in attività non statali. Il dinosauro socialista è sempre lì e paga stipendi da fame - meno di 30 euro mensili in media - in una moneta nazionale, il Cup, con cui si compra a stento la verdura ma si va al cinema e a teatro. 


Il nuovo che avanza.

Se volete, il futuro si chiama Yamileh. Lei non ha neppure vent'anni ma è già un'imprenditrice. Il negozio è casa sua. Fa tutto via Facebook, che raggiunge in uno degli internet point collettivi. Yamileh rivende leggins messicani, intimo di Panama, scarpe di Miami, smalto per le unghie, shampoo, balsami e profumi. La sua fortuna è stato suo cugino Jesús. Il cugino di Yamileh è uno di quelli che hanno pagato 10mila dollari ai cartelli narcos messicani per attraversare il deserto di Chihuahua è arrivare alla frontiera con il Texas. I soldi erano un prestito di alcuni parenti che vivono in Florida per consentire al giovane Jesús di raggiungere la terra promessa. Ma è arrivato tardi. All'inizio dell'anno scorso, lasciando la Casa Bianca, Obama ha cancellato la legge che considerava tutti i cubani "rifugiati politici" con diritto all'asilo se riuscivano a presentarsi ad un posto di frontiera degli Stati Uniti. Un privilegio su tutti gli altri migranti di cui i cubani hanno goduto dagli anni Sessanta del secolo scorso. Per essere accolti bastava alzare le mani e presentare un documento. E nel giro di un anno si aveva la residenza americana. Jesús arrivò a Città del Messico mentre la Casa Bianca abrogava la legge, più nota come "Dry feet, wet feet" (Piedi asciutti, piedi bagnati). Ora, finché resta valido il suo visto di ingresso in Messico, Jesús fa il "mulo" per Yamileh nella speranza di ripianare il suo debito con i parenti in Florida. A Città del Messico compra i prodotti di abbigliamento che Yamileh rivende a casa sua dopo averli pubblicizzati su Facebook. Per la legge cubana al ritorno dal primo viaggio dell'anno si possono portare indietro valigie piene fino a 120 chili e la tassa d'importazione si paga in pesos locali, cioè quasi niente. Dal secondo viaggio il peso dei prodotti importati scende a 30 chili ma spesso basta allungare qualche dollaro alla frontiera per portare un po' di più. Così le "mulas", sono soprattutto donne, il primo viaggio lo fanno a Panama, dove nella zona franca esentasse caricano computer, televisori di ultima generazione, condizionatori d'aria, cellulari. Negli altri invece trasportano capi d'abbigliamento o prodotti di bellezza che pesano meno. È un commercio semi-illegale, che rifornisce di tecnologia e vestiti i ricchi dell'isola, al quale si sono dedicati a centinaia. Tanto che trovare un posto sugli aerei per Panama è diventata una scommessa. Ma "las mulas" viaggiano ovunque ci sia un Paese che accetta l'ingresso di un cubano senza visto. Ecuador, Bolivia e Russia. Però a Yamileh questo piace meno perché - dice - i vestiti made in Ecuador a Cuba non li vuole nessuno. Così si tiene stretta suo cugino Jesús e lo accompagna sempre in aeroporto. Il sogno di Yamileh è quello di avere un giorno un negozio tutto suo. Ma nonostante suo nonno sia un ex ambasciatore in pensione la licenza ancora non l'ha avuta. Però, poi ragiona, e dice che è meglio così. Meglio vendere da casa anche perché se avesse un negozio i leggins che le porta suo cugino dovrebbe tenerli nascosti visto che è vietato rivendere in pubblico prodotti importati con "las mulas".
Alina invece ha aperto una gelateria. Ovviamente il cono si compra solo con i Cuc, la moneta che equivale agli euro, ma gli affari vanno bene.  "Qui siamo sempre mezzo illegali - dice -, la macchina che fa il gelato viene dall'Italia e non avrei potuto importarla".  Lei è contenta perché ogni tanto, con quello che guadagna, può portare le figlie a fare shopping a Miami. Sono le discussioni con suo padre che è iscritto al partito che la ossessionano. "Mi dice sempre: ma perché hai bisogno di tutti questi lussi per vivere?"


Ci basterebbe un prestito.

Isabel e Paula sono una coppia gay. Da qualche tempo hanno trasformato la loro casa in un bed&breakfast per turisti. L'ultimo piano di un palazzetto a Centro Havana, uno dei quartieri più poveri e diroccati della capitale. Dall'esterno fa un po' paura la facciata screpolata e piena di buchi ma all'interno l'appartamento, come spesso capita qui, è caldo, accogliente e molto ben arredato. Isabel e Paula affittano due stanze, 35 Cuc l'una. Altri 5 Cuc per la colazione. Qualcos'altro incassano con le commissioni se consigliano un altro affittacamere quando loro non hanno posto - "cosa che grazie al cielo succede spesso", sorride Isabel -, quando chiamano un taxi o indicano un ristorante ai clienti. Adesso nelle stanze ci sono due ragazze giapponesi. "Ai ragazzi più giovani - dice Paula - piace venire qui proprio per le strade non asfaltate e piene di polvere, siamo in un quartiere molto trendy". Ora si lamentano ancora dell'uragano perché dai mercati sono scomparse le uova e preparare la colazione senza è più difficile. In realtà sono scomparse anche la birra Cristal, la più bevuta a Cuba, e pure la carta igienica. Ma quello succede anche senza il ciclone. La Cristal scompare - spiegano - perché i distribuitori la danno sottobanco ai ristoranti privati prima che alle rivendite pubbliche. Ma il vero cruccio di Isabel e Paula è un altro. L'appartamento che sta sotto quello loro è in vendita. E se a Cuba ci fosse una banca che fa credito potrebbero comprarlo pagandolo a rate. "Con un'ipoteca sul nostro potremmo farlo e allargare la nostra attività, affittare altre stanze", sussurra Isabel. Ma una banca ipotecaria qui non c'è. Missione impossibile. L'altra cosa che le preoccupa è che non possono sposarsi - i matrimoni gay non sono permessi -, né regolarizzare il loro amore con l'unione civile. Come nuovo presidente vorrebbero Mariela, la figlia di Raúl, "perché ha fatto tanto per i diritti delle minoranze sessuali". Non hanno nulla contro il regime politico a partito unico ma vorrebbero che l'economia privata fosse molto più aperta e portasse un po' più di benessere. Paula, per esempio, ha un'altra casa di famiglia a Varadero, vicino alla spiaggia. La regalò Fidel Castro a suo padre. Ma quello è un territorio privilegiato, nessuno ha ottenuto licenze per affittare stanze private a Varadero. Infine, sbuffano insieme: "Il problema di Cuba oggi è che se anche puoi permettertelo non puoi acquistare quello che ti serve ma soltanto quello che trovi. Certo però, noi speriamo che Mc Donald's qui non arrivi mai".


Uno psichiatra.

Lo chiameremo Osmany perché come molte altre persone che abbiamo incontrato non vuole dare il suo nome e neppure farsi fare una fotografia per timore di subire ritorsioni dal regime cubano. Osmany è uno psichiatra. È cattolico e si considera un sacerdote laico perché con lo stipendio in pesos lavora praticamente gratis. Le persone che chiedono la sua assistenza in ospedale ora sono soprattutto di due tipi: gli anziani depressi per la solitudine perché i loro parenti più giovani se ne sono andati. E i rimpatriati, anziani anche loro che sono tornati a Cuba dopo aver vissuto molti anni fuori dall'isola. Il fenomeno del ritorno a casa è abbastanza diffuso tra quei cubani che sono andati negli Stati Uniti e non hanno fatto fortuna. Tornano perché a Cuba hanno la sanità, malmessa ma gratuita. I famigliari di Osmany sono tutti all'esterno e anche lui è stato sul punto di andarsene diverse volte. "Sono rimasto - dice - perché a questo punto voglio vedere come va finire. Mi piace il lavoro che faccio e anche questo senso d'incertezza del futuro in cui viviamo dopo la morte di Fidel".  Poi, ricordando le speranze suscitate dal viaggio di Obama a Cuba (marzo 2016) sostiene che Raúl Castro in realtà sta molto meglio con Donald Trump. "Hanno bisogno di un nemico per non cambiare nulla. Obama era un pericolo perché non sapevano come gestirlo. Mi ricordo il suo discorso trasmesso in televisione mentre spiegava ai leader cubani che cos'è la democrazia. Io ho cominciato a piangere. Loro davanti alle telecamere non sapevano da che parte rigirarsi. Fu straordinario". Osmany sostiene che sull'isola tutti vivono una doppia morale. Mentono per paura della repressione. "La prima volta che ho mentito - ricorda - non ero ancora adolescente. Ero andato in Chiesa per una messa clandestina e non potevo dirlo a nessuno dei miei amichetti perché allora assistere alla messa era proibito". "Oggi - conclude - rischiamo una nuova stagione di caccia alle streghe. La prossima fine della presidenza di Raúl rende tutto più imprevedibile. Chi s'era illuso con le aperture del regime rischia". 


