venerdì 3 aprile 2015

Il potere malato dei parenti sudamericani (rep 3 aprile 2015)

Se volessero affrontare, almeno con l'esempio, una delle grandi disgrazie del loro continente, i leader sudamericani dovrebbero iniziare a far pulizia in famiglia. L'elenco dei parenti potenti (figli, mogli, mariti, fratelli) finiti sotto inchiesta o sott'accusa per corruzione è così denso che quasi nessun Paese si salva dall'idea che la prossimità familiare ai centri di comando sia fonte non solo di privilegi ma anche di milionarie truffe. L'ultimo caso ha colpito un'icona della sinistra latinoamericana come Michelle Bachelet, la presidente del Cile, quando suo figlio Sebastian è stato costretto a dimettersi dall'incarico nel governo che la mamma le aveva affidato perché, secondo la magistratura, ha usato allegramente il suo potere per affari piuttosto loschi di speculazioni immobiliari e altre operazioni illecite. Uno scandalo che ha ferito seriamente la popolarità di Michelle crollata in poche settimane al minimo storico tra il biasimo generale. 

E' poi di questi giorni in Argentina la vicenda del figlio di Cristina Kirchner, Maxímo, finito sotto indagine per presunte illegalità nell'amministrazione degli alberghi di famiglia in Patagonia, evasione fiscale e trasferimento illecito di fondi in conti esteri. Ma quasi tutti i leader latinoamericani hanno avuto negli ultimi anni il cruccio di famiglia. Successe a Lula, ex presidente del Brasile, quando divenne pubblico che il figlio, conosciuto come "Lulinha" (piccolo Lula), faceva discutibili manovre ottenendo vantaggiosi contratti con aziende private brasiliane nel nome del padre. Al messicano Peña Nieto quando sua moglie si comprò una lussuosa residenza con i soldi dello Stato. Al colombiano Alvaro Uribe quando i suoi figli, Tomàs e Jeronimo, vennero indagati perdepositi in paradisi fiscali frutto probabilmente di tangenti. Al peruviano Ollanta Humala che ha un fratello che sconta in carcere una condanna a 19 anni. Oppure il nicaraguense Arnoldo Aleman, rimasto famoso soprattutto perché, durante la presidenza, numerosi suoi familiari si dedicaro a saccheggiare le casse pubbliche . Come al vicepresidente boliviano, Garcia Linera, che avrebbe favorito gli affari della cognataO, infine, al presidente di Panama, Juan Carlor Varela, alla cui zia per corruzione hanno appena sequestrato il passaporto.

Il decennio prodigioso nella crescita economica dell'America Latina ha portato con sè anche tanta corruzione politica e, ovviamente, i casi citati sono appena una punta dell'iceberg. Eppure oggi qualche speranza di cambiamento bisogna riconoscerla. Rispetto ad altre epoche, basti pensare alle fortune messe insieme dalla famiglia Pinochet in Cile o durante la dittatura militare in Argentina, le recenti istituzioni democratiche iniziano a funzionare e, nella maggior parte dei Paesi, quando la stampa si fa eco delle inchieste della magistratura l'opinione pubblica reagisce e si mobilita per punire i corrotti. E', per esempio, successo in Bolivia dove il partito del presidente Evo Morales ha perso domenica scorsa le elezioni ammistrative e lui stesso è stato costretto ad ammettere pubblicamente: "Gli elettori ci hanno voltato le spalle perché tra di noi c'è troppa corruzione". In tutti i Paesi democratici, nell'ultimo ventennio, la magistratura si è rafforzata, è meno sottomessa al potere e vigila sui politici. Invece dove la democrazia è molto debole o non c'è, come in Venezuela o a Cuba, non c'è neppure opinione pubblica o giustizia e sappiamo pochissimo dei patrimoni sottratti alla collettività dalle famiglie dei due fratelli Castro o dal clan boliviariano dei chavisti a Caracas, affamata dalla carestia. Infatti "Democracy is to put under control the political power", le sante parole di Karl Popper.

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