Come può l’idea creativa di uno spot elettorale
cambiare la storia di un Paese? È il
soggetto del film "No" del
regista Pablo Larraín, sul referendum del 5 ottobre 1988, in Cile. La storia
racconta la vicenda di Eusebio Garcìa, nel film lo interpreta Gael García
Bernal, il pubblicitario che inventò una campagna rivoluzionaria per l’epoca,
imponendo all’austero fronte dell’opposizione di dimenticare i messaggi politici,
le atrocità della dittatura, il dolore delle vittime, per concentrarsi su una
semplice idea di futuro. Un arcobaleno, un No e uno slogan, Arriva l’allegria,
che fecero scuola.
Pinochet era certo di vincere il referendum, l’aveva indetto
cedendo alle pressioni internazionali per convincere il mondo che il popolo
stava dalla sua parte e che non era un dittatore. Invece perse: tre milioni
di cileni votarono per lui e quattro contro, aprendo la strada al ritorno della
democrazia.Veramente fu tutto merito di uno spot?
«Penso proprio di sì» dice al Venerdì il vero
protagonista della storia, il pubblicitario Eusebio Garcìa. «A poche settimane
dal referendum i sondaggi davano per certa la vittoria del Sì e dunque di Pinochet.
La gente aveva molta paura di quello che sarebbe potuto accadere se avessero
vinto gli oppositori. Qualsiasi cambiamento poteva essere percepito come
pericoloso: è ciò che accade con le dittature quando una parte della società
finisce per abituarsi alla repressione apprezzandone piccoli vantaggi come il
calo della criminalità. Per l’opposizione il rischio era la paura: era diffuso
il timore che la caduta del dittatore avrebbe aperto le porte a una stagione di
crisi e di scontro sociale molto forte».
Bastò uno slogan a placare queste inquietudini?
«Il nostro obiettivo era cambiare la
logica dello scontro. Per la dittatura valeva un solo principio: Se stai con
me sarai premiato, se stai contro di me sarai castigato. E per castigo si
intendevano punizioni atroci: potevi essere arrestato, torturato, o sparire per
sempre. Noi non facemmo altro che cancellare questa logica di contrapposizione
e sostenemmo un’idea di coinvolgimento. Non attaccammo mai gli elettori di
Pinochet, ma soltanto lui e mai in modo aggressivo. Volevamo che fosse chiara
una cosa: non eravamo persone pericolose e il nostro obiettivo era ricostruire
il Paese salvaguardando la pace sociale».
Fu molto complicato convincere i
partiti dell'opposizione ad accettare le sue idee sul modo di fare la campagna
elettorale?
"All'inizio
fu molto difficile. La nostra strategia era vista come una stranezza. Dopo anni
di dittatura c'era un comprensibile desiderio di rivalsa, volevano raccontare
al mondo chi era veramente Pinochet, sottolineare tutto il male che aveva
fatto. Questo secondo noi sarebbe stato un disastro perché significava ricadere
nella logica dello scontro, della rottura. Era necessario un messaggio diverso.
Dovevamo cancellare la paura".
Che genere di paura?
«Gli elettori di sinistra temevano
che se Pinochet avesse perso sarebbe divetato ancora più feroce. Erano
convinti che il dittatore non avrebbe accettato democraticamente i risultati.
Gli elettori di destra, invece, temevano una vendetta. Immaginavano che una
sconfitta di Pinochet avrebbe scatenato una resa dei conti in cui gli
oppositori sarebbero andati casa per casa a scovare i sostenitori del regime.
In queste condizioni, accettare lo scontro e proporre una campagna elet- torale
violenta sarebbe stato controproducente anche per noi. È per questo che
proponemmo l’idea dell’allegria, di un Paese nuovo, della pace sociale».
Crede che il film rappresenti bene
quei giorni?
«Assolutamente sì. Nel film di
Larraín sono raccontati bene tutti i passaggi, emergono la rabbia e la voglia
di affer- marla nel momento in cui, per la prima volta dal golpe del ‘73, il
regime concedeva all’opposizione uno spazio per dire ciò che pensava. Tanto in
tv quanto per le strade. Sono ben rappresentati anche gli scontri che avemmo
con gli oppositori del regime. E come arrivarono ad accettare il nostro
progetto».
Dopo tutto, quella del referendum fu
una campagna elettorale così rivoluzionaria per il Cile che ancora oggi viene
presa a modello.
«Nella sua essenza, una campagna simile
è stata riprodotta in Cile per Michelle Bachelet e in molti altri Paesi
dell’America Latina: basti pensare alla strategia messa in campo per Lula in
Brasile... Però bisogna ammettere che la sinistra paga ancora il prezzo di una
reticenza verso la comunicazione politica e il marketing. Hanno paura che
accettando i criteri della pubblicità stiano vendendo una saponetta e non un
progetto politico».
Che cosa ricorda di quei giorni?
«Fu un momento eccezionale. Dopo
quindici anni per la prima volta c’era la possibilità di abbattere la
dittatura. Era molto emozionante, ma anche pericoloso. Stavamo provocando il
dittatore mentre era ancora al potere e con tutta la forza dell’apparato
militare. Lavorammo senza mai fermarci per settimane. La campagna nacque
dall’idea dell’arcobaleno e fu l’in- tuizione decisiva. Quando vedemmo lo spot finito e l’accoglienza che aveva nelle sessioni di prova
prima del passaggio in tv ci rendemmo conto che il referendum si poteva
vincere».
Che relazione c’è tra il film e il
libro di Antonio Skármeta, I giorni dell’arcobaleno?
«Il libro di Skármeta è stata
l’ispirazione del soggetto per il film. E poi sia io che Larraín condividiamo
la lezione di fondo dello scrittore quando sostiene che l’immaginazione può
cambiare la società. Fu esattamente quel che accadde».
Perché lei che all’epoca era un
giovane pubblicitario con un buon lavoro e un si- curo avvenire rischiò di per
dere
tutto partecipando a una campagna contro il regime?
«Mi invitarono e non avevo altra
scelta nella mia coscienza. La mia era una famiglia di socialisti. Mio padre
aveva perso il la- voro dopo il golpe di Pinochet. Mia sorella era andata in
esilio. C’erano miei amici che erano stati arrestati. La possibilità di
prendere parte alla sconfitta di Pinochet era una opportunità che non potevo
lasciarmi scappare, anche rischiando di perdere tutto».
Omero Ciai
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