Un giovane pittore.

La vere ossessioni di David sono due: trovare le tele per dipingere i suoi grandi quadri e i "culeros", i pannolini usa e getta per sua figlia neonata. All'Avana non è affatto facile trovare né quelle né gli altri. Uscito qualche anno fa dall'Accademia, David è uno dei giovani pittori che prova a farsi strada sulla scia di una generazione più anziana che va fortissimo. A New York l'arte cubana è di nuovo di gran moda. Nelle case d'asta come Christie's un pittore e scultore cubano contemporaneo come Roberto Fabelo si vende oggi a 200mila dollari al pezzo. E non è il solo. Dalla pax di Obama i mercati d'arte americani hanno setacciato l'isola visitando tutti gli studi in cerca di pittori giovani da comprare per scommessa in attesa che, tra qualche anno, diventino fuoriclasse sul mercato internazionale. "Un artista - dice David - deve vivere qui anche se non gli piace. Certo - aggiunge - sono preoccupato che mia figlia crescerà in un regime illiberale come questo ma io non posso andarmene. La mia pittura senza la luce di Cuba non avrebbe senso". Poi David critica gli artisti che hanno fatto del dissenso il soggetto delle loro opere. "Il dissenso - dice - è una ovvietà, come artista non mi interessa". "Voi stranieri che venite all'Avana non vi rendete conto di quanto consenso abbia ancora questo regime. Basterebbe andare nelle campagne per accorgersi che la gente più è povera e più accetta le cose come stanno, anzi le difende. Per Castro l'ideale sono i poveri - sottolinea - perché più sono poveri più lo appoggiano". "Anche io come tanti altri sogno il giorno in cui il Partito convocherà un'adunata per qualche anniversario rivoluzionario e saremo tutti liberi di non andarci". Infine David conclude raccontando un aneddoto recente. Un vice ministro cinese in visita per verificare i lavori di ristrutturazione del porto di Santiago, la seconda città dell'isola, dove Pechino ha investito 120 milioni di dollari avrebbe detto a un suo omologo cubano: "Avete un problema da risolvere. Voi a Cuba non volete i ricchi, noi in Cina non vogliamo i poveri". 


Gli artisti e la censura.

Carlos Celdrán è uno dei drammaturghi e direttori di teatro più famosi di Cuba. La sua ultima opera, "10 millones", è ispirata alla famosa "zafra", la raccolta della canna da zucchero, del 1970, quando Fidel Castro per compiacere l'Urss e il blocco socialista che in cambio dello zucchero rifornivano Cuba di viveri, auto e petrolio, lanciò appunto la raccolta dei 10 milioni di tonnellate di canna da zucchero. La cifra non si raggiunse mai ma tutta l'isola partecipò alla sfida. L'opera di Celdrán racconta quell'epoca attraverso il dramma di "un figlio della rivoluzione" diviso tra l'amore per un padre gusano (verme) e anticastrista che poi lascerà il Paese rifugiandosi nell'ambasciata del Perù, e quello per una madre dirigente rivoluzionaria.  È un racconto autobiografico perché i genitori di Celdrán erano proprio così e paradosso vuole che oggi vivano entrambi negli Stati Uniti, il padre a Miami e la madre a Tampa, ma non si parlino "perché da quando si divisero per ragioni politiche non si sono mai più incontrati". Nei mesi d'euforia per la pax americana l'opera critica di Celdrán è stata rappresentata con molto successo anche a New York e accolta come un avvenimento che rompeva i canoni del regime castrista considerato all'estero sempre piuttosto censorio. "Per la verità - dice Celdrán - io ho sempre lavorato abbastanza liberamente. Il teatro a Cuba ha sempre avuto il prestigio di essere uno spazio liberale dove un atteggiamento critico è ammesso". "Vivo qui per scelta, non perché non posso andarmene. Ma d'altra parte non potrei fare altrimenti perché un drammaturgo ha bisogno di conoscere molto bene il pubblico per il quale scrive. E il mio pubblico è quello cubano. Se andassi a vivere in Spagna, per esempio, non saprei più per chi scrivo il mio teatro". Una delle scene più commoventi di "10 millones" è quando il ragazzino sfila con i suoi compagni di scuola davanti alla sede dell'ambasciata del Perù piena di rifugiati cubani che vogliono fuggire dall'isola. E lui, mentre grida slogan rivoluzionari, sa che anche suo padre è lì dentro. Sul momento presente Celdrán pensa che il timore dei governanti sia verso l'avvento di una prosperità economica che porti con sé la fine del regime socialista. "La chiave secondo me sta lì".  Con la cultura il regime castrista ha spesso usato la mano di velluto. Scrittori e musicisti hanno sempre avuto il permesso di viaggiare all'estero anche quando, prima delle riforme di Raúl Castro, a tutti gli altri era proibito di farlo. E quest'atteggiamento morbido stanno lì a dimostrarlo alcune star milionarie che risiedono tranquillamente sull'isola. Uno famoso è Jacob Forever, un re del reguetón, la musica più ballata oggi a Cuba. Ogni tanto la censura se la prende anche con i testi delle sue canzoni ma è libero di girare i suoi video a Cuba e di venderli negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Altri recentemente hanno avuto qualche problema in più, come il regista Carlos Lechuga, autore di un film, "Santa y Andrés", girato sull'isola con una produzione indipendente ma poi proibito nelle sale e bandito dal Festival del cinema dell'Avana.  


Cattedrali nel deserto.

Le speranze che un riavvicinamento con gli Stati Uniti portasse a Cuba milioni di turisti americani e nuove occasioni di commerci rischia adesso di lasciare anche qualche cattedrale nel deserto. Una potrebbe diventare la nuova zona franca del porto di Mariel. Luogo che nei programmi di Raúl avrebbe dovuto diventare un grande polo economico, dove le aziende straniere avrebbero potuto installare fabbriche per produrre a costi più bassi merci da esportare verso gli Usa e non solo. Un po' come accade con le famose imprese "maquilladoras" lungo le frontiere del Messico, quelle che Trump vorrebbe disintegrare insieme all'accordo di libero commercio firmato da Clinton nel 1994. La maggior parte degli investimenti per le infrastrutture del Mariel erano brasiliani. Targati Odebrecht. La multinazionale dello scandalo latinoamericano. Prima di "Lava Jato", la Mani pulite dei giudici brasiliani, venne Dilma Rousseff a benedire Mariel. Poi la rappresentante di Odebrecht a Cuba è fuggita di notte, senza lasciare tracce. Ora a Mariel è quasi tutto fermo in attesa di tempi migliori. Un'altra cattedrale in attesa di clienti è all'Avana il meraviglioso, e molto costoso, Hotel Manzana. Ai margini del centro storico, l'Habana vieja, l'albergo è stato ristrutturato con i fondi di una impresa alberghiera svizzera - Kempinski - e gestito in joint venture con Gaviota, l'azienda turistica delle Forze armate cubane. Operazione dedicata a un turismo di gran lusso, magari americano. Al piano terra del Manzana ci sono quattro gallerie foderate di marmo con numerosi negozi di marche pregiate. Da Montblanc a Lacoste. Ai quali però i cubani non possono neppure avvicinarsi, infatti sono lussuosissimi ma vuoti. Ma neppure i turisti visto che le sovratasse sull'importazione a Cuba sono altissime. Esempio: una penna Montblanc nel centro commerciale dell'albergo costa il 212% in più che in qualsiasi altra parte del mondo. La verità è  che alcune riforme liberali dell'epoca raulista avevano la trappola. Un esempio che fanno tutti è l'apertura al commercio delle auto. Prima di Raúl nessun privato cubano poteva acquistare un'automobile. Le assegnava lo Stato con i suoi criteri. Ora si può ma è un'illusione visto che sull'acquisto di auto importate c'è una tassa pari a otto volte il valore di listino. Esempio: comprare a Cuba una Peugeot 508 può costare anche più di 250mila euro. 


