sabato 30 luglio 2011

Con Marquez (da Repubblica 8 marzo 2006)

Alla festa con Gabo Marquez


dal nostro inviato OMERO CIAI


CARTAGENA - CI SONO quattro cose che Gabriel Garcia Marquez, Gabo come lo chiama la gente o Gabito come lo chiamano i familiari, ama davvero. Il whisky, ma solo quello di malto e ben invecchiato, il baseball, la musica ballabile (bolero e rumba), e la diplomazia segreta. Appena si alza dal tavolo, alla fine della sua cena di compleanno («è un giorno come tutti gli altri, niente torte») guarda il bicchiere di whisky mezzo pieno e dice: «Ti regalo metà delle mie ricchezze. Ma se avessi saputo subito che eri un giornalista», continua, «non avrei scambiato con te neppure una parola». E aggiunge: «Ho fatto il giornalista tutta la vita e so come lavoriamo: troppo di corsa. Ci vuole più tempo per fare le cose bene. Non basta mai». «Sì, maestro ma in Italia tante persone la leggono, tante le vogliono bene». Sorride. Ha un modo di sorridere vero e tenero come quello di un bambino. Allunga un braccio che si appoggia sulla nostra spalla e dice ancora: «è vero, nella vita non c'è nulla di più bello che essere amati dagli altri». Siamo in un ristorante che si chiama «La Langosta» (l'aragosta), fuori le mura di Cartagena de Indias a qualche chilometro dal vecchio centro coloniale di questa cittadina dei Caraibi colombiani. E' un luogo un po' kitsch ricavato in una vecchia villa con ampio giardino e abbastanza appartata, lontano dalla strada. Lo ha scelto Mercedes Barcha, la moglie di Marquez, per evitare che il compleanno del marito si trasformasse in una festa fuori controllo. La "leonessa" - così chiamano Mercedes anche i parenti - veglia sulla vita dell' anziano scrittore, lo guida e lo controlla. è Mercedes che decide chi può disturbarlo, che cosa deve mangiare, quanto può bere, dove può andare. «Senza di lei, Gabo si troverebbe immediatamente perduto». Lui un po' si lamenta («finalmente posso mangiarmi una zuppa d' aragosta, se venite a pranzo a casa mia c' è solo il riso in bianco») ma accetta volentieri quest' amore ossessivo che lo cura - Marquez soffre da anni di un tumore al sistema linfatico - e lo conserva sano. Alla cena ci sono soltanto familiari (il fratello Jaime con la moglie e una figlia) e alcuni amici (l' attore italiano Salvo Basile che arrivò qui nel '68 per girare Queimada con Pontecorvo e non è più tornato indietro; un ex sindaco e i responsabili della scuola di giornalismo che il premio Nobel ha fondato a Cartagena). Marquez è un po' offeso perché un giornalista ha scritto che «ha la mano fredda come un moribondo». «Senti qua, ho la mano fredda?». Ovviamente no. Lui aveva fatto una metafora con il baseball. Il lanciatore nel baseball deve avere sempre la mano «calda», che vuol dire «allenata», «pronta» per quando deve lanciare e per questo muove continuamente il braccio, lo fa girare. Per lo scrittore è lo stesso - dice Marquez - deve avere la mano calda, allenata. E lui adesso si sente un po' fuori allenamento.

