Sāo Bernardo do Campo (San Paolo). Il polso del Brasile bisogna prenderlo qui,
nella sterminata cintura industriale di San Paolo, la sua capitale produttiva e
finanziaria, dove ci sono le grandi fabbriche dell'auto che, subito dopo i
Mondiali, hanno iniziato sottovoce a licenziare. Niente di catastrofico ma la
tendenza del "decennio prodigioso" (2003-2013) s'è ormai invertita. Dieci
anni fa in Brasile si vendevano 100mila auto al mese, due anni fa l'industria
toccò il picco: 300mila nuovi proprietari di auto ogni mese. Fu il simbolo di
una rivoluzione sociale che in pochi anni aveva portato fuori dalla miseria
quasi trenta milioni di persone che avevano iniziato a spendere, a consumare, e
soprattutto a indebitarsi. In dieci anni la disoccupazione è scesa dal 13 al 5
percento. E il reddito delle fasce più basse è cresciuto da 700 reais (230
euro) a 1100 (310 euro). Un cortocircuito magico sostenuto dalle esportazioni
di materie prime - soprattutto soia verso la Cina -, dall'aumento dei salari, e
dai programmi sociali di redistribuizione dei governi del Pt, il partito dei
lavoratori di Lula e Dilma Rousseff, che hanno incoraggiato l'esplosione dei
consumi interni.
Quando arriviamo a Sāo Bernardo do Campo ci sono i picchetti.
Alla Volkswagen come alla Mercedes Benz è iniziata la stagione dei rinnovi
salariali e le proteste danno l'idea dei guai che, dopo le elezioni (primo
turno domenica, ballottaggio 26 ottobre), si troverà ad affrontare il nuovo
esecutivo. L'inflazione è alta, sfiora il 7%; il pil ha il segno meno da due
trimestri; il deficit di bilancio dello Stato cresce. Gli economisti vicini al
governo di Dilma sostengono che la burrasca è passeggera. E che presto la curva
dell'economia riprenderà a salire come nel fantastico 2010 quando la crescita
volò al 7,5%. Gli altri, invece, dicono che il problema sta nel modello. Che va
cambiato come promettono gli altri due candidati: l'ambientalista Marina Silva
e il centrista Aécio Neves. Il modello di Dilma è quello che si appoggia su un
forte intervento dello Stato nel mercato, sulle misure protezionistiche (alti
dazi sull'import), e sul contenimento artificiale dei prezzi, primo fra tutti
quello della benzina che viene calmierato dal governo. Che il colpevole sia il
modello sono convinti i broker della Borsa che svendono azioni facendola
crollare ogni volta che i sondaggi premiano nella corsa elettorale l'attuale
"presidenta".
L'incertezza sulle prospettive ha reso molto volatili le
preferenze sul voto. I sondaggi sembrano un tobogàn dove i candidati svolazzano
prima su e poi giù un giorno dopo l'altro.
Come se mezzo Paese impaurito non sapesse a chi affidarsi
per ritrovare fiducia nel futuro.
La ricetta di Dilma è quella della continuità e infatti
stravince nelle regioni più povere del Nord est dove milioni di persone
dipendono dai programmi di assistenza sociale dello Stato. E temono di perderli
se a Planalto, il palazzo del presidente a Brasilia, arriverà qualcun altro. Marina e Aécio Neves, il terzo incomodo
centrista che spera di entrare nel ballottaggio, vanno fortissimo nelle aree
produttive. Da San Paolo giù verso Sud
fino a Porto Alegre. Tra le classi medie, quelle delle proteste, che chiedono
più infrastrutture, programmi scolastici, migliori ospedali. E meno corruzione.
Per gli avversari della Rousseff l'ultimo scandalo, quello di Petrobras, la
holding petrolifera, è l'incarnazione di un modo di gestire il potere.
"Hanno usato la più grande industria del Paese come un bancomat
personale", ha detto la Silva in tv quando si è scoperto che per anni,
dagli uffici della holding erano state distribuite mazzette ai politici.
Nonostante sia cresciuta nel "partito dei
lavoratori" e abbia condiviso con Lula una lunga stagione di lotte
politiche, oggi il programma di Marina vuole cancellare i tratti
"socialisteggianti" dell'amministrazione del Pt. Una svolta neo
liberale che ridurrebbe il peso dello Stato concedendo totale autonomia alla
Banca centrale e più spazio all'industria privata. E che, senza intervenire
sull'assistenza ai poveri, promette di spendere meglio le risorse. Non per gli
stadi di calcio ma per scuole, ospedali e sicurezza. Un mutamento che
riguarderebbe anche la posizione geostrategica del Brasile, con un
riavvicinamento agli Stati Uniti e un progressivo allontanamento dall'orbita
del Mercosur, il mercato comune con i paesi vicini, soprattutto l'Argentina,
che impedisce al Brasile di firmare accordi di libero mercato con l'Europa, gli
Usa o i Paesi dell'area del Pacifico. Insomma Marina, ma anche Aécio,
prospettano di liberare il Paese dai lacci che, secondo loro, ne ostacolano la
crescita. Se è vero, come sostengono alcuni esperti, che il nocciolo dei
pasticci sta soprattutto nelle barriere protezionistiche e in una industria
che, al riparo della globalizzazione, è andata perdendo competitività.
L'ultima battaglia
però è nel fortino degli evangelici, alle cui Chiese aderiscono ormai quasi il
25% degli elettori. All'inizio della campagna elettorale in Brasile si è
parlato molto di leggi contro l'omofobia, di matrimoni gay e di aborto. Tutti
temi che fanno venire i brividi ai sacerdoti pentecostali. Poi quando i
candidati hanno scoperto di aver a che fare con una società molto più
conservatrice di quella che immaginavano - una inchiesta dell'Istat locale ha
rivelato che quasi il 70 percento dei brasiliani è contrario alle nozze gay e
ad una moderata liberalizzazione dell'aborto - le proposte sono scomparse dai
programmi elettorali. Dilma che è agnostica, figlia di comunisti, e da giovane
è stata guerrigliera contro la dittatura militare, è andata a fare proseliti
nelle chiese evangeliche. Marina Silva non ne ha bisogno perché è adepta in
quella più grande, "l'Assemblea di Dio". Ma, sondaggi alla mano,
Dilma e Marina si dividono il consenso dei pentecostali. 38% per la
"presidenta", 54% per la sua avversaria. Chi salverà il Brasile? La continuità o il
cambiamento? Insicuri e anche un po' spaventati milioni di elettori alla
vigilia del voto se lo stanno ancora chiedendo.