La battaglia delle idee.

Piano piano si ha come l'impressione che dopo essere passata per il decennio delle riforme di Raúl, coronato con la ripresa delle relazioni con l'America alla fine del 2014 e dallo storico viaggio di Barack Obama, con la presidenza Trump Cuba stia tornando a Fidel. Ai tempi della guerra per la restituzione di Elián, il bambino che alla fine del 1999 venne salvato nello Stretto della Florida dopo che la zattera sulla quale era con sua madre affondò.  Elián, sei anni, unico superstite della tragica fuga, venne consegnato ad alcuni parenti che vivevano a Miami finché suo padre non ne chiese la restituzione a Cuba e Fidel Castro non organizzò decine di manifestazioni per riaverlo. Oggi Elián, 24 anni, è un ingegnere e lavora in un cantiere navale vicino alla sua città natale, Cardenas, due ore e mezza di macchina dall'Avana. A Cardenas, un paesotto di agricoltori con le case basse, le strade polverose e i carretti trascinati dai cavalli, la più grande attrazione è il Museo Elián, inaugurato da Fidel quando il ragazzino tornò a Cuba (e fece perdere le elezioni presidenziali a Al Gore, punito nella strategica Florida dai gusanos cubani). Sul muro di fronte all'ingresso c'è un murales con un enorme pugno chiuso e un dito medio alzato rivolto all'America. Dentro un lungo viaggio nei conflitti dell'indomabile Cuba contro l'imperialismo. Prima quello spagnolo, con le guerre d'indipendenza, poi quello americano con tutti i tentativi trascorsi e respinti di sostituire il colonialismo dei re di Spagna con quello della Casa Bianca di Washington. Un'epopea ipernazionalistica che esalta le convinzioni dell'ex líder máximo morto a 90 anni il 25 novembre del 2016. Tanto che quando ci permettiamo di segnalare all'ottima guida che ci illustra il museo che "l'Europa gli americani l'hanno liberata dal nazismo", la risposta è un sibilo secco: "Beh, a noi no!".  L'ambasciata americana all'Avana, quella riaperta in pompa magna da John Kerry a metà del 2015, è di nuovo solo un grosso e brutto casermone quasi vuoto circondato da una lunga fila di transenne che impediscono di passargli accanto. Trump l'ha svuotata del "personale non indispensabile" dopo l'affaire degli "attacchi acustici". Episodio mai completamente chiarito secondo il quale i diplomatici Usa sarebbero stati colpiti da ultrasuoni non identificati che avrebbero provocato, ad alcuni di loro, danni al cervello. Altro che "guerra fredda", un'autentica spy-story. Così oggi i cubani che vogliono chiedere un visto per viaggiare in America devono presentare la pratica all'ambasciata americana di Bogotà, in Colombia. E presentarsi fisicamente lì. "Come scalare una montagna - commenta sconsolato Osmel, un vicino - perché prima di arrivarci bisogna avere un visto per entrare in Colombia". Archiviata, con l'avvento di Trump, la politica di riavvicinamento con Washington, il regime cubano è tornato a guardare verso la Russia e la Cina, le uniche due potenze mondiali che stanno facendo investimenti milionari nelle infrastrutture dell'isola, ferrovie e porti. 



Díaz-Canel e la successione fragile.


Fare l'ambasciatore straniero a Cuba è un lavoro difficile. Prima regola: quando incontrano i giornalisti preferiscono farlo "off the records", senza registratori, per evitare problemi. La frase di prammatica è: "Mi raccomando, io e lei non ci siamo mai visti". Poi, tranne qualche loro collega privilegiato (russi e cinesi), la maggior parte degli ambasciatori hanno pochissimo accesso a informazioni autentiche e fonti dirette. Farsi ricevere da un ministro può essere una corsa a ostacoli, giornali e tv sono solo gazzette ufficiali e, dalle stanze del potere, le notizie escono solo come rumors, pettegolezzi, per sentito dire. Così, come nella Mosca prima dell'89 quando erano tutti cremlinologi, oggi a Cuba diventano cubanologi. I diplomatici accreditati si riuniscono tra di loro in piccoli circoli chiusi e incrociano quello che hanno saputo per setacciare cos'è vero e cosa no. A novembre è stato destituito all'improvviso il direttore di Granma, l'organo del partito comunista cubano, e ancora nessuno ha capito perché. La breve nota ufficiale parlava di "errori commessi nell'esercizio delle sue funzioni", senza specificare altro. Comunque, tra i diplomatici, il prossimo futuro viene descritto così: con l'uscita di Raúl nulla sarà più come prima. Prima Fidel e poi suo fratello hanno governato l'isola come una riserva privata con un potere quasi assoluto e indiscutibile, accentrando ogni carica. È ovvio che chi gli succederà non godrà di una simile autorità incontestabile da moderno Re Sole. Il futuro del governo è collegiale. Il potere verrà suddiviso. Ci sarà un presidente del Consiglio di Stato, l'organo più importante. Un diverso presidente del Consiglio dei ministri. Un segretario del partito comunista e, infine, un capo delle Forze armate. Tutto quello che è ancora concentrato in una sola persona - prima era Fidel oggi è Raúl - verrà ripartito.  E proprio questa discussione sui prossimi equilibri interni può aver rinviato di un paio di mesi l'addio alla presidenza del leader cubano. Un aspetto che preoccupa è la legittimità dei nuovi governanti. I fratelli Castro avevano vinto una rivoluzione armata ma i prossimi leader saranno tali soltanto per grazia ricevuta. Infine, è una convinzione nei circoli diplomatici, i prossimi capi del governo sanno che dovranno proseguire nella riforma del modello castrista evitando che le diseguaglianze sociali, tra chi sta già nell'universo privato e chi è rimasto in quello pubblico, continuino ad allargarsi. Ma senza una riforma politica. A Cuba non ci saranno libere elezioni né una transizione come quella che s'impose, per esempio, in Spagna alla fine degli anni Settanta dopo la morte del dittatore Francisco Franco. 


Qualcuno ci crede.

L'architetto italiano Luciano Ugetti è uno tra quelli che ancora crede in un prossimo futuro di prosperità economica. In passato Ugetti ha progettato e costruito sull'isola villaggi turistici. Ha sposato una ragazza cubana con la quale è tornato qui attratto dalle aperture alle attività private, la via cino-vietnamita del socialismo caraibico immaginata da Raúl Castro. Ora il suo progetto è trasformare il turismo a Cuba in un paradiso per la terza età, convincendo le associazioni dei pensionati in Italia a comprare appartamenti nei villaggi sul mare per il benessere dei loro soci. In un altro grande progetto raulista, i resort superlusso con i campi da golf, c'è anche una importante azienda italiana, il gruppo Astaldi. Ma i programmi vanno a rilento sempre per questioni legali e per l'assenza di una banca che si possa occupare di crediti e ipoteche, in questo caso ai clienti stranieri che potrebbero comprare appartamenti nei resort. 


Cosa pensano i cubani.

Un sondaggio svolto in collaborazione con il Washington Postha provato a dare un'idea delle opinioni dei cubani sulla vita nella loro isola. Tre quarti dei cittadini consultati, il 75%, ad una domanda sulla libertà d'espressione ha risposto che sente di non dover esprimere liberamente il proprio pensiero per evitare guai. Il 34% riceve denaro dall'estero ma la metà di questi meno di mille dollari l'anno. Il 55% vorrebbe emigrare e il 52% vorrebbe farlo negli Stati Uniti. Nel cuore dei cubani, Raúl batte Fidel. Il 47% manifesta una opinione positiva dell'attuale presidente in carica mentre più del 50% ha ricordi negativi del líder máximo. Ma il 79% risponde di non essere affatto soddisfatto del sistema economico vigente e il 98% crede che una normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti sia un bene per Cuba ma il 54% pensa anche che il sistema politico cubano non cambierà.


