domenica 13 aprile 2014

Il Venerdì 25 Ottobre 2013 (un ritratto di Maduro)


DAL NOSTRO INVIATO
Omero Ciai
CARACAS - La notte, quasi tutte le notti, Nicolás Maduro risale con la Limousine presidenziale le colline di Caracas fino al Cuartel de la Montaña, la caserma del «4 febbraio», dove in una bara di marmo sono custodite le spoglie dell’ex presidente Hugo Chávez. «Vado lì e rifletto», ha detto. A volte ci dorme anche accanto al mausoleo del Jefe supremo di cui si considera «figlio», forse nella speranza di trarne ispirazione per i suoi compiti di go- verno. Altre volte Maduro riposa nella suite giapponese del palazzo presidenziale a Miraflores, ma evita accuratamente di usare tutte le stanze degli uffici che sono state conservate così come Chávez le ha lasciate e che verranno presto trasformate anch’esse in un museo. Maduro non abita neppure «la Casona», la residenza presidenziale, dov’è rimasta quasi tutta la famiglia dell’ex presidente, le figlie, i generi, i nipoti.


Ma mentre avanza il progetto di rendere immortali i luoghi e le gesta del comandante che non c’è più e si consolida il culto alla personalità dell’inventore del Socialismo del XXI secolo, è la sua creatura che rischia di finire in liquidazione. Che Nicolás Maduro, l’erede prescelto da Chávez prima di morire dopo una lunga battaglia contro il cancro il 5 marzo scorso, fosse appena un suo pallido, e semplicemente fedele discepolo, era noto. Meno noto, che in pochi mesi si trovasse a dover affrontare la più grave crisi economica dall’inizio della «rivoluzione bolivariana». Inflazione al 45,4 per cento, una penuria da carestia dei prodotti di prima necessità, black out elettrici, doppio regime con il dollaro comprato e venduto al mercato nero a un valore sette volte maggiore rispetto al cambio fisso imposto dal governo, corruzione dilagante, le casse del Tesoro statale sempre più vuote. Uno scenario da brividi per l’ex sindacalista e autista di autobus che sette mesi fa, era il 14 aprile, vinse le elezioni con appena un punto e mezzo in percentuale sul candidato dell’opposizione, facendo gridare alla truffa elettorale anche alcune Cancellerie di altri Paesi che tardarono diverse settimane ad accettarne la vittoria.

Di fronte alle difficoltà, la strategia non è cambiata rispetto agli anni di Chávez ma ormai è un po’ avvizzita. Maduro accusa l’opposizione, los escualidos (gli squallidi) della borghesia e l’imperialismo di ogni problema. Contro il Venezuela c’è «un complotto interno e internazionale». Anzi, in realtà, c’è anche di più, perché qualcuno, secondo Maduro, avrebbe già tramato per ucciderlo diverse volte. Così ora è sempre più necessario militarizzare l’economia, inviando i soldati dell’esercito dietro le casse dei supermercati per scongiurare le lunghissime code, e sollecitare il Parlamento a concedere al presidente i «superpoteri», quelli che gli consentiranno di governare con i decreti, esauto- rando i deputati dalla discussione delle leggi. Dopo la stentata vittoria d’aprile, all’ini- zio della sua avventura, sembrò che Maduro volesse attuare qualche correzione al model- lo chavista. E così venne interpretata la no- mina a vicepresidente per l’area economica di Nelson Merentes, un pragmatico incaricato di rettificare gli errori più grossolani nella gestione del Paese. L’esperimento è durato poco e al centro del potere è tornato l’anziano Jorge Giordani, un comunista molto ortodosso, di origini italiane, che ripete terrorifiche formulette del tipo «è nella penuria dei beni che la società trova l’essenza del socialismo». Insieme alla scomparsa della carta igienica, ormai un simbolo della crisi che ha convinto Maduro ad occupare con la polizia militare la fabbrica Manpa, il maggior produttore del Paese, e ad annunciare l’acquisto di milioni di rotoli sul mercato internazionale, l’ultimo fenomeno è paradossale. Il cambio ufficiale calmierato del dollaro ha creato un mercato illegale dei biglietti aerei accaparrati da bande che approfittano della differenza tra il valore della valuta a cambio fisso, garantita dallo Stato a chi dichiara di dover viaggiare all’estero, e la quotazione della valuta al mercato nero. Prendono a cambio fisso e rivendono al nero. Risultato: gli aerei sono strapieni e per acquistare un passaggio fra Caracas e Miami bisogna aspettare quattro, cinque, anche sei mesi.