Poi ieri un inviato dell' Excelsior di Città del Messico ha scavalcato il muro della sua casa e s' è nascosto dietro una pianta per avere un reportage in esclusiva. L' ha beccato la cuoca ed è stato cacciato. «Se avesse suonato alla porta gli avremmo aperto», commenta. Adora essere così famoso ma rifugge i giornalisti e gli intellettuali. «Io non sono un intellettuale», dice. Gli piace la gente comune perché di questo si nutre. Delle storie della gente qualsiasi, quelle che usa nei romanzi. E si ferma più volentieri a parlare con un portiere, con un autista, con un cameriere che con un' altra persona famosa meno di lui. Ad Aracataca, l' epica Macondo di Cent' anni di solitudine dove nacque il 6 marzo di settantanove anni fa, c' è tornato in segreto qualche anno fa e ha fatto il bagno nel fiumiciattolo con le «pietre grandi come uova di dinosauro». Ma oggi non poteva andarci. Intanto - spiega - perché c' è un rischio per la sua sicurezza. Aracataca è a quattro ore di macchina da Cartagena, verso l' interno del paese. Zona di guerriglia. Poi perché - l' uomo è superstizioso - non vuole dare l' impressione che sta «tornando sui suoi passi» come qualcuno che sente vicina la morte. In famiglia c' è un aneddoto sul fiumiciattolo di Aracataca che racconta Jaime, il fratello. Gabriel Eligio Garcia (il telegrafista) e Luisa Marquez (meglio nota in famiglia come l' Ursula dei Cent' anni) ebbero undici figli. I primi, come Gabo, nacquero ad Aracataca. Gli altri, come Jaime che nella vita ha fatto l' ingegnere civile, nacquero a Sucre. Così quelli che da piccoli si bagnarono nel fiume delle uova di dinosauro sono più intelligenti, fantasiosi e scaltri degli altri. Marquez ha trascorso tutta la giornata nella sua casa: un gioco di cubi e quadrilateri rossi progettato più di dieci anni fa da un architetto colombiano. Lo hanno chiamato presidenti, amici ma anche gente comune. «Castro?». «Si anche Fidel». «Shakira?» (la rock star colombiana). «No, Shakira non ha chiamato ancora. Ma ci sentiamo spesso. Vado sempre ai suoi concerti, se posso». L' aspetto meno noto di Marquez, che stasera i commensali tra una zuppa di granchi e un sorbetto di maracujà vogliono scoprire, è la sua ossessione per la diplomazia segreta. Come quando andò da Clinton con un messaggio di Castro o come oggi che s' è offerto mediatore tra la guerriglia e il governo in Colombia. Ma questi sono i casi grossi, quelli che poi finiscono sui giornali.

La sua opera diplomatica invece è qualcosa di quotidiano, materia di ogni giorno. C' è sempre qualcuno che lo cerca affinché intervenga. Così c' è il caso del poeta cubano dissidente da salvare o quello di un colombiano, amico di amici, che non riesce ad ottenere il visto per gli Stati Uniti. Oppure, come racconta stasera, quella volta che un gruppo di esuli cubani a Miami lo contattarono segretamente affinché aiutasse un loro amico ammalato a tornare sull' isola dove «sarebbe stato curato meglio che in America». Ama questo potere di mediazione che gli attribuisce la fama e lo esercita tutte le volte che può. Marquez ha case in tutto il mondo. A Città del Messico, dove risiede la maggior parte dell' anno. A Bogotà. A Barcellona. A Parigi. Ma è qui a Cartagena che si sente a casa. Esce volentieri, cammina per le stradine del vecchio centro, un gioiello dell' architettura coloniale dove ha ambientato L' amore ai tempi del colera. E saluta tutti affabile e affettuoso come se avesse a che fare con i personaggi dei suoi romanzi. A Cartagena viene la Colombia chic. E dopo Marquez hanno comprato casa nel vecchio centro personaggi come Botero e Julio Iglesias. Alla fine della cena Jaime ragala al fratello una copia delle Mille e una notte, «il libro dei libri che avrà già letto cento volte». Sulla dedica c' è scritto: «Al mayor puta de Aracataca da un Gabitero». «Puta» nell' argot locale sta per mamagallo che tradotto in italiano vuol dire qualcosa come una persona a cui piace contraddire e prendere in giro gli altri. Mentre gabitero è una delle tre cose nelle quali può trasformarsi un amante della letteratura di Garcia Marquez. Ci sono i «Gabofolos» (ossia gli esperti), i «Gabofilos» (ossia gli amanti semplici) e i «Gabiteros» (che sarebbero i «tifosi»). Camicia verde pallido a maniche corte e insostituibile giacca leggera a quadretti (Marquez usa solo quelle) Gabriel s' avvia verso la porta del ristorante. «Andiamo a fare un giro in centro», dice alzando le braccia prima che intervenga Mercedes: «No Gabito domani. Oggi è tardi, andiamo a casa».

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