Il cerchio magico.

Fidel Castro ha sempre tenuto lontana la sua famiglia dalla gestione di qualsiasi sfera del potere. Raúl ha fatto invece l'esatto contrario. Nessuno dei cinque figli maschi del matrimonio di Fidel Castro con Delia Soto del Valle ha mai avuto ambizioni di incarichi politici, vivono tutti agiatamente ma lontano dai riflettori. Nella famiglia di Raúl le cose sono andate diversamente. Mariela è deputato, dirige un centro statale di educazione sessuale (il Cenesex), si batte per i diritti delle minoranze omosessuali ed è stata spesso indicata anche come possibile successore del padre alla guida del Paese. Un altro figlio di Raúl, Alejandro, è il capo dei servizi di intelligence. Colonnello dell'esercito ha visto crescere in questi anni il suo ruolo politico vicino al padre guidando i negoziati per la pace con gli Stati Uniti favoriti dalla mediazione vaticana. Mentre Fidel se n'è sempre disinteressato, Raúl ha messo spesso al primo posto la famiglia. Era lui, nei primi anni post rivoluzione che manteneva vivi i rapporti con la madre e le sorelle, perfino con Juanita che si oppose alla svolta prosovietica della rivoluzione e lavorò come agente della Cia prima di rifugiarsi, nel 1962, negli Stati Uniti. E sempre lui era quello che cercava di riparare i disastri sentimentali di Fidel proteggendo la prima moglie del comandante en Jefe, Mirta Diaz-Balart e il piccolo Fidelito. E che poi si occupò fino alla fine, prima che anche lei scappasse a Miami, di Alina, la figlia ileggittima del fratello. Gli altri due parenti nel cerchio magico del potere sono il suo nipote preferito, Raúl Guillermo Rodríguez Castro, che il leader cubano ha messo a capo della sua scorta personale e, soprattutto, l'ex genero, il marito divorziato della primogenita Deborah, Luis Alberto Rodríguez Lopez-Callejas che da presidente di Gaesa, l'holding dei militari, controlla la maggior parte degli affari economici delle Forze armate. Anche per questo, sono molti gli analisti di cose cubane convinti che alla fine il più probabile successore di Raúl alla presidenza, Miguel Díaz-Canel, sarà soprattutto un personaggio di facciata, dietro al quale la cosiddetta "famiglia reale" - i Castro - continueranno in realtà a governare come ha fatto finora.



Le Forze armate

Il vero bastione del castrismo sono le Forze armate. Nel decennio raulista il loro peso specifico è crescito molto e oggi i generali hanno il controllo del 65% di tutta l'economia dell'isola e, soprattutto, attraverso "Gaviota", una costola di Gaesa, di una delle risorse più importanti, ossia il turismo. Fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, dalle Forze armate, che ha fondato sul modello sovietico, Raúl ha costruito un contropotere rispetto al modo di governare, spesso anarchico e imprevedibile, del fratello. Fidel ha sempre preferito collaboratori civili, Raúl militari. E da quando ha preso da solo la guida del Paese ha lavorato per estendere l'egemonia dell'esercito sulla società cubana. La sua prima vittima fu Habaguanex. Fu il primo nocciolo d'eccellenza della svolta turistica alla metà degli anni Novanta. Alberghi, ristoranti, caffé e birrerie di Stato nel cuore dell'Habana Vieja, il vecchio centro ristrutturato con il concorso di capitali pubblici soprattutto europei. Fidel ne affidò la gestione a Eusebio Leal, un civile, famoso e apprezzato studioso della Storia della capitale cubana.  Raúl ha requisito il tutto incorporando Habaguanex, un vero gioiello turistico, nella cassaforte delle Forze armate e del suo ex genero Rodríguez Lopez-Callejas. Lo stesso è successo per decine di villaggi turistici passati dal controllo del governo a quello dell'esercito e di Gaviota che negli ultimi anni è diventata anche l'unica holding turistica con il permesso di costruire nuove infrastrutture. Per questo è molto probabile che il peso delle Forze armate, anche sul governo, continuerà ad aumentare. L'uomo emergente in questo ambito è il generale Alvaro Lopez Meira, l'ultimo barbudo in pista visto che si unì alla guerriglia dell'esercito ribelle contro la dittatura di Batista poco prima del 1959, quando non aveva ancora quindici anni. 

mercoledì 21 marzo 2018

La notte di Caracas. Repubblica 5 maggio 2017


DAL NOSTRO INVIATO
Omero Ciai

CARACAS. La folla ondeggia lungo l’autostrada. Hanno già capito che la Guardia Nazionale sta per attaccare lanciando lacrimogeni. Come sempre, ormai da più di un mese, gli agenti impediscono il passo al corteo che vuole raggiungere la sede del Consiglio elettorale per chiedere elezioni al più
presto e la liberazione dei prigionieri politici. I lacrimogeni scoppiano e il corteo retrocede prima di disperdersi lungo le vie laterali. È difficile che vengano a contatto, agenti e manifestanti. I primi sparano gas da lontano, gli altri tirano sassi e restituiscono i lacrimogeni che raccolgono. Quando il corteo più grande si disperde, in strada resta- no soprattutto i più giovani e iniziano tante piccole battaglie campali avvolte nel fumo dei gas. Ormai ogni pomeriggio. Trentatré morti, centinaia di feriti e arresti. Una delle ultime vittime mercoledì a Caracas, un ragazzo di 17 anni. Armando Cañizales. L’aspetto più odioso è la guerra mediatica sulla responsabilità dei morti. «Il governo men- te», dicono i ragazzi. «Siete tutti terroristi», rispondono le autorità. Mentre le indagini annaspano in questo Paese che galleggia nell’intolleranza reciproca.

L’inflazione è un delirio. Nove mesi fa un cartone da dodici uova costava duemila bolivar, all’epoca 2 dollari e mezzo. Oggi in dollari co- sta lo stesso prezzo ma i bolivar necessari per acquistarlo sono diventati 10mila. Le vecchie monete sono carta straccia. Tanto che il gover- no, dopo molte resistenze, è stato costretto a emettere nuovi biglietti da 5 e 10mila bolivar per evitare che si dovesse andare a far la spesa con la carriola piena dei vecchi biglietti da cento. Quelli nuovi li stam- pano soprattutto in Svezia ma siccome non ne sono mai arrivati abba- stanza la gente paga qualsiasi cosa, anche un caffè, con bancomat e carte di credito. Comprare però non dipende solo dalla tua capacità di acquisto. Il pane proprio non c’è. Nemmeno l’olio, il latte, il burro, il sapone. Una scatoletta da tre pezzi di Baci Perugina costa il dieci per cento di un salario normale, che qui si chiama mínimo e corrisponde a 60mila bolivar cash più una tessera che serve solo per gli alimenti e vale circa 100mila bolivar. A queste cifre, una famiglia normale di quattro persone resiste al massimo una decina di giorni. Così chiunque incontri ti racconta di ragazzini che svengono di fame sui banchi di scuola perché nelle baraccopoli sui cerros, le colline che cingono Caracas, spesso l’unica pietanza non è altro che un tubero, la yuca, a pranzo e a cena. L’effetto più impressionante di questa carestia ce lo fa notare Silvana: «Lo vedo nei miei amici che nel corso dell’ultimo an- no sono dimagriti sette o otto chili ma siccome non hanno i soldi per comprare nuovi vestiti, deambulano dentro camicie e pantaloni che gli stanno due o tre taglie più grandi». Per contenere scontento e rabbia, il governo ha lanciato un programma, affidato alle Forze armate, che si chiama Clap. Una busta con prodotti di base (riso, farina di mais, margarina) da distribuire a prezzi calmierati legata a una tesse- ra di razionamento, “il carnet della Patria”, che serve anche per mani- festare il proprio appoggio alla “rivoluzione socialista”. La speranza del presidente Maduro era di riuscire a distribuire otto milioni di Clap una volta al mese ma oggi non si arriva neppure alla metà. La ragione è brutale come la fame. I fondi dello Stato apparentemente non bastano per importare e distribuire a prezzi calmierati. E solo la Russia di Putin concede ancora crediti al Venezuela chavista. Ogni volta che affronta il tema dell’inflazione nei suoi numerosi comizi, Maduro lancia lo slogan del congelamento dei prezzi e ordina di formare mili- zie civili per controllarli. Combatte l’inflazione con la propaganda.
Ma torniamo a Silvana perché la sua storia, professionale e umana, è un buon paradigma per rileggere il ventennio rivoluzionario. Silvana Peñuela, 63 anni, è ingegnere civile. Specializzata in acquedotti. 

