DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI
BARCELLONA. Per nascondere la faccia del re di Spagna, c'era
un drappo nero sul ritratto di Felipe VI nel Salone di Sant Jordi del palazzo
della Generalitat catalana, dove il neo governatore, Carles Puigdemont, ha
assunto l'incarico dimenticandosi di giurare fedeltà alla Costituzione e alla
Corona spagnola. Da Madrid né la Casa reale, né il presidente in carica, Mariano
Rajoy, hanno inviato i consueti messaggi d'augurio al nuovo capo della
Catalogna e re Felipe non ha voluto ricevere, com'è invece prassi, la neo
eletta presidente del parlamento regionale, Carme Forcadell . Barcellona e
Madrid si fanno i dispetti mentre nella capitale la crisi politica post elettorale
si trascina e nella regione ribelle nasce il primo esecutivo dichiaratamente
secessionista che raccoglie, da destra all'estrema sinistra, tutto l'arco delle
formazioni indipendentiste. Diciotto mesi per disconnettersi è la road map del
nuovo governo, nato dalle elezioni del 27 settembre scorso, che per colmo di
chiarezza ha nominato l'altro giorno anche un "ministro degli
esteri", Raül Romeva, che dovrà occuparsi di spiegare le ambizioni
catalane nel resto del mondo, ma soprattutto in Europa. Due, sulla carta, gli
impegni da risolvere in fretta: scrivere una nuova Costituzione e creare le
basi per un ministero delle Finanze catalano, il vecchio sogno di avere a
Barcellona la gestione diretta del bilancio senza che le tasse pagate dai
catalani passino, prima di tornare indietro decurtate, nelle casse di
Madrid.
Nel dolce inverno di Barcellona c'è mezza città euforica e
l'altra metà perplessa, come del resto tutta la Catalogna. Ma entrambe hanno le
vertigini per il processo che s'è messo in moto con l'arrivo di Puigdemont nel
palazzo della Generalitat e le incognite dei prossimi mesi. "Vedrai che
prenderanno tempo, faranno melina", dice Luis Bassets, vicedirettore di
"El Pais" in Catalogna, convinto che finché non si saprà se Madrid
avrà un governo, e quale governo, le gesta del nazionalismo catalano saranno
soprattutto simboliche. Dalle elezioni del settembre scorso, convocate come un
plebiscito sulla sovranità dall'ex governatore Artur Mas, è uscito un Paese spaccato
in due. Tutti insieme i nazionalisti hanno avuto il 48,7 percento dei suffragi
ma, grazie alla legge elettorale, hanno avuto anche quella decina di deputati
di vantaggio che gli hanno alla fine consentito di formare il governo.
Maggioranza istituzionale ma non maggioranza sociale. Realtà dove si svela,
dice lo scrittore Javier Cercas, che "il vero disastro di questa storia
sono state le mosse di Madrid". "Si fosse trovato il modo di fare un
referendum sull'indipendenza, i nazionalisti lo avrebbero perso e ciao".
Però anche Puigdemont, ex giornalista, 54 anni, catalanista da sempre - fondò
l'associazione dei Comuni per l'indipendenza e ha esposto la
"estelada", la bandiera ribelle, sul municipio di Gerona, dov'era
sindaco - deve avere le vertigini. L'illusione delle èlite politiche catalane è
una secessione leggerissima perché sarebbe dolorosissimo, se non impossibile,
trasformarsi in uno Stato senza il consenso, anche se molto riluttante, del
potere centrale.
La Catalogna è la regione più ricca della Spagna, vale 200
miliardi di euro all'anno, il 20 percento del Pil di tutta la Nazione iberica.
Ma basta prendere l'Ave, il treno superveloce che in due ore e mezza attraversa
i 620 chilometri che dividono Barcellona da Madrid, per capire quanto le due capitali
siano interconnesse. Migliaia di persone, 10mila sul treno e altrettante con il
ponte aereo, si muovono ogni giorno tra le due città. E più del 60 percento
dell'economia catalana dipende dagli interscambi con il resto della Spagna. Gli
economisti i calcoli li hanno già fatti. Una fuga in avanti senza un patto con
Madrid potrebbe trascinare la Catalogna in una catastrofe economica con un
crollo del 25% del suo prodotto interno lordo. Scenario ingestibile anche se
tutti i suoi abitanti fossero esaltati dal miraggio del nuovo Stato. Motivo per
il quale, mentre disconosce Costituzione e Corona, Puigdemont frena sui 18 mesi
dall'addio alla Spagna, votati a maggioranza dal Parlamento, nella prima
intervista che ha concesso l'altro ieri. La road map - ha detto - "non
deve essere un obbligo. Se si può fare in meno tempo, tanto meglio, ma anche se
si deve allungare un pò non succede nulla".
Due turisti su tre che visitano la Spagna preferiscono
vedere Barcellona piuttosto che Madrid. Nel 2015 sono stati 7,6 milioni
piazzando la metropoli catalana al terzo posto, dopo Londra e Parigi, fra le
città europee più visitate. Barcellona va fiera della sua architettura
modernista. Della sua squadra di calcio che vince tutto. Del suo primato
economico. La rivalità con la vera capitale, Madrid, è insanabile. Ha scritto
lo storico Jose Alvarez Junco: "In Spagna ci sono due città che hanno
grandezza, peso economico e culturale comparabili. E le èlite politiche e
culturali di Barcellona, che non possono più sopportare di dipendere da Madrid,
sono riuscite a convincere gran parte della popolazione che loro sono
differenti dal resto degli spagnoli e
che la cosa migliore che possono fare è non appartene più alla Spagna". Un
punto di caduta ci sarebbe ma è indigeribile per la destra spagnola.
Bisognerebbe dare a Barcellona lo status di seconda capitale, magari spostando
alcune istituzioni, come per esempio il Senato. Accettare il catalano come
lingua nazionale, genere Quebec in Canada, e approvare un nuovo Statuto
dell'autonomia regionale con concessioni sulla gestione delle finanze.
Altrimenti la capricciosa ambizione nazionalista, fortissima soprattutto in
provincia, non farà che crescere tra i più giovani. Sono quarant'anni, con il
ritorno della democrazia in Spagna, che la Catalogna prepara il suo distacco.
Nelle scuole e in tutte le istituzioni regionali. Hanno perfino
"ambasciate" della Generalitat a New York, Londra, Bruxelles, Parigi,
Berlino, Roma e Vienna. Il 6 ottobre del 1934, durante la seconda repubblica
spagnola, Lluis Company proclamò dal balcone del palazzo della Generalitat
l'indipendenza della Catalogna. Fu uno degli atti che accessero il fuoco di
quella che sarà la Guerra civile del 1936. Allora si usavano le armi, oggi
l'insurrezione è virtuale. Postmoderna. Simboli e social network. Ma sempre
guerra è.
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