DAL NOSTRO INVIATO
OMERO CIAI
Il Parlamento del Brasile è uno dei luoghi più
originali del mondo. Siccome può entrarci chiunque, basta presentare un
documento, i suoi corridoi sono spesso attraversati da cortei interni di
manifestanti che protestano. Ci sono gli indios dell'Amazzonia che hanno
qualche problema da risolvere; femministe contro una nuova legge antiaborto;
operai licenziati; ambientalisti: un putiferio di contestatori in cerca di
ascolto e soluzioni come in una immensa agorà. Qui, l'opposizione al governo di
Dilma Rousseff, cerca, da settimane, i numeri per ottenere l'avvio della
procedura di impeachment della presidenta dopo gli scandali politici -
Petrobras su tutti - e le grandi manifestazioni in tutte le principali città
del Paese che hanno chiesto una svolta in una situazione che diventa ogni
giorno di più ingovernabile. L'assedio a Dilma è ormai un'agonia quotidiana in
un contesto che sembra davvero quello della tempesta perfetta: crisi economica,
crisi politica (il governo non ha più maggioranza parlamentare), e crisi istituzionale
(almeno un quinto dei 500 deputati del Congresso sono coinvolti nelle indagini
di corruzione). L'altro ieri è stata presentata al presidente della Camera, Eduardo Cunha, una nuova richiesta per la procedura di impeachment che dovrà
valutare nei prossimi giorni. Cunha è un leader degli evangelici, è diventato
presidente della Camera perché il suo partito, il centrista Pmdb, è alleato di
Dilma. Ma ora lui è un suo nemico. E nell'esecutivo si teme che possa fare
qualsiasi cosa, anche per spostare l'attenzione da una inchiesta che lo vede
coinvolto e accusato di possedere fondi
provenienti dalla corruzione in almeno quattro conti segreti in una banca
svizzera. Nel parlamento brasiliano ci sono 28 partiti, molti piccoli e
piccolissimi, che ballano da una parte all'altra intorno ai tre maggiori (PT
-sinistra -, Psdb - opposizione -, Pmdb -centristi-) e quello che ieri sembrava improbabile, la
messa in stato d'accusa di Dilma, domani potrebbe diventare facilmente realtà.
I fronti della battaglia oggi sono almeno quattro. C'è il
tribunale dei Conti che ha respinto il bilancio delle spese del governo per il
2014. E sulla base del quale, per "irresponsabilità istituzionale", è
stata presentata l'ultima richiesta di impeachment. C'è il tribunale elettorale,
che sta esaminando le denuncie sull'ultima campagna presidenziale (autunno
2014), nelle quali Dilma è accusata di uso di fondi illeciti. C'è il
Parlamento. E c'è, infine, il tribunale del Parana, dove prosegue "Lava
Jato" (lava auto), la madre di tutte le inchieste sulla corruzione
politica. Gli scenari dell'accerchiamento alla presidenta sono due, ci spiega
Carlos Zarattini, vice capogruppo alla Camera del Pt. Se l'impeachment inizia
in Parlamento a cadere sarebbe solo lei e, particolare per nulla insignificante,
a prenderne il posto fino alla fine del mandato (2018) sarebbe il vice
presidente Michel Temer, esponente del Pmdb, stesso partito di Cunha, alleato
ma non troppo del Pt di Lula. "E sarebbe un golpe", ripete Dilma. Se
invece l'impeachment inizia nel tribunale elettorale cascano tutti e si va a
nuove elezioni entro 90 giorni. Insomma una classica sceneggiatura dove colpi
bassi, ricatti, e prebende da basso impero in Parlamento la fanno da padroni.
In realtà l'altro problema sul palco del teatro politico è che l'opposizione è
divisa sulla strada da seguire per ottenere l'obiettivo della fine anticipata
della presidenta. Aecio Neves, il candidato dell'opposizione Psdb sconfitto da
Dilma nell'ottobre scorso per una manciata di voti, punta dritto alla messa in
Stato d'accusa mentre il padre nobile dello stesso partito, l'ex presidente
Fernando Henrique Cardoso, invita alla calma, a evitare una rottura
costituzionale e preferirebbe, forzando il tormento, le dimissioni di Dilma.
Isolata nella sua torre d'avorio presidenziale, l'elegante
palazzo dell'Alvorada disegnato da Niemeyer all'estremità di Brasilia sulle
sponde del lago Paranoà, Dilma Rousseff sa benissimo che, se anche riuscirà a
sopravvivere alla baraonda parlamentare, il suo destino lo deciderà l'economia.
Dopo un fantastico decennio di crescita il Brasile è entrato in una recessione
che, per gli esperti, durerà almeno due anni. La disoccupazione cresce e è
previsto che entro febbraio 2016 superi la soglia psicologica del 10 percento. Il
real, la moneta brasiliana, si è già svalutato di oltre il 30% in pochi mesi. Le
maggiori agenzie internazionali di rating hanno derubricato il debito del
Brasile al limite dei bond spazzatura nonostante il governo continui a
contenere il deficit tagliando la spesa sociale. E qui scoppia l'ultima
disgrazia di Dilma. Ormai è isolata soprattutto nel Pt, il suo partito.
"Tagli, tagli e ancora tagli. Non può continuare così - dice Carlos
Zarattini -. Bisogna cambiare la politica economica, scegliere misure anticicliche,
lo Stato deve riprendere a investire". Lula, leader indiscusso della sinistra
brasiliana, ha chiesto la testa di Joaquim Levy, il ministro dell'economia
liberista, scelto anche con il suo appoggio da Dilma l'anno scorso per
rimettere a posto i conti del bilancio statale e calmare il nervosismo dei
mercati. Ma lei, per ora, resiste. Convinta che solo risanando si potrà poi
ricominciare a crescere. Lula, invece, che non nasconde il suo desiderio di
ripresentarsi candidato alla presidenza non può rinunciare a quel che ha
costruito: i 30 milioni di brasiliani usciti dalla miseria, parte dei quali,
senza i programmi sociali dello Stato, rischiano di tornarci. Lo scontro è
duro. E Lula, inseguito anche lui dai giudici del "Lava Jato",
soprattutto per colpa di figli e cognate che avrebbero approfittato della
parentela per arricchirsi, viene ormai a Brasilia tutte le settimane per
assediare, perfino lui, la presidenta che scelse come erede. Cercò di
convincerla già l'anno scorso a non ripresentarsi per un secondo mandato
lasciandogli subito campo aperto. Ora, con l'appoggio del partito, vuole
commissariarla. Almeno sulla politica economica. Intanto, stasera, estradato
dall'Italia, torna per scontare la condanna a dodici anni di carcere, Henrique
Pizzolato, il banchiere del Mensaläo, il primo scandalo del partito dei lavoratori,
al potere dal 2002. E un altro caos è servito. Un'altra spina per Dilma.
L'opposizione festeggia convinta che ora Pizzolato parlerà ingrossando accuse,
vere e presunte. L'agonia continua.
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