Nel 2004 firmò per ottenere la convocazione di un referendum contro il presidente Chávez. L’opposizione, all’epoca minoritaria, lo perse. E la vendetta del caudillo militare fu veramente malvagia. I nomi dei due milioni di persone che avevano sottoscritto il referendum vennero divulgati e tutti quelli che avevano un impiego statale furo- no licenziati, in una caccia alle streghe che fu la prima vera azione to- talitaria del nuovo ordine. Da allora Silvana non ebbe più un contrat- to di consulenza pubblico come ingegnere civile. «Ma al di là della persecuzione politica - racconta -, la verità è che in tutti questi anni il governo si è completamente disinteressato dell’acqua. Non ha realizzato nuove infrastrutture, né riabilitato e innovato quelle esistenti con il risultato che in molte zone della capitale l’acqua potabile è razionata. C’è chi la riceve mezz’ora al giorno, chi dieci minuti per tre volte al giorno, chi non la riceve per settimane. Così ho fatto solo consulenze private, poche. Poi ho accettato di fare l’amministratrice di un ristorante che adesso è stato costretto a chiudere. I prezzi sempre più alti, i clienti sempre di meno. Nessuna attività resiste in queste condizioni. È come se ci stessimo tutti ibernando. Mangiamo sempre meno, usciamo sempre meno. Per risparmiare le energie come in un lungo letargo. Oggi sopravvivo con il baratto. Un esempio? La mia amica dentista viene a Caracas una volta al mese. Io vado a prenderla all’aeroporto - qui la benzina non costa niente - e lei mi fa la pulizia ai denti gratis. Oppure preparo da mangiare per signore più anziane di me che non possono uscire di casa. Non vado più nemmeno al cine- ma. L’ultima volta che ci sono andata un sacchetto di popcorn costa- va il doppio del biglietto d’ingresso».

Chi paga il prezzo più alto del disastro e dell’inettitudine di un governo che si rifiuta di dichiarare l’emergenza umanitaria anche se nel circuito della sanità pubblica sono introvabili l’85% delle medicine, sono i malati. Susana Alvarez, 39 anni, impiegata che vive a Curiacao, estrema periferia ovest di Caracas, ha perso una figlia di cinque anni, Daniela, perché negli ospedali non ci sono più macchine per eseguire una Tac. E il tumore al cervello di Daniela è stato diagnosticato con mesi di ritardo. “L’ultimo esame, una biopsia che rivelava il tipo di cancro che aveva, l’ho ricevuto il giorno del suo funerale”, racconta. “Noi non avevamo la possibilità di rivolgerci a strutture private e og- gi in Venezuela attraversare gli ospedali pubblici è angoscioso. Danie- la è stata in ospedale cinque mesi, in una stanzetta con gli scarafaggi, senza aria condizionata, con le zanzare. Non c’erano medicine e io e mio marito doveva cercare e comprare quelle che i medici scriveva- no nelle ricette, all’inizio sbagliate perché nessuno aveva capito cosa avesse. Da allora la situazione è persino peggiorata. Dopo la morte di mia figlia faccio la volontaria nell’ospedale. E’ un tormento”. Qualcu- no racconta di medici che usano pezzi di buste di plastica al posto dei guanti. Un’altra volontaria, Sandra Perdomo, della Ong oncologica Usum che assiste pazienti terminali, “quelli che nessuno vuole”, trac- cia un quadro spaventoso: “Non c’è nemmeno la morfina, non è possi- bile morire con dignità”. Un altro aspetto è la censura sui dati, per esempio quelli sull’aumento della mortalità infantile. E la diffusione di malattie infettive come la malaria, il dengue e la chikungunya. Nel 2016, ma i calcoli non sono ufficiali, in Venezuela ci sono stati più di 200mila casi di malaria, il 50% di tutti quelli registrati nel sub conti- nente sudamericano. “Una situazione allarmante”, sottolinea l’infetti- vologo Julio Castro. Sandra insiste non solo sull’assenza di medicine ma anche sulla dubbia qualità di alcune di quelle generiche che si usa- no. “Preferisco un farmaco scaduto prodotto da Novartis che un gene- rico fatto a Cuba. Perché l’ho visto. Alla fine della terapia con i generi- ci ho visto pazienti stare peggio di quando l’avevano iniziata. Risultato zero”. Ma in Venezuela, denuncia Sandra, ormai c’è il mercato nero delle medicine. “Non degli antibiotici, che pure mancano, ma dei farmaci per i casi più gravi, quelli dove la disperazione delle famiglie può costringerle a indebitarsi in qualsiasi modo”.

È mattina presto e dalla terrazza di casa di Annamaria, in un quartiere di ormai ex classe media, California norte, si vedono nella piazzetta quelli che rovistano nei sacchi dell’immondizia lasciati la sera prima dai condomini dell’edificio “Berna”. Prima arrivano i più anziani che rovistano cercando un pezzo di pane o l’avanzo di una cena. Poi quelli che cercano oggetti di plastica da riciclare. Aprono i sacchi, gli danno un calcio per svuotarli, e prendono le bottigliette dell’ac- qua minerale. L’ultimo passaggio è di quelli che cercano pezzi di fer- ro, rame, ottone. “È così da mesi”, dice lei che li osserva dall’alto men- tre qualche vicino passeggia il cagnolino. Annamaria Cappella è una logopedista che segue soprattutto bambini in un istituto pubblico. Ha 53 anni, vive con la madre, Nelly, 84, e un figlio adolescente. Con quello che guadagna lei, e la pensione di sua madre, adesso mangiano una settimana. Un anno e mezzo fa è stata operata di un tumore al se- no, grazie a un chirurgo che ormai ha lasciato il Paese, quasi gratis in una clinica privata. “Da allora, non so più nulla della mia malattia. Non ho potuto fare una scintigrafia per verificare metastasi alle ossa perché non ci sono gli strumenti adatti. Ma soprattutto non ho potuto curarmi. Fare la chemio e la radiologia. Ho bisogno di un farmaco che si chiama “Herceptin”, lo produce l’azienda farmaceutica Roche. È l’unico farmaco che posso prendere, ho provato con altri generici che venivano dall’Uruguay, ma mi alterano tutti i valori. Fino a qual- che anno fa “Herceptin” lo importava il ministero della Sanità ma or- mai è quasi introvabile anche volendo comprarlo privatamente. Dopo l’operazione avrei dovuto fare sedici sessioni di chemio con le ampolle “Herceptin”, una ogni tre settimane. Ne ho trovate solo quattro in tutto, a distanza di tempo l’una dall’altra e, in questo modo la che- mio non serve a niente, perché bisogna rispettare le scandenze delle sessioni. Che altro posso fare? Soltanto sperare di sopravvivere il più a lungo possibile senza cure”. Il quartiere dove vive Annamaria si è molto degradato dall’inizio della crisi. Edifici di impiegati statali, professori, maestri di scuola, che adesso subiscono le scorribande della piccola criminalità. Così adesso l’oggetto più importante che possie- de è un fischietto come quello degli arbitri nello sport. Serve per dare l’allarme se qualcuno prova a svaligiare una casa o a aggredire un vici- no. Si sono organizzati così. Il sistema del fischietto è diffuso in tutto il quartiere. E Annamaria, almeno di questo, va fiera.

