OMERO CIAI
BUENOS AIRES
C'è un modo facile facile per prendere il
polso all'Argentina. Bisogna andare nelle "cuevas" (grotte) di
Recoleta, il quartiere chic di Buenos Aires. Le cuevas sono i locali dove si comprano
o si vendono i dollari al mercato nero. Dall'esterno "le grotte" sono
irriconoscibili ma tutti sanno quali sono. Una porta di ferro senza insegne, un
campanello anonimo, una sala d'aspetto molto affollata, tutti in piedi perché
il via vai è rapido. Una delle eredità bastarde dell'epoca dei Kirchner - Nestor
(morto nel 2010) e sua moglie Cristina - che s'accinge a finire dopo 12 anni, è
proprio il controllo sugli acquisti di moneta Usa: c'è una quotazione ufficiale,
calmierata e sorvegliata, del dollaro; e un'altra, sul mercato libero, illegale
ma tollerato. La differenza tra le due, che oggi è superiore al 50%, dà un'idea
puntuale dello stato delle finanze del Paese. Più aumentano debito e inflazione,
più costa il dollaro. E gli argentini, che da sempre hanno zero fiducia nella
loro moneta nazionale, il peso, trascorrono le giornate cambiando. Dal dollaro
al peso e dal peso al dollaro, ovunque riescano a farlo. Quella sul valore ufficiale
del dollaro è una delle tante frottole di una sceneggiatura, quella
dell'Argentina felix, bella perché stoicamente autarchica e blindata contro la
globalizzazione, che ha fatto da backstage alla lunga stagione del kirchnerismo,
l'ennesima reincarnazione del peronismo.
La sera che siamo arrivati a Buenos Aires l'abbiamo trascorsa con Ismael
Bermudez, un principe del giornalismo economico del "Clarin" e bestia
nera della presidente, mentre i suoi colleghi, di tutti i giornali, gli
rendevano omaggio con una cena. "Senza il lavoro di Ismael - era il leit
motiv dell'ossequio - staremmo qui ancora a credere alle panzane dell'Indec
(l'Istat argentino, controllato dal governo) su inflazione e povertà". Il
giorno dopo è uscito il report dell'Uca, l'Università cattolica, istituzione
indipendente e molto vicina a Papa Francesco, secondo cui negli ultimi anni il
tasso di povertà è tornato a crescere e sfiora un terzo degli argentini, numero
molto superiore rispetto a quel 4,7% ufficiale che si son bevuti i buontemponi
della Fao premiando Cristina per le sue battaglie contro la fame mentre, in un
festival di spropositi, il portavoce del governo sosteneva che "in
Argentina ci sono meno poveri che in Germania".
Eppure Cristina Kirchner, 62 anni, presidente dal 2007 dopo
il marito Nestor, è uno dei pochi leader argentini che lascia il potere con un
indice d'approvazione positiva abbastanza alto, intorno al 40%. Una
spiegazione, insieme a quella dei suoi discorsi sempre molto infuocati contro
le banche e gli impreditori, è facile trovarla nella politica dei programmi
sociali e dei sussidi. C'è quello per le famiglie numerose, quello per i
giovani che non lavorano, quello per i pensionati poveri, quello per la salute
dei bambini. Un fiume di denaro, 15 miliardi di euro quest'anno, il 15% del
bilancio statale, che attraverso i "punteros", i delegati di zona
peronisti che controllano anche i voti, plana sulle "villas miseria",
le baraccopoli della sterminata provincia di Buenos Aires. Cristina ha programmi
per tutto e, in questi mesi elettorali, mentre la Banca centrale inonda
l'Argentina di denaro cash, ne rilancia uno a settimana. L'ultimo
"plan" si chiama "Renovar" e consente alla classe media di
cambiare il vecchio frigorifero e la vecchia lavatrice con un forte sconto che
finanzia lo Stato, a rate senza interessi. Poi ci sono i sussidi, dai trasporti
al riscaldamento, in un Paese dove la bolletta della luce è, letteralmente,
grazie alle sovvenzioni statali, più economica di un caffé. Una politica difficile
da sostenere a lungo, che gonfia sempre di più il deficit di bilancio ma che,
insieme ai continui aumenti, dovuti all'inflazione, di stipendi e pensioni,
garantisce a Cristina un ampio sostegno nelle classi popolari rinviando la
disgrazia dell'indebitamento nazionale a chi le succederà.
