sabato 20 aprile 2013

Così lo slogan che non piaceva alla sinistra seppellì Pinochet (Il Venerdì 19/04/2013)


Come può l’idea creativa di uno spot elettorale cambiare la storia di un Paese? È il 
soggetto del film "No" del regista Pablo Larraín, sul referendum del 5 ottobre 1988, in Cile. La storia racconta la vicenda di Eusebio Garcìa, nel film lo interpreta Gael García Bernal, il pubblicitario che inventò una campagna rivoluzionaria per l’epoca, imponendo all’austero fronte dell’opposizione di dimenticare i messaggi politici, le atrocità della dittatura, il dolore delle vittime, per concentrarsi su una semplice idea di futuro. Un arcobaleno, un No e uno slogan, Arriva l’allegria, che fecero scuola.
Pinochet era certo di vincere il referendum, l’aveva indetto cedendo alle pressioni internazionali per convincere il mondo che il popolo stava dalla sua parte e che non era un dittatore. Invece perse: tre milioni di cileni votarono per lui e quattro contro, aprendo la strada al ritorno della democrazia.

Veramente fu tutto merito di uno spot?
«Penso proprio di sì» dice al Venerdì il vero protagonista della storia, il pubblicitario Eusebio Garcìa. «A poche settimane dal referendum i sondaggi davano per certa la vittoria del Sì e dunque di Pinochet. La gente aveva molta paura di quello che sarebbe potuto accadere se avessero vinto gli oppositori. Qualsiasi cambiamento poteva essere percepito come pericoloso: è ciò che accade con le dittature quando una parte della società finisce per abituarsi alla repressione apprezzandone piccoli vantaggi come il calo della criminalità. Per l’opposizione il rischio era la paura: era diffuso il timore che la caduta del dittatore avrebbe aperto le porte a una stagione di crisi e di scontro sociale molto forte».
Bastò uno slogan a placare queste inquietudini?

«Il nostro obiettivo era cambiare la logica dello scontro. Per la dittatura valeva un solo principio: Se stai con me sarai premiato, se stai contro di me sarai castigato. E per castigo si intendevano punizioni atroci: potevi essere arrestato, torturato, o sparire per sempre. Noi non facemmo altro che cancellare questa logica di contrapposizione e sostenemmo un’idea di coinvolgimento. Non attaccammo mai gli elettori di Pinochet, ma soltanto lui e mai in modo aggressivo. Volevamo che fosse chiara una cosa: non eravamo persone pericolose e il nostro obiettivo era ricostruire il Paese salvaguardando la pace sociale».
Fu molto complicato convincere i partiti dell'opposizione ad accettare le sue idee sul modo di fare la campagna elettorale?
"All'inizio fu molto difficile. La nostra strategia era vista come una stranezza. Dopo anni di dittatura c'era un comprensibile desiderio di rivalsa, volevano raccontare al mondo chi era veramente Pinochet, sottolineare tutto il male che aveva fatto. Questo secondo noi sarebbe stato un disastro perché significava ricadere nella logica dello scontro, della rottura. Era necessario un messaggio diverso. Dovevamo cancellare la paura".
Che genere di paura?
«Gli elettori di sinistra temevano che se Pinochet avesse perso sarebbe divetato ancora più feroce. Erano convinti che il dittatore non avrebbe accettato democraticamente i risultati. Gli elettori di destra, invece, temevano una vendetta. Immaginavano che una sconfitta di Pinochet avrebbe scatenato una resa dei conti in cui gli oppositori sarebbero andati casa per casa a scovare i sostenitori del regime. In queste condizioni, accettare lo scontro e proporre una campagna elet- torale violenta sarebbe stato controproducente anche per noi. È per questo che proponemmo l’idea dell’allegria, di un Paese nuovo, della pace sociale».
Crede che il film rappresenti bene quei giorni?
«Assolutamente sì. Nel film di Larraín sono raccontati bene tutti i passaggi, emergono la rabbia e la voglia di affer- marla nel momento in cui, per la prima volta dal golpe del ‘73, il regime concedeva all’opposizione uno spazio per dire ciò che pensava. Tanto in tv quanto per le strade. Sono ben rappresentati anche gli scontri che avemmo con gli oppositori del regime. E come arrivarono ad accettare il nostro progetto».
Dopo tutto, quella del referendum fu una campagna elettorale così rivoluzionaria per il Cile che ancora oggi viene presa a modello.
«Nella sua essenza, una campagna simile è stata riprodotta in Cile per Michelle Bachelet e in molti altri Paesi dell’America Latina: basti pensare alla strategia messa in campo per Lula in Brasile... Però bisogna ammettere che la sinistra paga ancora il prezzo di una reticenza verso la comunicazione politica e il marketing. Hanno paura che accettando i criteri della pubblicità stiano vendendo una saponetta e non un progetto politico».
Che cosa ricorda di quei giorni?
«Fu un momento eccezionale. Dopo quindici anni per la prima volta c’era la possibilità di abbattere la dittatura. Era molto emozionante, ma anche pericoloso. Stavamo provocando il dittatore mentre era ancora al potere e con tutta la forza dell’apparato militare. Lavorammo senza mai fermarci per settimane. La campagna nacque dall’idea dell’arcobaleno e fu l’in- tuizione decisiva. Quando vedemmo lo spot finito e l’accoglienza che aveva nelle sessioni di prova prima del passaggio in tv ci rendemmo conto che il referendum si poteva vincere».
Che relazione c’è tra il film e il libro di Antonio Skármeta, I giorni dell’arcobaleno?
«Il libro di Skármeta è stata l’ispirazione del soggetto per il film. E poi sia io che Larraín condividiamo la lezione di fondo dello scrittore quando sostiene che l’immaginazione può cambiare la società. Fu esattamente quel che accadde».

Perché lei che all’epoca era un giovane pubblicitario con un buon lavoro e un si- curo avvenire rischiò di per
dere tutto partecipando a una campagna contro il regime?
«Mi invitarono e non avevo altra scelta nella mia coscienza. La mia era una famiglia di socialisti. Mio padre aveva perso il la- voro dopo il golpe di Pinochet. Mia sorella era andata in esilio. C’erano miei amici che erano stati arrestati. La possibilità di prendere parte alla sconfitta di Pinochet era una opportunità che non potevo lasciarmi scappare, anche rischiando di perdere tutto».
Omero Ciai

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