Adesso tutti guardano alle Forze armate. I dirigenti dell’opposizione, soprattutto il presidente del Parlamento, Julio Borges, continua a fare appelli ai militari affinché non seguano Maduro nei suoi proposi- ti di posporre sine die le nuove elezioni. Analisti e giornalisti osserva- no ogni minimo movimento per individuare fratture all’interno dell’esercito mentre il presidente, ogni tanto fa arrestare qualche ufficiale, di solito già in pensione, accusandolo di “preparare un complotto” contro di lui. Nel governo venezuelano ci sono undici generali su 34 ministri. Sono in posti chiave come al ministero degli Interni. Non è una novità ma nel corso di questa crisi sono gli alti gradi delle Forze armate il vero sostegno a un governo circondato dalle proteste. Alcu- ni generali, come per esempio Nestor Reverol (Interni), sono ricerca- ti dalla giustizia americana per narcotraffico e corruzione. Secondo Cliver Alcalà, generale in ritiro, che fu a suo tempo un uomo di fidu- cia di Hugo Chávez, la fedeltà delle Forze armate è dovuta soprattutto ai timori per il futuro. “Più che per convinzione, appoggiano Maduro per paura. Le Forze armate sono spaventate perché molti pensano che la loro libertà e la loro vita, il loro patrimonio personale, dipendono dalla stabilità dell’attuale governo. Credono che con l’opposizione al potere sarebbero perseguitati”. La compenetrazione tra le Forze ar- mate venezuelane e la rivoluzione bolivariana risale ai primi anni della presidenza di Chávez. Ma con l’elezione di Maduro e l’esplodere della crisi economica il legame tra i militari e i civili al potere è diventato ancora più forte. Della produzione, distribuzione, e importazione di alimenti oggi in Venezuela si occupano i militari. E qui viene la seconda ragione dell’appoggio incondizionato a Maduro: gli affari. Una delle colossali distorsioni economiche della rivoluzione è il con- trollo del cambio. Iniziò nel 2003 e oggi ci sono in Venezuela due tipi di cambio per il dollaro e l’euro. Uno fisso, che non ha alcuna relazione con il valore reale della moneta nazionale e un altro variabile, ma sempre controllato, che si applica per esempio al turismo che ormai non c’è più. Mentre il valore reale del dollaro sul bolivar è circa 1 a 4000, quello fisso è 1 a 10. Il cambio fisso è quello che il governo utiliz- za per finanziare le importazioni. E qui iniziano disastro e business. Poniamo il caso di una società che vuole importare pasta. Andrà dal governo a chiedere un finanziamento a tasso fisso, 1 dollaro 10 boli- var, per fare l’operazione. Ma sarà sufficiente che non investa tutto il denaro che ha avuto nell’import per speculare rivendendo sul mercato interno a cifre molto maggiori un dollaro che ha avuto a costi strac- ciati. È in questo semplicissimo modo che decine, o meglio centinaia, di funzionari governativi e generali hanno potuto fare affari da capogiro. Ed è in questo modo che nacque, quando le entrate del petrolio nel primo decennio di Chávez andavano ancora a gonfie vele, quella che si chiamò la boliborghesia, la nuova borghesia bolivariana. Con questo sistema infatti completamente accentrato da chi sta al governo, chi sta nel giro giusto ottiene i benefici, chi non ci sta fallisce. Sotto la lente della giustizia internazionale non c’è solo la corruzione e il narcotraffico - (fino a che i guerriglieri delle Farc non hanno concluso l’accordo di pace con il governo colombiano, il Venezuela ha favorito le loro operazioni con la droga) - ma anche i diritti umani. Al generale Antonio Benavides Torres, comandante della Guardia nazionale boli- variana (GNB), quella che in questi è in prima linea nella repressione delle marce di protesta dell’opposizione, è stato proibito dal 2015 l’ingresso negli Stati Uniti, paese dove sono stati congelati anche tutti i suoi beni per violazione dei diritti umani.

L’albergo che ci ospita in questi giorni è praticamente vuoto. Alla colazione non c’è nessun tipo di pane e ogni giorno che passa i cibi, di- sposti su un bancone di marmo scuro, diminuiscono. Non c’è marmellata, non c’è burro. Nessun dolce. Lo zucchero è razionato. Quando prendi il caffé si avvicina un cameriere e ti allunga una bustina. Una volta questo era l’albergo che ospitava i manager stranieri che veniva- no a firmare contratti con Pdvsa, la holding statale venezuelana del pe- trolio. Oggi i suoi diciannove piani sono occupati appena da qualche famiglia cinese. Di solito molto giovani. Sono i tecnici che verificano le partenze del greggio verso la Cina che a Chàvez prestò moltissimi soldi, tutti già spesi, in cambio di oro nero fino al 2025. Nella hall, Pe- dro, uno degli impiegati più anziani ha l’aria sconsolata: “Quanto po- tremo andare avanti così?”, si chiede mentre osserva i ragazzi che han- no eretto piccole barricate per bloccare il traffico lungo la strada. “Pre- sto - aggiunge - i proprietari dell’albergo ci manderanno tutti al ma- re”. Infatti, quanto si potrà andare avanti senza una svolta? Angelo è italiano. Oggi ha quasi sessant’anni ma emigrò in Venezuela che era adolescente, più di quarant’anni fa, da un paesino dell’Abbruzzo. Uno dei tanti artigiani che hanno fatto un po’ di fortuna. È proprietario di una vetreria con otto operai. E non si dà pace perché da mesi ogni giorno rischia di dover chiudere per fallimento. La società che importa lamina di vetro da lavorare in Venezuela è stata nazionalizzata qualche anno fa. Ma da tempo non riceve dollari a prezzo privilegiato del cam- bio ufficiale e Angelo è senza materia prima. “Anche l’avessi - dice -non sarebbe diverso. Chi ha bisogno di specchi per rinnovare un ne- gozio? Un ristorante? Un bar? In questa situazione nessuno”. Negli ultimi cinque anni, sono cifre ufficiali della Camera di commercio, sono fallite mezzo milione di piccole e medie imprese. Erano 750mila, sono 250mila. Più in generale nel corso del 2016 sono andati perduti 750mi- la posti di lavoro, dei quali 550mila nel terziario e nei servizi. Gli ulti- mi sono i 3mila operai della fabbrica Chrysler di Valenzia che ha chiu- so una settimana fa. Gli italiani con passaporto in Venezuela sono cir- ca 150mila ma gli oriundi sono quasi due milioni. Angelo potrebbe tornare in Italia ma non vuole e non può farlo. “Non mi piace l’inverno”, scherza, “Ma la verità è che dopo più di quarant’anni tornerei senza un soldo, senza un futuro. Sono carcerato qui come tanti altri. Vende- re l’attività è impossibile, come vendere la casa che ho comprato. Che torno a fare in Italia?”. Anche senza pensione, verrebbe da aggiunge- re, perché in violazione dell’accordo bilaterale, Caracas da diciotti me- si non sta inviando la pensione agli italiani - circa un migliaio - che ne avrebbero diritto per avere versato i contributi in Venezuela.

I venezuelani che hanno lasciato il loro Paese in questo ventennio sono più di due milioni. Darío, 23 anni, lo sta per fare. È insegnante di lingue e la società per cui lavora ha ottenuto un contratto per insegna- re inglese a Panama. Chiudono gli uffici a Caracas e se ne vanno. Da- río con loro. “Finalmente esco da quest’incubo, sono felice”. Prima, fino a ieri, Darío andava alle marce dell’opposizione. Uno di quei ragazzi che vanno in piazza con un casco in testa, uno scudo e un fazzoletto bagnato nell’aceto per non respirare i gas dei lacrimogeni. La forza d’urto dell’opposizione. Darío non è d’accordo con la via pacifica. Pensa che bisognerebbe scontrarsi con la Guardia Nazionale, sfondare i cordoni e raggiungere l’obiettivo previsto: la sede del Cne, il comitato elettorale nazionale. “Oggi la repressione è molto più dura del 2014 - quando all’inizio della carestia ci fu la stagione delle proteste studen- tesche - ma noi siamo anche molti di più e molto più determinati. Con queste manifestazioni non andiamo da nessuna parte”. Il dibattito sul- la violenza è acceso nell’opposizione. La maggior parte dei leader so- stiene la via gandhiana e teme che reagire finisca per fare il gioco del governo che, soprattutto all’estero, cerca di accreditare l’idea che i manifestanti siano dei “terroristi”. La guerra mediatica si gioca anche sulle vittime. Ma il vero pericolo per chi marcia non sono i lacrimoge- ni, gli arresti - e le torture di cui parlano tutti - quanto piuttosto i “colectivos”, le milizie paramilitari pro governo, che spesso hanno attac- cato i cortei di protesta sparando. I “colectivos” nacquero come stru- menti di controllo nei barrios più poveri all’inizio della rivoluzione. Un po’ sull’idea dei Cdr cubani. Li fondò Lina Ron, una pasionaria di Chávez. All’inizio gestivano nei barrios la fedeltà al progetto. Con il tempo si sono trasformati. Alcuni si limitano a organizzare le file nei negozi per la spesa, mentre altri sono quelli che sequestrano e traffi- cano con la droga. Ad un amico di Darío è successo. “Era il dottore in una farmacia. Una sera tardi l’hanno sequestrato e portato sui cerros. Dopo avergli rubato tutto, l’hanno abbandonato nudo sull’autostrada alle tre di notte. I “colectivos” agiscono nell’impunità più assoluta. Un giorno Chávez promulgò una legge secondo la quale le zone più popolari, i barrios, sono “aree di pace” dove la polizia non ha alcuna giurisdizione. Non possono nemmeno entrare. Questo permette ai “colectivos” di fare quello che vogliono. Ti rapiscono, ti portano in un barrios e nessuno gli dice niente”. “Maduro - dice ancora Darío - ha perso l’appoggio dei più poveri che avrebbe dovuto difendere. Nel- le baraccopoli i “colectivos” minacciano tutti, altrimenti la gente si sarebbe già ribellata”. Prima di lasciare il Paese, Darío sta vendendo i suoi oggetti più pregiati. Due skateboard, la chitarra e la playstation, tutti regali che gli hanno fatto i suoi genitori anni fa. “Non ce la faccio più a vivere qui”. “La mattina esco di casa è vedo persone che cercano nella spazzatura, vado alla metropolitana e vedo persone che rovistano nei cassonetti. Per fortuna lavoro e non soffro la fame ma con quello che guadagno non posso neanche comprarmi un paio di pantaloni nuovi. Ho solo un paio di scarpe bucate che mi hanno regalato. Come è possibile tutto questo nel Paese che ha le maggiori riserve di petro- lio al mondo?” Tornerai se cade Maduro? “Penso di sì”.

