sabato 27 febbraio 2016

Il sub Marcos non è più un ricercato (Repubblica, 26 febbraio 2016)


Marcos può togliersi il passamontagna, non è più un ricercato. Per la giustizia messicana i reati di cui venne incriminato all'inizio del 1994, durante la rivolta degli indios del Chiapas, sono prescritti e lui è libero da ogni accusa. Ma forse non se lo toglierà il famoso passamontagna nero. Marcos ha sempre spiegato che lui e i militanti zapatisti non lo indossarono per non essere riconoscibili ma per l'esatto contrario: occultando il volto, nella società delle immagini, diventavano visibili. E fu quello che accadde, l'uomo del passamontagna diventò una star internazionale, il nuovo Che Guevara che aveva lasciato un tranquillo incarico di professore di filosofia all'Università di Città del Messico per confondersi con i più poveri, con gli indios del Chiapas, nell'estremo sud del Paese, nella foresta al confine con il Guatemala. Ad elevarlo nel ruolo di eroe della sinistra ci pensò subito un'eretica appassionata come Danielle Mitterrand, la vedova dell'ex Presidente francese, che per prima aprì il pellegrinaggio degli intellettuali europei alla corte del nuovo messia. Quando nel '96, di ritorno a Parigi, chiesero a Danielle cosa c'era sotto il passamontagna rispose: "Il mistero deve restare intatto, e essere rispettato. L'identità dell'uomo sotto la maschera chiamato Marcos non ha importanza: qualunque cosa accada resterà sempre vivo". E la moda scoppiò, tutti s'interessavano del Chiapas. Ci andò persino Fausto Bertinotti, ribattezzato "subcomandante Fausto", quand'era presidente della Camera. Ci andarono Gabriel García Márquez, Eduardo Galeano e Noam Chomsky.

Il governo messicano, invece, s'impegnò fin dall'inizio a svelare l'enigma, nella convinzione che se fosse riuscito a dare una faccia al cavaliere errante che dava voce agli esclusi, avrebbe ridotto l'impatto mediatico delle sue idee fino a renderlo prosaico. Si mosse l'intelligence e si pagarono spie e traditori, finché, nella primavera del 2001, il segreto sulla sua identità cadde. Marcos, che si faceva chiamare "sub", cioé "sotto", perché il vero potere risiede nel popolo e non nel comandante, era un ex studente, e poi professore associato di filosofia, dell'Università più famosa della capitale messicana, la Unam, quella pubblica. Si chiamava Rafael Sebastian Guillén, era nato, quarto di otto figli, a Tampico, nello Stato di Tamaulipas, il 10 luglio del 1957. Proveniva da una famiglia di media borghesia, i suoi genitori possedevano alcuni negozi di mobili, e aveva anche due sorelle molto impegnate in politica. Ma dalla parte sbagliata, nel Pri, il partito del governo. Poi si scoprì che aveva vissuto in Europa e che aveva lavorato al Corte Inglés, la catena di grandi magazzini spagnoli, dai quali era stato licenziato perché vendeva i prodotti ad un prezzo inferiore a quello riportato dall'etichetta. Robin Hood fin da giovanissimo prima di incontrare il suo destino nella difesa degli ultimi indigeni messicani.
Lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, che viaggiò diverse volte in Messico per incontrarlo, raccontava che Marcos era ghiotto di salame catalano e gli chiedeva sempre di portargliene un po'.


A quei tempi Marcos interveniva su tutto e aveva relazioni epistolari con gli intellettuali di sinistra d'America e d'Europa, iniziando sempre le sue lettere con una data molto evocativa che faceva sognare: "dalle montagne del sud est messicano". Pubblicava libri di favole per bambini e un romanzo poliziesco, scritto a quattro mani con Paco Taibo II, Morti scomodi. Poi cominciò a svanire tra l'ombra e l'oscurità della selva. Le sue dichiarazioni si diradarono e nel 2007 annunciò che avrebbe smesso di parlare per un po'. I rumors dicevano che era gravemente malato, che aveva un cancro ai polmoni, che forse era anche già morto. In realtà, ma questo si seppe dopo, aveva contratto una malattia dell'apparato respiratorio tipica di chi vive a lungo nella selva ed era peggiorata la sua asma. Per molti anni non si seppe più nulla del subcomandante, fino al 2014, quando riapparve in pubblico per annunciare che Marcos non esisteva più, che lui non era più il portavoce degli zapatisti e che aveva cambiato nickname in onore di un compagno morto e adesso si chiamava Galeano. Del personaggio di Marcos disse che era una "marionetta grottesca" e che non era più necessario. Confessò che la conquista di San Cristobal de las Casas nel 1994 fu frutto di una improvvisazione, così come l'idea del passamontagna, e che non aveva mai pensato di diventare quel che diventò. Poi scomparve di nuovo. La sua ultima apparizione pubblica risale al maggio dell'anno scorso quando partecipò ad una cerimonia in ricordo di Luis Villoro, filosofo messicano suo amico morto qualche mese prima. Le uniche cose certe che si sanno di lui è che ha una figlia, Mariana, che vive a Parigi, e una compagna, Silvia Fernandez, militante zapatista. In fondo, come voleva Danielle Mitterrand, il segreto è ancora intatto. Lo possiedono gli indios del Chiapas che in questi vent'anni hanno conquistato molta autonomia anche se qualcuno dubita che fosse la strada giusta contro l'emarginazione.