Lungo il Rio de la Plata i tempi della politica sono svelti.
Sette mesi fa, nelle settimane dell'indignazione per Alberto Nisman - il
procuratore che accusava la Kirchner e il suo ministro degli esteri di aver
stretto un patto diabolico con l'Iran sull'attentato all'Amia, il centro
ebraico saltato in aria vent'anni fa - trovato morto nel suo appartamento, la
presidente sembrava spacciata, quasi costretta a dimettersi prima della
scadenza del mandato. E invece è risorta di nuovo come l'Ave fenix. La tragica
fine di Nisman è ormai archiviata tra i grandi enigmi immortali e di lui non si
ricordano più nemmeno all'Itamae di Puerto Madero, il ristorante sushi con i
tavoli lungo il canale dove pranzava tutti i giorni. Se il peronismo è ancora, tra sogni irredenti
e deliri collettivi, soprattutto una mistica, un sentimento, bisogna ammettere
che Cristina Kirchner, con tutta la sua proverbiale superbia, ne ha interpretato
l'ennesima reinvenzione con grande astuzia, approfittando di un decennio di
boom economico, quello post bancarotta del 2001, ormai estinto, per affermarne
la vocazione più fortemente populista. Ha bloccato le importazioni, combattuto
le multinazionali, nazionalizzato la compagnia di bandiera, espropriato
l'holding petrolifera, cancellato il sistema privato delle pensioni e
annientato l'opposizione con ogni mezzo, lecito e illecito. Una divertente
definizione della ricetta Kirchner la dobbiamo a Fernando Gualdoni di El País:
"E' un cocktail con tre parti di peronismo degli anni Settanta, due di
socialismo bolivariano del XXI secolo, altre due di 'capitalismo per gli amici'
e, infine, una spruzzatina di marxismo da bar sport". Che però alla fine
non le è bastato per vincere l'unica campagna decisiva, quella che due anni fa
le avrebbe permesso di riformare la Costituzione, abolendo il divieto a ricandidarsi
per la terza volta consecutiva. "Ora
- dice cinico Jorge Lanata, famoso giornalista autore di un programma
d'inchieste in tv dove tutte le domeniche si fustiga Cristina - le converrebbe
perdere. Con l'opposizione al potere,
costretta a risanare i conti dello Stato tagliando sussidi e prebende, avrebbe
la possibilità di tornare tra quattro anni come la salvatrice dei poveri
d'Argentina". Perché se invece vincerà il suo attuale, ma niente affatto
amato delfino, Daniel Scioli, avrà poi tutto il tempo per affermare il suo
potere e lentamente Cristina scomparirà. "Il peronismo è un movimento
verticale - ammonisce Lanata -, non c'è posto per due leader. E tutti quelli
che oggi giurano fedeltà alla presidente, Scioli li metterà in riga".
Alla fine di ottobre, per le presidenziali, si affronteranno
Daniel Scioli, Mauricio Macri e Sergio Massa. Il primo, che è anche il
favorito, è il governatore peronista della provincia di Buenos Aires, dove
vivono quasi il 40% di tutti gli elettori; il secondo è l'ex sindaco
antiperonista della capitale; mentre il terzo incomodo, Massa, voltò le spalle
a Cristina per rifondare, un'altra volta, il peronismo. I primi due sono oriundi,
figli di genitori emigrati dall'Italia. E, comunque vada, tutto cambierà.
Mentre conta i giorni che l'avvicinano al suo addio al potere, Cristina lotta
contro i giudici che indagano sulle sue fortune materiali, un patrimonio
personale che s'è gonfiato per decine di milioni negli anni della presidenza, e
sogna l'eternità. Dopo aver intitolato in omaggio al marito Nestor, martire
della rinascita nazionale, piazze, strade e uffici pubblici, eretto statue e
mausolei, ha timbrato anche l'ultima opera di Stato: la trasformazione del
vecchio edificio delle Poste, dietro la plaza de Mayo, nel nuovo e immenso
"Centro culturale Kirchner", il Beaubourg di Buenos Aires. Intanto
che lei s'allontana e sembra che l'Argentina danzi ancora una volta intorno al
luogo del delitto, un altro crac del debito, non resta che citare lo scrittore
spagnolo Manuel Vicent, che una volta ha detto: "La mia passione per
l'Argentina è nata tanto tempo fa ma è rimasta sempre intatta perché continuo a
non capire niente di questo Paese. Si ama quello che non si capisce".
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