DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI
COCHABAMBA. "Molte luci ma altrettante ombre",
dice Mabel Azcui quando le chiediamo un giudizio sui dieci anni al potere di
Evo Morales, il primo presidente indio della Bolivia. Mabel è una veterana del
giornalismo boliviano, per oltre trent'anni
corrispondente del quotidiano spagnolo El País, è in rotta di
collisione con il governo di Evo, "Evito" per i numerosissimi fan, da
quando, tempo fa, pubblicò un articolo sarcastico nel quale prendeva in giro il
presidente per le numerose Lauree honoris causa che gli sono state concesse nel
decennio da ben ventitré Università, 17 straniere, compresi atenei russi, cinesi e
italiani, e 6 locali. "Il giorno dopo la pubblicazione del pezzo - ricorda
- chiamai un portavoce per verificare una informazione e mi appesero il telefono. Nessuna fonte nel
governo accettava più di parlare con me. Come giornalista ero fritta". Tra
le delusioni di Mabel, che ricorda l'arrivo a Palazzo Quemado, la residenza
presidenziale a La Paz, di Morales nel 2006, come una rivoluzione democratica che
mise a soqquadro il Paese, travolgendo l'oligarchia bianca e filo americana a
favore della maggioranza di indios e meticci, ci sono il culto della
personalità promosso dalla propaganda e una concezione piuttosto muscolosa dei
rapporti politici, "un autoritarismo arrogante", sottolinea, che non
ammette critica o dissenso.
In queste settimane Morales è di nuovo in campagna
elettorale. Dopo aver vinto le presidenziali per la terza volta consecutiva
nell'ottobre del 2014 con il 61 percento dei suffragi l'ex sindacalista
cocalero ha deciso di cambiare di nuovo la Costituzione - lo fece già nel 2009
- per potersi ricandidare all'infinito, nel 2019, e poi nel 2024. Per questo,
domenica prossima, i boliviani saranno chiamati a rispondere a un plebiscito,
"sì" o "no" alla perpetuità di Evo, che ha 57 anni, finché
vita glielo consenta.
Questa tentazione del presidente a vita, incapace di
smettere di esserlo lasciando spazio a un successore, magari un allievo o un
socio politico, è una prerogativa avvelenata del populismo latinoamericano dalla
quale, aveva notato lo scrittore argentino Martin Caparrós, Morales sembrava
immune. Tutto meno che un altro caudillo. Un dirigente di poveri cocaleros, i
piantatori della coca, la foglia sacra che gli indios masticano da secoli per
vincere fame e fatica, trascinato al potere da una rivolta nazionale in difesa
delle risorse naturali - soprattutto il gas - e della Pachamama, la Madre Terra
degli aymara, che le multinazionali volevano sventrare e saccheggiare ancora
come durante la colonizzazione spagnola. E invece anche Evo adesso vuole diventare
un imperatore delle Ande perché la nuova Bolivia non può fare a meno di lui. I
sondaggi sbandano. Non si mettono d'accordo. Alcuni sostengono il 55 percento
dei boliviani sono contrari a una nuova rielezione, altri il contrario. Lo
storico Fernando Molina dice che dipende dalle zone rurali, gli altipiani
andini, dove Evo, al contrario dei centri urbani delle pianure, è più forte ma
che le ricerche dei sondaggisti raggiungono con difficoltà. "Secondo me
alla fine vince", sentenzia Molina.