domenica 21 febbraio 2016

Un Referendum è per sempre (Il Venerdì di Repubblica, 19 febbraio 2016)


DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI


COCHABAMBA. "Molte luci ma altrettante ombre", dice Mabel Azcui quando le chiediamo un giudizio sui dieci anni al potere di Evo Morales, il primo presidente indio della Bolivia. Mabel è una veterana del giornalismo boliviano, per oltre trent'anni corrispondente del quotidiano spagnolo El País, è in rotta di collisione con il governo di Evo, "Evito" per i numerosissimi fan, da quando, tempo fa, pubblicò un articolo sarcastico nel quale prendeva in giro il presidente per le numerose Lauree honoris causa che gli sono state concesse nel decennio da ben ventitré Università, 17 straniere, compresi atenei russi, cinesi e italiani, e 6 locali. "Il giorno dopo la pubblicazione del pezzo - ricorda - chiamai un portavoce per verificare una informazione e  mi appesero il telefono. Nessuna fonte nel governo accettava più di parlare con me. Come giornalista ero fritta". Tra le delusioni di Mabel, che ricorda l'arrivo a Palazzo Quemado, la residenza presidenziale a La Paz, di Morales nel 2006, come una rivoluzione democratica che mise a soqquadro il Paese, travolgendo l'oligarchia bianca e filo americana a favore della maggioranza di indios e meticci, ci sono il culto della personalità promosso dalla propaganda e una concezione piuttosto muscolosa dei rapporti politici, "un autoritarismo arrogante", sottolinea, che non ammette critica o dissenso.

In queste settimane Morales è di nuovo in campagna elettorale. Dopo aver vinto le presidenziali per la terza volta consecutiva nell'ottobre del 2014 con il 61 percento dei suffragi l'ex sindacalista cocalero ha deciso di cambiare di nuovo la Costituzione - lo fece già nel 2009 - per potersi ricandidare all'infinito, nel 2019, e poi nel 2024. Per questo, domenica prossima, i boliviani saranno chiamati a rispondere a un plebiscito, "sì" o "no" alla perpetuità di Evo, che ha 57 anni, finché vita glielo consenta. 

Questa tentazione del presidente a vita, incapace di smettere di esserlo lasciando spazio a un successore, magari un allievo o un socio politico, è una prerogativa avvelenata del populismo latinoamericano dalla quale, aveva notato lo scrittore argentino Martin Caparrós, Morales sembrava immune. Tutto meno che un altro caudillo. Un dirigente di poveri cocaleros, i piantatori della coca, la foglia sacra che gli indios masticano da secoli per vincere fame e fatica, trascinato al potere da una rivolta nazionale in difesa delle risorse naturali - soprattutto il gas - e della Pachamama, la Madre Terra degli aymara, che le multinazionali volevano sventrare e saccheggiare ancora come durante la colonizzazione spagnola. E invece anche Evo adesso vuole diventare un imperatore delle Ande perché la nuova Bolivia non può fare a meno di lui. I sondaggi sbandano. Non si mettono d'accordo. Alcuni sostengono il 55 percento dei boliviani sono contrari a una nuova rielezione, altri il contrario. Lo storico Fernando Molina dice che dipende dalle zone rurali, gli altipiani andini, dove Evo, al contrario dei centri urbani delle pianure, è più forte ma che le ricerche dei sondaggisti raggiungono con difficoltà. "Secondo me alla fine vince", sentenzia Molina.

