“Goodbye Spain”, ce ne saranno tanti di cartelli con questo
slogan (in inglese per le tv internazionali) venerdì sera a Madrid per la
finale della Copa del Rey di calcio. Quest’anno infatti se la contendono il
Barça di Pep Guardiola (è la sua ultima partita con la squadra catalana) e
l’Athletic Bilbao. Insomma le rappresentative calcistiche di due delle tre
autonomie storiche – l’altra è la Galizia – di Spagna. Alla fine degli anni
Trenta quando il generale Franco condusse l’esercito golpista alla riconquista
dell’unità nazionale, abbatté la Repubblica, e impose la dittatura sostenuto da
Hitler e Mussolini, i Paesi Baschi e la Catalogna erano le “regioni maledette”,
le patrie del tradimento verso la monarchia deposta e il cattolicesimo
calpestato, e come tali vennero punite per decenni. Due lingue, due culture, e
anche due potenti borghesie (bancarie e industriali) che hanno sempre fatto molta fatica a sentirsi “spagnole”,
centraliste, monarchiche e castigliane.
Già tre anni fa, nel 2009, la finale della Coppa del Re
(torneo che equivale alla nostra Coppa Italia) si giocò fra il Barcellona e l’Athletic.
E fu un caos. Le due tifoserie andarono alla stadio con le bandiere nazionali,
basca e catalana, fischiarono sonoramente l’inno spagnolo e re Juan Carlos, che restò impassibile. L’incidente costò la poltrona al direttore dei servizi sportivi
della tv pubblica perché censurò i fischi, e un processo ai promotori
dell’iniziativa archiviato in tribunale perché la protesta era libertà
d’espressione. Ma questa volta è diverso. Intanto perché ad incendiare gli
animi alla vigilia dell’incontro ci ha pensato la governatrice di Madrid
Esperanza Aguirre. Esponente della destra dura all’interno del Partito Popolare
di Mariano Rajoy che ha vinto le elezioni nel novembre scorso, Esperanza detta
“Espe”, descritta dai giornali come la “piromane”, ha chiesto a polizia e Federazione
calcio di annullare l’incontro e rinviarlo “a porte chiuse” senza la presenza
del pubblico, se prima della partita verrà fischiato l’inno nazionale. “Sarebbe
un oltraggio ai nostri simboli”, ha detto la Aguirre, “e l’oltraggio è punito
dal codice penale”. Poi c’è una ragione più seria che fa crescere la tensione e
si riverbera anche sulla partita di calcio. La crisi che attraversa il paese
rende molto più complicati i rapporti fra il governo nazionale e le autonomie
regionali, baschi e catalani in testa. L’austerity di Rajoy, che ha promesso
alla Merkel di ridurre il rapporto deficit/pil dall’8,9% del 2011 al 3% entro
la fine del 2013, ha costretto la Catalogna ad affrontare una stangata storica,
con tagli – a Sanità e Istruzione – pari a quasi il 20% del suo attuale
bilancio. Una situazione che rende incontrollabili i rancori separatisti.
Due dati: i cittadini favorevoli all’indipendenza della
Catalogna crescono. Oggi superano il 45% dei 7,5 milioni di abitanti della
regione che fa capo a Barcellona ed ha anche nel Barça di Xavi, Pujol e
Fabregas (tutti catalani mentre Messi è argentino) una sorta di punto di
riferimento nazional simbolico. E il progetto di Artur Mas, presidente della
Generalitat di Catalogna dalla fine del 2010, è quello di ottenere “il patto
fiscale” con Madrid. Ossia di dare l’ultimo passo verso l’autonomia totale
creando un proprio ministero delle Finanze e incassando direttamente le tasse. Se
si considera che il governo della Catalogna ha già competenze molto ampie,
dalla Sanità all’Istruzione fino alla polizia, le Finanze proprie sarebbero
l’anticamera della secessione e dell’indipendenza dalla monarchia spagnola.
E visto che siamo alla vigilia dei Campionati europei di
calcio è tornata d’attualità la rivendicazione di tutti i partiti nazionalisti
di Galizia, Paesi Baschi e Catalogna, di avere una propria nazionale di calcio,
come il Galles e la Scozia che stanno in Gran Bretagna ma vanno agli europei
con la propria squadra di pallone. L’altra mattina erano tutti sulla scalinata
delle Cortes, il Parlamento, con uno striscione in tre lingue (catalano, basco
e gallego) che recitava: “Ogni nazione la sua selezione”.
Da questo punto di vista all’Athletic sono intransigenti e
fanatici. L’unico “straniero” è l’allenatore, quel Marcelo Bielsa, argentino,
detto “el loco” (il pazzo), che Moratti vorrebbe all’Inter. I calciatori sono
tutti baschi di nascita o di formazione calcistica nella “cantera” (le
giovanili) del club. Dunque nella finale si fischierà l’inno per ragioni
sportive, politiche ed economiche. E a prendere i fischi dei tifosi baschi e
catalani non ci sarà Juan Carlos, ancora zoppicante per la caduta durante il
polemico Safari in Botswana. Ma suo figlio Felipe, l’erede al trono.
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