“Quando mio figlio l’altra sera a cena mi ha detto: Papà voglio scendere in piazza a protestare", mi si è fermato il cuore. Pensare che un ra- gazzo di 18 anni, mio figlio, con ancora tutta la vita davanti possa mori- re, o essere arrestato, per questa situazione assurda che viviamo mi getta veramente nel panico”. Iñigo Carril a Caracas è ancora un privilegiato. È ginecologo nella clinica privata “El Avila”. Sua moglie Carolina è dentista. Avrebbe dovuto riceverci anche lei ma è a letto con l’epatite, forse provocata proprio dalle condizioni igeniche del Paese. Hanno tre figli, un maschio e due gemelle di sedici anni. Il progetto era che i tre ragazzi andassero tutti a studiare in una università negli Stati Uniti appena finito il Liceo. Legge o medicina. Ma adesso non possono più permetterselo. Il maschio andrà in Spagna, che costa me- no. Questa ennesima crisi politica, dopo che il Tribunale supremo ha provato ad abrogare il Parlamento tutto in mano all’opposizione, li ha colti di sorpresa. “A dicembre del 2015 pensavamo davvero di averce- la fatta. Dopo anni tutti quei voti all’opposizione, il 56,2%, e 112 depu- tati, la maggioranza assoluta”. Per molti furono giorni felici. Pensava- no che la rivoluzione bolivariana fosse al capolinea. Che Maduro, elet- to due anni prima con appena 200mila voti di vantaggio, ormai fosse prossimo alla caduta. Invece il peggio doveva ancora arrivare. Il presi- dente si è arroccato, ha rinviato prima le nuove elezioni amministrati- ve, poi quelle per i governatori degli Stati. E, con qualche astuzia, grazie al fatto che il Psuv, il partito socialista unito fondato da Chávez, ha il controllo maggioritario di tutte le istituzioni dello Stato - tranne l’Assemblea nazionale - è riuscito anche a evitare il referendum per il quale erano state raccolte più di due milioni di firme e che avrebbe po- tuto costringere il presidente alle dimissioni. Per un medico professionista come Iñigo, che in fondo con la politica ha un approccio su- perficiale, gli scenari peggiori sono arrivati tutti insieme. Il suo lavo- ro e quello di sua moglie sono diventati sempre più difficili. E non so- lo perché è quasi inutile prescrivere una medicina, tanto non si trova- no. Non si possono neppure comprare nuovi strumenti, stare al passo con le novità tecnologiche, i nuovi macchinari, fare esami. Una gene- razione di medici che rischia di tornare indietro di vari decenni. “Così non solo - dice - oggi in Venezuela non puoi comprare una casa, cambiare una macchina, andare in vacanza, non puoi neppure aggiornar- ti né lavorare con un minimo di soddisfazione. Viviamo in un territorio senza regole, un nuovo Far West”. “Qui - aggiunge - non solo è morta la chirurgia plastica. E’ impossibile anche applicare cure sulla fertilità, o fare gli esami clinici minimi e consueti a una paziente. Tut- te le grandi compagnie farmaceutiche internazionali hanno abbando- nato il Paese da tempo. E noi sopravviviamo grazie a qualche “angelo viaggiatore”, li chiamiamo proprio così, che porta prodotti medici dall’estero. Spesso a prezzi proibitivi e senza alcun controllo sanita- rio reale”.
“Questo mese - racconta Luis - per punizione non hanno portato le buste del cibo, i Clap, a tutto il condominio. E’ successo che una sera abbiamo partecipato a un cacerolazo, sbattendo pentole e padelle dal- le finestre per una mezz’ora contro l’aumento dei prezzi e non solo. Qualcuno deve aver preso nota degli edifici che aderivano alla protesta e i soldati con i viveri qui davanti non si sono fermati. Cinquanta metri prima e cinquanta metri dopo sì, ma qui da noi no. Siamo andati a chiedere e ci hanno detto che era solo per questa volta, se ci compor- tiamo bene il mese prossimo ce li riportano”. Luis ha 43 anni, moglie e due figlie adolescenti. Come sua moglie ha sempre votato per Chávez “perché ha dato una dignità ai poveri”. Alle ultime presidenziali, quelle dell’aprile 2014, convocate appena un mese dopo la morte del caudillo rivoluzionario, ha votato per Maduro. “Perché era stato scel- to da Chávez come suo erede”. Oggi, mentre il Venezuela sembra av- viarsi verso la dittatura di una minoranza che si rifiuta di cedere il po- tere, Luis non è solo deluso, è anche arrabbiato. Non tanto da andare alle manifestazioni, ma abbastanza da giurare di non votare mai più “per la rivoluzione”. Anche lui sognava di mandare una delle due fi- glie a studiare all’estero. Ma adesso con la moneta nazionale in picchiata “con quali soldi posso farlo?”. Cresciuto in una famiglia molto povera ha sempre fatto lavori saltuari, legali ma esentasse. Finché non s’è inventato un sistema che gli ha dato un po’ di dollari. Compra oggetti di uso quotidiano e va a rivenderli all’Avana, Cuba. “In realtà - confessa - non ho inventato niente mi hanno raccontato che qualcu- no lo faceva e ho provato”. La parte più difficile dell’operazione è la frontiera all’aeroporto di Caracas, dove bisogna dare qualche soldo all’agente. Invece all’Avana chiudono un occhio sulle due valigie pe- santi che trascina. Grazie alle relazioni fraterne del governo bolivaria- no con quello castrista, il biglietto aereo costa poco, e alcuni oggetti come il fon che stira i capelli ricci e crespi delle mulatte cubane van- no a ruba nell’altra metà del socialismo caraibico. “Ma si vendono bene anche i leggins “Licras”, le scarpe, le calze, la cheratina che usano per allisciare i capelli e i deodoranti che però ormai qui a Caracas non trovo più. In una settimana posso guadagnarci 200 dollari che è mol- to di più di qualsiasi stipendio che prenderei qui”. Un altro lavoro saltuario di Luis è l’immigrante negli Usa. Da qui ci vanno con un visto turistico ma appena arrivano si mettono a lavorare. Di solito in Flori- da. L’ultima volta Luis piantava giardini nelle ricche ville di Miami. “Mi sono venuti i calli alle mani”. Tornando al Venezuela la sua preoccupazione è la dittatura. “Non voglio vivere dove c’è un tiranno”, dice.