Morales ha già governato la Bolivia per più tempo di
chiunque altro dall'indipendenza (1825). A gennaio ha battuto il maresciallo
Andrés de Santa Cruz, uno dei fondatori della repubblica, che nell'800 governò
per nove anni, otto mesi e ventiquattro giorni. In dote, per convincerli a
votare "sì", Evo porta questo lungo periodo di stabilità e un
decennio economico straordinario, nel quale, grazie all'alto prezzo delle
materie prime - la Bolivia esporta gas, petrolio e minerali - il Pil è
cresciuto a una media superiore al 5 percento annuo. Mabel riconosce che il
governo ha fatto molto per redistribuire la ricchezza, programmi sociali per le
comunità più povere, un salario ai più giovani, ma - dice - "hanno
costruito più campetti di calcio (Evo è un tifoso sfegatato) che centri
sanitari". E tante opere d'infrastruttura gigantesche e inutili che il
presidente nel fervore della campagna elettorale continua a inaugurare in lungo
e in largo. A Chimoré, tra i suoi cocaleros del Chapare, Morales ha fatto
costruire un aeroporto internazionale con una pista d'atterraggio di 4
chilometri per i grandi Boeing al lato di un paesino di 21 mila abitanti. A
Orinaca, altro paesotto non lontano da Cochabamba nella sua terra natale, è
pronto un Museo di tre edifici che dovrà celebrare la rivoluzione democratica,
l'opera del presidente, e la Bolivia dei sogni, quella pre-ispanica dove
c'erano solo gli indios. "Gigantismo sfacciato dell'intervento statale per
l'abbondanza delle esportazioni ma nessuna idea, né investimento per il
futuro", dice Oscar Ortiz, 47 anni, uno dei leader dell'opposizione, che
aggiunge: "Quando tra meno di dieci anni non avremo più gas da estrarre e
esportare, di quale economia vivremo?".
Analisi che in parte condivide anche Molina quando sottolinea la
"sindrome olandese" dell'economia boliviana di questi anni con
l'accelerazione nello sfruttamento delle risorse naturali unito al declino
degli altri settori dell'economia. Come il Venezuela chavista ubriaco di
petrolio, la Bolivia di Evo oggi importa troppo grazie all'opulenza del suo
bilancio statale ma produce troppo poco. E siccome la festa delle commodities è
finita lo spettro della crisi del modello è dietro l'angolo. L'ennesimo
decennio perduto dell'America Latina incapace di riconvertire le sue economie finché ne ha la possibilità e le sue risorse naturali hanno un valore nei mercati di Londra e New
York.
Martin Sivak, il biografo ufficiale di Morales, dice che la
relazione del presidente con il potere è quella del sacrificio. Evo non va mai
in vacanza, non ha giorni liberi né vita familiare e lavora sempre al limite
delle sue possibilità fisiche, dorme pochissimo e si nutre soltanto di zuppe di
pesce. Divorziato e scapolo dice: "Sono sposato con la Bolivia".
Alcuni critici lo attaccano perché, dicono, non delega nulla, concentra su di
sé qualsiasi scelta. Altri per le sue contraddizioni segnalando che
l'aspirazione al ritorno alla Bolivia pre-ispanica, il socialismo, l'impronta
ecologista, è solo romanticismo per i creduloni. Nel Pantheon di Evo ci sono
Che Guevara, Fidel Castro, Chávez e tutta la parafernalia bolivariana ma per
governare ha stretto un patto di non belligeranza con gli industriali di Santa
Cruz che con i loro soldi minacciavano la sua egemonia politica. Poi ci sono
gli scandali che iniziano a emergere. Su tutti quello del "Fondo
indigeno", un ente creato e finanziato per promuovere iniziative tra le
comunità indios più disastrate, le cui risorse si sono disperse in mille rivoli
nei conti correnti personali di funzionari vicini al governo. E l'ultimo,
quello di una ex amante del presidente finita nel consiglio direttivo di
un'impresa cinese che ha vinto miliardi in commesse pubbliche. Alla lunga la
disillusione della base indigena e quella delle classi medie urbane può
diventare fatale per il progetto di Evo, che per ricostruire la sua Bolivia
pre-ispanica, dove tutti i funzionari dello Stato dovranno parlare almeno una
lingua nativa, quechua o aymara soprattutto, e gli orologi girare al contrario,
vuole restare a Palazzo Quemado almeno
fino al 2025, l'anno del bicentenario dell'indipendenza nazionale. Ma oggi, con
i conti macroeconomici sostanzialmente in ordine, Morales sembra avere solo una
spina nel fianco, l'agognato sbocco sovrano sul mare, quello perso nella Guerra
del Pacifico del 1879, che i cileni si rifiutano di restituire. La
rivendicazione marittima è diventata materia obbligatoria nelle scuole
boliviane con un apposito libro di testo. Ma la riconquista, per la quale La
Paz s'è rivolta ai tribunali internazionali, sembra ancora lontana.
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