Morales ha già governato la Bolivia per più tempo di chiunque altro dall'indipendenza (1825). A gennaio ha battuto il maresciallo Andrés de Santa Cruz, uno dei fondatori della repubblica, che nell'800 governò per nove anni, otto mesi e ventiquattro giorni. In dote, per convincerli a votare "sì", Evo porta questo lungo periodo di stabilità e un decennio economico straordinario, nel quale, grazie all'alto prezzo delle materie prime - la Bolivia esporta gas, petrolio e minerali - il Pil è cresciuto a una media superiore al 5 percento annuo. Mabel riconosce che il governo ha fatto molto per redistribuire la ricchezza, programmi sociali per le comunità più povere, un salario ai più giovani, ma - dice - "hanno costruito più campetti di calcio (Evo è un tifoso sfegatato) che centri sanitari". E tante opere d'infrastruttura gigantesche e inutili che il presidente nel fervore della campagna elettorale continua a inaugurare in lungo e in largo. A Chimoré, tra i suoi cocaleros del Chapare, Morales ha fatto costruire un aeroporto internazionale con una pista d'atterraggio di 4 chilometri per i grandi Boeing al lato di un paesino di 21 mila abitanti. A Orinaca, altro paesotto non lontano da Cochabamba nella sua terra natale, è pronto un Museo di tre edifici che dovrà celebrare la rivoluzione democratica, l'opera del presidente, e la Bolivia dei sogni, quella pre-ispanica dove c'erano solo gli indios. "Gigantismo sfacciato dell'intervento statale per l'abbondanza delle esportazioni ma nessuna idea, né investimento per il futuro", dice Oscar Ortiz, 47 anni, uno dei leader dell'opposizione, che aggiunge: "Quando tra meno di dieci anni non avremo più gas da estrarre e esportare, di quale economia vivremo?".  Analisi che in parte condivide anche Molina quando sottolinea la "sindrome olandese" dell'economia boliviana di questi anni con l'accelerazione nello sfruttamento delle risorse naturali unito al declino degli altri settori dell'economia. Come il Venezuela chavista ubriaco di petrolio, la Bolivia di Evo oggi importa troppo grazie all'opulenza del suo bilancio statale ma produce troppo poco. E siccome la festa delle commodities è finita lo spettro della crisi del modello è dietro l'angolo. L'ennesimo decennio perduto dell'America Latina incapace di riconvertire le sue economie finché ne ha la possibilità e le sue risorse naturali hanno un valore nei mercati di Londra e New York.

Martin Sivak, il biografo ufficiale di Morales, dice che la relazione del presidente con il potere è quella del sacrificio. Evo non va mai in vacanza, non ha giorni liberi né vita familiare e lavora sempre al limite delle sue possibilità fisiche, dorme pochissimo e si nutre soltanto di zuppe di pesce. Divorziato e scapolo dice: "Sono sposato con la Bolivia". Alcuni critici lo attaccano perché, dicono, non delega nulla, concentra su di sé qualsiasi scelta. Altri per le sue contraddizioni segnalando che l'aspirazione al ritorno alla Bolivia pre-ispanica, il socialismo, l'impronta ecologista, è solo romanticismo per i creduloni. Nel Pantheon di Evo ci sono Che Guevara, Fidel Castro, Chávez e tutta la parafernalia bolivariana ma per governare ha stretto un patto di non belligeranza con gli industriali di Santa Cruz che con i loro soldi minacciavano la sua egemonia politica. Poi ci sono gli scandali che iniziano a emergere. Su tutti quello del "Fondo indigeno", un ente creato e finanziato per promuovere iniziative tra le comunità indios più disastrate, le cui risorse si sono disperse in mille rivoli nei conti correnti personali di funzionari vicini al governo. E l'ultimo, quello di una ex amante del presidente finita nel consiglio direttivo di un'impresa cinese che ha vinto miliardi in commesse pubbliche. Alla lunga la disillusione della base indigena e quella delle classi medie urbane può diventare fatale per il progetto di Evo, che per ricostruire la sua Bolivia pre-ispanica, dove tutti i funzionari dello Stato dovranno parlare almeno una lingua nativa, quechua o aymara soprattutto, e gli orologi girare al contrario,  vuole restare a Palazzo Quemado almeno fino al 2025, l'anno del bicentenario dell'indipendenza nazionale. Ma oggi, con i conti macroeconomici sostanzialmente in ordine, Morales sembra avere solo una spina nel fianco, l'agognato sbocco sovrano sul mare, quello perso nella Guerra del Pacifico del 1879, che i cileni si rifiutano di restituire. La rivendicazione marittima è diventata materia obbligatoria nelle scuole boliviane con un apposito libro di testo. Ma la riconquista, per la quale La Paz s'è rivolta ai tribunali internazionali, sembra ancora lontana.