La storia di Mercedes è la rappresentazione della lenta discesa all’inferno della classe media venezuelana nel ventennio chavista. “Per la verità, dice lei, la mia vita è davvero cambiata negli ultimi sei o sette anni. Io lavoro al Seniat, ministero delle Finanze, l’organismo che si occupa delle tasse e delle dogane. Oggi ho 46 anni ma quando ci sono entrata, vincendo un concorso, il Seniat era uno dei tanti gioielli dell’amministrazione dello Stato. Apparato tecnico con professio- nisti di alto livello, ben preparati e anche molto ben pagati. Adesso invece è tutto rovesciato. I professionisti che c’erano non ci sono più, sono stati tutti cacciati per ragioni politiche, perché si opponevano al governo o perché avevano firmato qualcosa che non andava bene. L’anno scorso ne hanno licenziati altri mille perché avevano sotto- scritto la richiesta di referendum contro Maduro. Il Cne, Commissio- ne nazionale elettorale, dovrebbe mantenere segreti i dati delle perso- ne ma non lo fa. Io per fortuna non ho mai firmato niente contro il governo, la politica non mi interessa, ma sono crollata lo stesso nella mi- seria. In realtà - aggiunge Mercedes - per essere cacciati da un impie- go pubblico in Venezuela basta anche meno di una firma. Se mettessi una foto di Capriles, uno dei leader oppositori, sul salvaschermo del mio telefonino sarei fritta. Quando inizia a lavorare nel Seniat il mio stipendio equivale a settemila dollari, oggi ne vale poco più di dieci. Avevo una colf a casa, ho dovuto licenziarla. Non ho i soldi per pagare il condominio e neppure l’assicurazione dell’auto. La polizza di assi- curazione privata non ho potuto rinnovarla. Mangiare fuori? Quello che prima era qualcosa di abituale o quotidiano come andare in un bar a prendere un caffè con un pezzo di torta, che era la mia merenda di tutti i giorni, adesso è un lusso da evitare. Comprare vestiti, andare dal parrucchiere. Impossibile. Ma perfino comprare smalto per le un- ghie. Una situazione molto triste nella quale stanno anche molti altri miei colleghi. Quelli che hanno famiglia stanno vendendo tutto. Og- getti di antiquariato, quadri, qualsiasi cosa possano vendere. Qualcu- no affitta stanze nella propria casa. Altri provano a fare altri lavoretti dopo l’orario d’ufficio. Spostano i figli in collegi scolastici che costano meno”. Mercedes ha un compagna che l’aiuta e due genitori molto anziani. Ha due lauree e parla tre lingue. Ma, a breve, il suo futuro è an- dare a lavorare come cameriera in un hipermercato Espar a Palma di Maiorca. “È l’unica soluzione che ho trovato grazie a degli amici. Devo andare perché così da li potrò spedire medicine e pacchi alimentari ai miei genitori. Non posso accettare che muoiano nella miseria”.

La rivoluzione bolivariana guidata da Chávez fino al 2013, e poi dai suoi eredi, è stata fin dall’inizio un fenomeno con caratteri totalitari. L’esempio più facile è la storia dei giornali e delle televisioni. Oggi a Caracas rimane solo un quotidiano non asservito al governo in carica ed è El Nacional ma il suo direttore Miguel Henrique Otero, figlio del fondatore, vive da tempo in esilio in Spagna per un ordine di cattura che il governo chavista ha emesso contro di lui. Tra le riviste indipendenti c’è Tal Cual, il newsmagazine fondato da Teodoro Petkoff, un politico, economista, ex guerrigliero, leader della sinistra non chavista, che oggi, a 85 anni, è completamente appartato dalla vita pubblica. La censura su stampa e tv non arrivò subito e in questi an- ni ha visto modalità diverse. Più acquisti di testate o televisioni da par- te di neo industriali prossimi al potere, che vere e proprie chiusure. È andata così per un quotidiano, Ultimas noticias, comprato da una società legata al governo Maduro, e per Globovision, che un tempo era il canale più compromesso a favore dell’opposizione. Ma il primo caso e il più famoso fu quello di Rctv (Radio Caracas Television) costretta ad interrompere la programmazione perché Chávez non rinnovò, alla scadenza nel 2007, la concessione per trasmettere. Victor Amaya, 34 anni, un giovane giornalista che oggi lavora a Tal Cual e al El Estimulo, due giornali solo online, è stato una delle tante vittime della censura quando Ultimas Noticias cambiò proprietà. “Iniziarono a prendere solo pubblicità governativa - racconta - poi a dare poca importanza a notizie scomode, infine a censurare gli articoli. Io lavoravo nella sezione arte e spettacoli e quando misi in pagina una intervista a Patricia Janot, una giornalista della Cnn in spagnolo critica con Maduro, decisero di toglierla poco prima che andasse in stampa”.

Tamara Herrera, 64 anni, è nata a Caracas perché sua madre, italiana, si innamorò di suo padre, venezuelano, al Festival della Gioventù di Berlino nel 1951. Oggi lavora come economista in una società di consulenza che confeziona report analizzando le variabili politiche e economiche del Paese. Anche la sua vita è cambiata moltissimo negli ulti- mi mesi. Dopo molti indugi ha deciso anche lei di occuparsi di una vecchia pratica che aveva abbandonato nei cassetti, mandare avanti la procedura per ottenere un passaporto europeo che qui è diventata una àncora di salvezza per molti. Non è detto che decideranno mai di utilizzarlo ma nell’incertezza rappresenta una chimera di sicurezze. Spesso è la prima cosa che ti dicono. “Mio nonno era spagnolo, ho fatto il passaporto.”. Oppure che era italiano, oppure che era francese. Ma a Tamara Herrera non piace parlare di sè, gli piacciono gli scenari. Dunque parliamo di scenari. “È un contesto molto difficile da sbloccare. Convocando elezioni per una nuova Assemblea costituente, una soluzione che l’opposizione giudica come un altro colpo di Stato già tentato un mese fa con l’inabilitazione, poi smentita, del Parlamento, Maduro ha fatto una mossa che può dargli un po’ di respiro nel suo scivolare verso l’autocrazia. Piuttosto aumenta il rischio di un default. Temo che la crisi politica e le difficoltà che ci sono per ottenere nuovi prestiti potrebbero convincere il governo del fatto che ha meno da perdere non onorando le scadenze del debito estero piuttosto che facendolo. I militari sostengono il presidente ma senza scendere in campo. Fanno di tutto per dimostrare che non hanno compiti di sicurezza interna. Fino a quando non si sa”.

La sensazione molto diffusa che il regime barcolli anche per una vasta rete di corruzione che ha depredato risorse, e che sia disposto a blindarsi a qualsiasi costo pur di non pagarne penalmente le conseguenze, non è facile da verificare. Però un caso come quello dello scandalo Odebrecht, la multinazionale brasiliana che ha finanziato illegalmente campagne elettorali e presidenti di molti paesi sudamericani, è molto sospetto. In Venezuela non ha avuto ripercussioni nonostante i manager della multinazionale abbiano confessato di aver pagato a Caracas tangenti per 98 milioni di dollari. Chi li ha ricevuti? Qui nessuno indaga. Come nessuno indaga sulla vicenda dei due nipoti di Maduro e sua moglie, Cilia Flores, arrestati dalla Dea a Haiti con un aereo Fokker pieno di panetti di cocaina e ora sotto processo a New York. Mentre declina come una stella morta che ap- partiene al passato, il fallito socialismo bolivariano trascina con sè le sorti del Paese che gli diede il battesimo alla fine del 1998. Ma nonostante l’isolamento internazionale - esclusi Cuba, Russia, Iran e Cina - di Maduro una svolta potrebbe non essere così prossima. È quello che abbiamo letto negli sguardi e nelle parole di tutti quelli che abbia- mo incontrato. Tra lo stupore e lo sgomento. Perché non se ne va do- po il disastro che ha combinato? Il più grande nemico di Maduro oggi è un socialista uruguayano, ex ministro degli Esteri nel governo di Pepe Mujica, che oggi guida l’Osa, l’organizzazione degli Stati americani, dalla quale il Venezuela è appena uscito. È Luis Almagro che segue con una perseveranza certosina tutto quello che accade a Caracas e non perde occasione per richiamare Maduro al rispetto delle regole democratiche condivise in tutto il Continente. Ma intanto qui molto lentamente si affonda in un incubo totalitario che sembra non aver fine.