mercoledì 11 gennaio 2012

La lezione argentina (repubblica sera 10 gennaio 2012)


Tornare in Argentina ricordando le immagini dei giorni del default fra il dicembre 2001 e il gennaio 2002 – il presidente De La Rua che fugge in elicottero dal palazzo della Casa Rosada, la folla in piazza, i morti, i falò per le strade di San Telmo – ha l’effetto di un incubo che s’abbandona con il risveglio. Neppure Buenos Aires è più la stessa. Allora, dopo il tramonto, lungo le strade dei quartieri borghesi, fra Palermo e Recoleta, sfilava l’esercito dei “cartoneros”, i ragazzini – alcuni giovanissimi – che dagli slum della periferia (le villas) arrivavano per frugare nell’immondizia in cerca di cartone da rivendere e di qualche rifiuto commestibile. Portavano via quel che trovavano, perfino le lamine di rame dalle statue, famelici come un esercito di nuovi barbari. Tornò l’economia del baratto e il 60% della popolazione sprofondò nella miseria. Un crac nel quale rimasero imprigionati anche 330mila risparmiatori italiani, grandi e piccoli, che avevano acquistato circa 12 miliardi di bond argentini.



Oggi le strade della capitale argentina impazziscono di traffico, i ristoranti di Palermo-Hollywood lungo il Rio de la Plata sono sempre affollati, gli shopping center colmi di clienti. Il default e la forte svalutazione della moneta hanno rilanciato il turismo, fatto esplodere le esportazioni e assicurato, dal 2003, una crescita media del Pil oltre l’8%. Tanto che la “presidenta” Cristina Kirchner, rieletta a novembre con il 54% dei voti, e la maggior parte dei suoi consiglieri economici, propongono il “modello Argentina” – moratoria del debito, svalutazione e autarchia - come soluzione per altri paesi in difficoltà finanziarie. “Fallire e vivere felici” è, secondo loro, la lezione che dovrebbe imparare anche la Grecia. All’ingresso di un negozio di calzature sull’Avenida Corrientes, il viale delle librerie e dei teatri nel centro di Buenos Aires, campeggia lo slogan: “Se compri argentino crei un posto di lavoro, altrimenti crei un disoccupato”. Ed è esattamente quel che è accaduto dopo il disastro quando l’Argentina peronista di Duhalde e Kirchner, quella dei cinque presidenti in dodici giorni fra il Natale del 2001 e la Befana del 2002, rinnegò la sbornia delle privatizzazioni e della globalizzazione degli anni Novanta (Menem), cacciò i manager del Fondo Monetario, nazionalizzò e ricostruì piccole industrie e mercato interno. L’effetto è innegabile: il tasso di disoccupazione è crollato dal 25% del 2001 al 7,5% nel 2011; il debito, ristrutturato, è sceso dal 140% al 45% del prodotto interno lordo; e, nelle casse dello Stato ci sono più di 40 miliardi di euro di riserve. E oggi persino premi Nobel dell’economia, come Stiglitz o Krugman, sottolineano l’esempio dell’Argentina. “Dimostra – ha detto Stiglitz contestando le strategie economiche fondate solamente su austerity e rigore fiscale - che c’è una vita anche dopo il fallimento dello Stato”.



Per i critici lo scenario da raccontare è un po’ diverso. Più che il default ciò che salvò l’Argentina dai suoi demoni furono la lenta svalutazione del dollaro (che contribuì a ridurre la massa del deficit) e, soprattutto, l’aumento dei prezzi delle materie prime con l’irruzione della domanda cinese nel mercato mondiale. La grande richiesta di soia e di carne, commodity di cui l’Argentina è uno dei principali produttori, ha garantito attraverso le tasse sull'export un surplus da reinvestire nei sussidi alle spese delle famiglie (luce, gas, trasporti) e negli incentivi alla domanda interna. L’ex ministro dell’Economia Roberto Lavagna, uno degli artefici della ripresa post crac ma oggi su posizione opposte a quelle del governo di Cristina Kirchner, dice: “La mia impressione è che andiamo avanti rattoppando, la classe media ha l’impressione che le cose vadano molto meglio perché la politica economica del governo promuove i consumi e sovvenziona i servizi pubblici. E’ un modello che potrà funzionare solo fin quando i prezzi delle materie prime saranno alti e le esportazioni argentine in crescita”. Altri economisti all’opposizione ammoniscono sottolineando due punti critici. L’inflazione, è altissima sopra il 20% ma il governo la nasconde falsificando i dati. E una vecchia disgrazia argentina, la fuga dei capitali, che ora si cerca di contenere limitando per legge l’acquisto di dollari. Poi c’è la scarsa fiducia dei mercati internazionali che evitano gli investimenti in Argentina e, sullo sfondo, le nubi che annunciano un altro crac se la lacomotiva cinese dovesse arrestarsi. Ma gli argentini ormai ci sono abituati: “Una volta – dice Maria Laura, medico quarantenne che perse tutti i suoi risparmi nel 2002 – i cicli di espansione economica duravano al massimo cinque anni, adesso andiamo verso i dieci: per noi è quasi una cuccagna”.

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