sabato 30 luglio 2011

Raul Rivero, 9 dicembre 2004, l'intervista che mi è costata l'espulsione da Cuba

Il poeta che sfida Fidel
Resto a Cuba per scrivere


DAL NOSTRO INVIATO OMERO CIAI


L' AVANA - La casa di Raul Rivero è al terzo piano di un palazzetto bianco nel vecchio quartiere di Centro Havana. Un rifugio modesto che raggiungiamo tra le bestemmie del tassista per le grandi buche nell' asfalto di calle Penalver, la strada che dal mare risale fino a questa collinetta. Bisogna arrivarci per parlare col poeta dissidente rilasciato, insieme ad altri oppositori, la settimana scorsa dal regime cubano. Rivero ha staccato il telefono e riceve solo quelli che s' avventurano fin qui. «Ho un enfisema ai polmoni», dice, quasi scusandosi, «e mi è andata via la voce. Non posso rispondere a tutti quelli che chiamano. Così il telefono non lo sento nemmeno». Ha aperto la porta guardingo, protetto dall' ombra del salottino. Ma appena sente «Repubblica» e «Italia», il suo volto s' allarga in un sorriso. «Ho conosciuto tanti giornalisti italiani quand' ero corrispondente a Mosca, erano i miei migliori amici. Oh, ma è passato tanto tempo». Raul Rivero ha 59 anni, è stato, a lungo, un giornalista di Prensa Latina, l' agenzia di stampa ufficiale cubana, per la quale, a suo tempo, lavorarono da giovani anche molti grandi personaggi della letteratura latino americana come Gabriel Garcia Marquez (che fu corrispondente a New York) e Mario Vargas Llosa. Dopo l' 89 e il crollo del sistema sovietico lasciò l' agenzia e iniziò a pubblicare le sue poesie. Nel 1991 firmò un documento conosciuto come «la lettera dei dieci intellettuali a Fidel Castro», nel quale si chiedevano riforme politiche ed elezioni democratiche. In seguito fondò Cubapress, che fu il primo nucleo di giornalisti indipendenti nell' isola, e la diresse fino all' arresto, nel marzo del 2003, e alla condanna a vent' anni di carcere per «attività controrivoluzionarie». è l' unico dei dieci intellettuali che scrissero a Castro a non essere andato in esilio. Deve la sua liberazione alla nuova politica di dialogo tra il governo cubano e l' Europa promossa dal premier spagnolo Zapatero? «Credo proprio di sì». Dunque fu un errore imporre sanzioni e provocare il congelamento delle relazioni diplomatiche quando siete stati arrestati? «No, in nessun caso. Però credo che con il regime cubano bisogna saper cambiare politica quando è necessario. In questo momento la proposta di riaprire il dialogo può avere conseguenze positive mentre insistere in un atteggiamento di scontro e sanzioni può solo provocare una maggiore chiusura del regime». Vuol dire che sotto la pressione internazionale Fidel Castro non ha mai liberato nessun dissidente? «L' esperienza indica proprio questo. Con una politica di scontro aperto - come quella che da sempre sostengono gli Stati Uniti - non si ottiene nulla. Pressioni, sanzioni, ricatti diplomatici non hanno mai funzionato con le autorità cubane». Fra pochi giorni, il 14, i ministri degli esteri dell' Unione europea si riuniranno per discutere la politica comune verso Cuba. «L' atteggiamento dialogante del premier spagnolo ha avuto delle conseguenze pratiche molto importanti. Sono convinto che altri prigionieri politici verranno rilasciati nei prossimi giorni. E, per questo, consiglierei ai governi europei di orientarsi per il dialogo. Ma dopo aver verificato bene che anche dalla parte cubana ci siano buone intenzioni. Nelle carceri cubane ci sono almeno altri trecento detenuti politici, c' è molto da ottenere con il dialogo». è stato sempre in isolamento nei venti mesi che ha passato in carcere? «Tutto il primo anno l' ho trascorso in una prigione di massima sicurezza in completo isolamento. Ero in una "cella di rigore" molto piccola e quando mi lasciavano salire al patio a prendere un po' d' aria avevo sempre le manette ai polsi e non potevo incontrare nessuno degli altri detenuti. Poi le condizioni migliorarono, mi trasferirono in un carcere meno duro». Poteva scrivere? «Mi hanno detto che potevo scrivere soltanto poesie d' amore». Doveva far leggere a qualcuno quello che scriveva? «Sì, sempre. Ma con gli agenti della sicurezza dello Stato succedono cose divertenti, a volte. Io scrivevo poesie d' amore a qualsiasi cosa. Finché un giorno ho scritto una poesia d' amore alla mia casa. Iniziava così: "Stanotte sta piovendo sulla mia casa". Non so perché, ma l' hanno censurata». C' è un aspetto contraddittorio che si nota subito a Cuba: in molti, privatamente, s' oppongono al regime, però quando si tratta di difendere qualcuno che è finito ingiustamente in carcere non si muove nulla. «Questa è una conseguenza della paura. I cubani hanno paura. Viviamo in una società molto chiusa, con un grande controllo da parte dello Stato, della polizia, nella quale nessuno si sente libero di esprimersi. Ci sono persone che conosco da una vita che quando mi incontrano cambiano strada. Oggi a Cuba io posso salutare al massimo due o tre persone pubblicamente». Crede che il carcere l' abbia cambiata? Continuerà a svolgere una dissidenza attiva verso il regime oppure pensa di essere più attento, più conciliante? «Sinceramente spero che il carcere non mi abbia cambiato. Io voglio vivere a Cuba ed essere libero di scrivere quello che penso. Adesso aspetterò quello che succede nelle prossime settimane. Se mi rendo conto che posso ancora svolgere il tipo di giornalismo in cui credo, quello che ho fatto prima di andare in carcere, resterò qui, altrimenti.. » Altrimenti? «Non lo so, forse sarò costretto ad andarmene». Le hanno suggerito di andare in esilio? «No. Mi piacerebbe uscire dall' isola ma con la possibilità di tornare. Sono dieci anni che non vedo mia figlia. Vive ad un' ora di volo da qui, in America. E ho una nipotina che non ho mai visto». Gli occhi chiari di Rivero si perdono osservando la stanza. La piccola libreria, la sedia a dondolo vicino alla finestra, il mobile di legno scuro graffiato dai gatti dove ha raccolto le lettere e i premi che ha ricevuto in questi mesi. Lo sa, ma non vogliamo costringerlo a dirlo, che anche la sua vita è entrata in quella strada senza vie d' uscita che ha costretto decine di intellettuali all' esilio prima di lui. Da quando è entrato in carcere ha ricevuto sette premi internazionali, borse di studio, attestati, sovvenzioni. L' ultimo è il comune di Granada in Spagna, che gli ha offerto uno stipendio per un anno se accetta di trasferirsi a vivere lì. Sirene fortissime che lo chiamano e lo seducono. Ma lui sa che andarsene potrebbe essere per sempre. E non ha nessuna voglia di lasciare questo quartiere di malaffare pieno di piccoli spacciatori, prostitute, vecchie che vendono sigari di contrabbando e ladruncoli dall' aria maliziosa. «Queste strade sono il sangue della mia poesia», dice, «non potrei vivere senza». «Ma io a Cuba sono come un fantasma. Non posso comprarmi una macchina, non posso comprarmi un computer. Vivo nel Medioevo, scrivo a mano sulla carta, eppure vorrei restare e lo farò se mi lasceranno lavorare in pace».

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