Il nodo è l’eredità impossibile del modello economico voluto da Chávez e costruito intorno all’immensa, ma non infinita, rendita petrolifera del Venezuela che rappresenta oltre il 60 percento di tutto il bilancio statale. Oggi il Venezuela deve importare quasi il 90 percento di tutto ciò che si consuma e per farlo ha bisogno di un miliardo di dollari ogni settimana. L’inflazione, la penuria dei prodotti di base, la scarsità di valuta, il mercato nero o il peggioramento dei servizi pubblici – come scrivono molti osservatori - non sono il frutto di complotti e sabotaggi antibolivariani, ma l’inevitabile conseguenza di quin- dici anni di statalizzazione dell’economia, di inefficienza ed esagerata regolazione: dai controlli sui cambi e sui prezzi all’asfissia dell’iniziativa privata, che Chávez ha combattuto e distrutto perché apparteneva a chi considerava un nemico di classe. Il Venezuela non produce più quasi nulla e deve spendere quasi 60 miliardi di dollari all’anno per importare i beni consumati dai suoi 30 milioni di abitanti. L’uso dissennato dei fondi del petrolio, grazie ai quali Chávez ha finanziato tutte le campagne elettorali e tutti i programmi sociali, ha fatto il resto, lasciando agli eredi della rivoluzione bolivariana un sistema sull’orlo della bancarotta.

Da giovane Maduro era maoista, militava in un partitino filocinese. Poi, dopo l’incontro con Cilla Flores, una degli avvocati che difese Chávez al processo per il fallito colpo di Stato militare del 1992 - che l’allora tenente colonnello guidò dalla caserma dove oggi c’è il suo mausoleo -, Maduro divenne un seguace del santone indiano Sai Baba. Cilla gli riempiva di amuleti contro «le forze del Male» l’ufficio al ministero degli Esteri. È diventata sua moglie solo qualche mese fa, dopo anni di convivenza. Ma oggi che non è più soltanto «la prima combattente della rivoluzione», come la definì Maduro appena eletto presidente, ma anche ufficialmente la First Lady, Cilla abita da sola in una residenza che era destinata all’ospitalità di capi di Stato stranieri. Suo marito dorme con l’eroe. In realtà, la stampa dell’opposizione descrive Maduro come un gran corteggiatore, un galan cinquantenne che piazza le sue amanti in ambasciate e consolati in giro per il mondo. Voci, che nessuno però ha verificato. Nei circoli chavisti si dice che Maduro divenne il delfino designato di Chávez grazie a Fidel Castro che lo conobbe quando era ministro degli Esteri del Venezuela e lo suggerì al fraterno compagno perché gli ispirava fiducia.
Ma più che all’Avana, a cui comunque continua ad assicurare forniture di petrolio a prezzi scontatissimi, Maduro oggi guarda a Pechino. È dai cinesi infatti che ha ricevu- to l’ultimo prestito da cinque miliardi di dollari che gli ha dato un po’ di respiro. Le cifre però sono impietose e il disavanzo, fra ciò che il Venezuela guadagna in valuta esportando petrolio e ciò di cui ha bisogno per mantenere l’alto livello di importazioni e i programmi statali, aumenta. Circostanza che non preoccupa affatto Giordani, il filosofo della penuria, né l’ala più ortodossa del Psuv (Partito socialista unito del Venezuela), ma che ha già aperto il confronto nel governo e agita il sonno di Maduro accanto alle spoglie del valoroso comandante defunto.



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