venerdì 11 settembre 2015

Il Cristo caduto, repsera 11 settembre 2015



Chissà se tutto è cominciato quel maledetto pomeriggio di luglio 2014, quando la Seleçäo, la nazionale di calcio brasiliana, dovette subire uno storico 7 a 1 dai tedeschi, in una disfatta tanto brutale quanto inaudita che riempì di lacrime e vergogna i volti storditi di mezzo Paese.  D'altra parte, neanche a farlo apposta, la semifinale mondiale fra Brasile e Germania si giocava nello stadio di Belo Horizonte, la città della presidente Dilma Rousseff. La capitale dello Stato di Minas Gerais dove Dilma è nata, è cresciuta, ha frequentato l'Università e dove, dopo guerriglia contro la dittatura e galera, ha iniziato a muovere i primi passi nella vita politica. Dalla batosta nel pallone - che come sapete in Brasile è una religione nazionale tanto quanto la danza del Samba - alla sentenza di Standard & Poor's, che ieri ha tagliato il rating del debito brasiliano timbrando come "spazzatura" (Junk Bond) i buoni del tesoro locali, il passo è breve. A ripensarci, infatti, anche i primi, veri affondi, del pool dei giudici di Curitiba sullo scandalo Petrobras, il giro di maxi tangenti tra politici e imprenditori intorno all'holding petrolifera nazionale, che ha trasformato la crisi economica in catastrofe sociale e politica, allargando di molto i confini e le possibili conseguenze di questo declino, risalgono più o meno alle settimane successive alla capitolazione della Seleçäo.
Così oggi lo stesso Paese che fino a due anni fa era il "principe" dei Brics, la locomotiva economica capace di trainare tutta l'America Latina fuori dal fango delle favelas, il Paese che era stato capace di rovesciare la sua piramide sociale trasformando in classe media spendacciona milioni di suoi ex poveri, si trova ad attraversare una tormenta che soffia sempre più forte nelle stanze del Palazzo do Planalto, stupenda opera d'architettura modernista di Neimeyr a Brasilia, dove Dilma Rousseff vive ormai assediata con due terzi del Paese che non vede l'ora di disarcionarla. L'ultimo sondaggio sulla popolarità della Presidenta è impietoso: appena il 17% dei brasiliani l'approva, tutto il resto vuole, e al più presto, il suo scalpo. Politico, ovviamente. E, agenzie di rating a parte, anche i dati economici sono disastrosi soprattutto per una nazione che appena nel 2013 era tra quelle "più felici" del globo terraqueo e certa delle "magnifiche sorti e progressive" del suo prossimo futuro. Il Brasile è in recessione (-2% del Pil), l'inflazione cresce (+8%) e il governo è costretto ad affrontare un vigoroso taglio delle spese per contenere il deficit di bilancio, sforbiciando esattamente dove aveva creato l'impulso per l'espansione del mercato interno, ossia in quei robusti programmi sociali che sono stati per un decennio il fiore all'occhiello del PT, il partito di Dilma e Lula, ormai sconvolto dagli scandali del malaffare.
Se lo chiedi agli economisti, la risposta sulle ragioni del botto brasiliano è facile, quasi elementare: sono mancate le riforme strutturali. Il Brasile ha goduto di una lunga stagione di crescita, iniziata più o meno insieme al primo governo di Inacio Lula Da Silva nel 2002, trascinata dalle commodities, le materie prime di cui il Paese è ancora molto ricco (grano, soia, zucchero, caffé, ferro, petrolio), ma appena i prezzi internazionali sono calati c'è rimasto impigliato e, il "decennio prodigioso" quando il Pil balzava in avanti del 7-9% ogni anno, s'è infranto per il rallentamento della Cina, che qui comprava le materie prime, e per la crisi del Venezuela e dell'Argentina. Paradossalmente i segnali c'erano da tempo. Il primo a saltare fu Eike Batista, il miliardario self made man, protagonista nel 2013 di una rumorosa bancarotta che all'epoca venne attribuita alla sua cupidigia ma che conteneva già tutti gli elementi del disastro attuale. Eike, non a caso, commerciava con i cinesi e sulla voracità di Pechino, ghiotta di ferro e petrolio, aveva fondato il suo scalcinato, e ormai terremotato, impero. Il resto lo hanno fatto le politiche del governo Dilma e di quell'euforico Guido Mantega, l'ex ministro dell'economia, che mentre continuava a gonfiare la spesa pubblica andava in giro affermando che in pochi anni il Brasile sarebbe diventato la quinta, o magari anche la quarta, potenza economica del mondo sbaragliando non solo la Gran Bretagna ma anche la Germania.
Oggi il Brasile ha una nuova classe media che rischia di tornare indietro ma soprattutto non ha nuovi servizi, nuove scuole e università e ospedali per soddisfarla. Non ha allegerito la macchina pubblica, né migliorato granché le sue infrastrutture e continua a finanziare posti di lavoro con soldi che il bilancio dello Stato non ha più.

Quando Dilma Rousseff arrivò al potere, scelta da Lula per succedergli alla guida del miracolo brasiliano, nel 2010, l'economia cresceva al 7,5% e oltre 30 milioni di cittadini erano usciti dalla povertà: una svolta epocale per il gigante sudamericano che seminò nuove speranze sulla possibilità di combattere fame e esclusione sociale in tutta l'America Latina e non solo. Ora l'illusione sembra perduta ma quello che è molto più grave per il Brasile è lo scenario di disfacimento sociale e politico che accompagna le difficoltà dell'economia. Gli scandali e la credibilità di Dilma, rieletta appena un anno fa con un vantaggio molto scarso sul suo avversario. L'opposizione ha tentato, per ora senza successo, un procedura di impeachment  contro la presidente; poi ha scelto di sedersi sul fiume aspettando che sia la crisi, peggiorando, a portarsela via. Lei resiste e promette. Ma con poco successo. Mentre Lula, campione del decennio dei miracoli, trascorre il suo tempo, scrivono i giornali, a maledire contro il governo e contro Dilma, stella cadente che lui stesso creò.   

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